Viaggio al Capo Nord - 08

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molto denaro, o che sieno mandati dal governo per esaminare il paese; e
conseguentemente che sieno ben pagati dal re. In quanto poi a noi non
avevamo altri del cui servigio giovarci. Ci acconciammo dunque a que’
patti.
Il dì 9 di luglio fu quello della nostra partenza da Kantokeino. Il
tempo era bello: il termometro di _Celsius_ segnava all’ombra 25 gradi,
e 40 esposto al sole: messo nell’acqua si abbassava ai 19. Le donne
del villaggio vennero ad accompagnare i loro mariti sino al fiume;
e ci diedero con molta cordialità il buon viaggio. Il viaggio che
intraprendevamo era lungo e penoso; e nissuno delle nostre genti lo
avea fatto mai in estate. Eravamo nove persone in tutto; ed avevamo
due battelli. La nostra partenza privò il villaggio di due terzi
della sua popolazione; e lasciò in vedovanza per qualche tempo i
cinque ottavi delle donne maritate. Queste donne ci seguirono cogli
occhi finchè una svolta del fiume tolse alla loro vista la nostra
flottiglia. E quella sì lercia, e sì piccola moglie del maestro di
scuola non fu la meno cordiale ad attestarci l’interessamento sentito
per noi, e il rincrescimento suo in separarsi da’ suoi amici, e da’
suoi ospiti. _Addio, buon popolo! Addio, buona gente!_ queste furono le
ultime parole che noi udimmo fino alla distanza, in cui esse poterono
giungerci.
Era il fiume Alten quello che prendevamo a navigare; e ci parve uno
de’ più belli, che fino allora avessimo veduto. Esso è formato nel suo
principio da una successione di laghi, differenti per estensione, e per
figura, con isolette varie, ornate di bei gruppi di betulle: onde lungi
dall’avere un aspetto aspro, e selvaggio, il paese potrebbe piacere
anche in un clima temperato. L’acqua poi era chiara come un cristallo,
e le sponde coperte di una sabbia finissima.
Io debbo qui dire come, quantunque fossimo sempre durante questo
viaggio sull’acqua, noi eravamo tormentati da una sete continua.
L’acquavite ce la faceva crescere, e quella de’ laghi, e de’ fiumi,
essendo troppo esposta all’azione continua del sole, ci nauseava. Ma
se trovavamo una fontana ombreggiata da alberi, od uscente da qualche
secreto sbocco di monte, oh! allora che delizia! Ne trovammo alcune di
queste fontane, la cui temperatura non andava oltre i quattro, o cinque
gradi; facevamo gozzoviglia da epicureo.
Proseguendo il viaggio incontrammo una doppia cateratta in un sito ove
le acque dell’Alten si uniscono tutte in un canale, che vien chiuso da
un masso enorme di rupi. Ivi la velocità, colla quale la corrente si
precipita, produce nel letto inferiore una tale agitazione, che vi si
alza una nube di vapori, in cui la luce del sole rifrangendo forma il
più maestoso arco baleno, che possa vedersi. Ma ivi non può passarsi
per la lunghezza di un miglio: onde dovemmo strascinare per terra i
nostri battelli fino al sito, in cui il fiume era praticabile. I Laponi
che ci guidavano, aveano sul lembo della cascata stabilito un magazzino
di pesci che facevano seccare al sole. Noi, dopo avere ammirato le
selvaggie bellezze della cascata, accendemmo sulla riva un fuoco per
preparare di que’ pesci, lessandone alcuni, ed altri arrostendone.
Mangiato poi che avemmo ci rimettemmo ancora in viaggio, ed a misura
che procedevamo, sempre più ci colpiva la magnificenza di quella
cataratta; e i numerosi suoi accidenti spiegavano ognora più a’ nostri
sguardi l’ammirabile loro maestà. Noi cedemmo al piacere di disegnarla.
Ma cosa è il disegno in confronto della realtà?
Noi prendemmo il cammino sopra un braccio del fiume, la cui corrente
avea una tale rapidità, che al dire de’ nostri Laponi in un quarto
d’ora facemmo circa otto miglia; e per provarci il fatto c’invitarono
a tener l’occhio ai nostri orologi; e la prova ci mostrò che avevamo
impiegati 20 minuti per fare un miglio di Norvegia, il quale appunto
equivale ad otto de’ nostri. I nostri condottieri aveano allora bisogno
di qualche riposo; e noi smontammo, ed alzammo le nostre tende presso
la piccola chiesa di Massi alla dritta dell’Alten. Ivi accendemmo varii
fuochi per difenderci da quegli eterni inimici, che trovavamo pronti da
per tutto a succhiarci sino all’ultima stilla il nostro sangue. Intanto
innanzi di riposare i nostri Laponi ci domandarono la permissione di
andare a gittar la rete nel fiume, ove furono accompagnati dal nostro
interprete. Un quarto d’ora dopo ritornarono con più di 200 pesci di
diverse sorti, e grandezza; ed alcuni erano lunghi più di un piede. Se
ne preparò una parte per nostro pasto: gli altri furono sventrati, e
attaccati agli alberi perchè si seccassero.
La mattina seguente prima di rimetterci in viaggio andammo a visitare
la chiesa di Massi, situata in mezzo a boschi, e macchie a circa 300
passi dal fiume. Se non avessimo ancora veduto Laponi, vedendo questa
chiesa avremmo dovuto concludere che i Laponi sono uomini pigmei; ma
come avevamo già veduto che i Laponi non sono pigmei, osservando la
singolare picciolezza delle dimensioni, nelle quali questa chiesa
è fabbricata, io mi sentii obbligato in coscienza a credere che si
fosse qui fabbricato il modello della chiesa, anzi che la chiesa.
Immaginatevi ch’essa ha una porta non alta più di tre piedi, un
tetto alto ai fianchi sei piedi; e che l’edifizio totale, compreso il
vestibolo, la nave, e la sacristia, non eccede in lunghezza 120, o 130
piedi, e i 12 in larghezza. Più che penso a questa chiesa pigmea, e più
mi perdo in mille fantasie, che non mi so spiegare. Che siasi voluto
fare la satira delle colossali chiese che si ammirano in tutti gli
altri paesi? Ma nè i Laponi s’imbarazzano a far satire sui paesi che
non conoscono; nè sono stati sicuramente i Laponi, che hanno disegnata,
e fabbricata questa chiesa pigmea.
Avevamo navigato per venti miglia quando c’incontrammo in due Laponi
di Kantokeino, venuti a cercar migliore pescagione. Nel sito, in
cui eravamo giunti, dovevamo smontar di battello, e metterci a
sgambettare sulla grande catena delle montagne, tra le quali l’Alten
va serpeggiando, e ripiegandosi in mille giri. Esso presenta ivi
varie cataratte, le quali rendono la navigazione impraticabile. I
nostri cinque Laponi s’intesero con codesti due, onde si unissero loro
ajutandoli a portare le robe nostre; e messi a terra i battelli, e bene
assicurati ad alberi, ci ponemmo tutti a trottare per la montagna alla
sinistra dell’Alten, vicinissimi ad un fiumicello chiamato Koinosjoki,
il quale discende dal monte Kulli-tunduri. Questo fiumicello ha nel
suo corso una cascata singolarissima in quanto che s’apre il passo
attraverso di una rupe, che s’ha forata a modo di un ponte. Continuammo
a salire per quattro buone miglia attraverso di betulle nane, e di un
musco molto fitto: cosa che ci affaticava assai. Il cielo era coperto
di nubi; ed il calore soffocante. Sarebbe bastato questo per una
congrua penitenza della nostra temerità: ma, no signore: voleasi una
giunta peggiore. La temperatura, che correva, era favorevolissima per
le zenzale, che ad ogni nostro passo tra que’ cespugli, e quel musco
uscivano a sciami, e ci avviluppavano dalla testa sino ai piedi. Dopo
le quattro miglia, che ho dette, la montagna cominciò a comparire arida
e nuda: non più un albero, che potesse darci idea di distanze: tutto
il suolo era coperto di musco ordinario, salvo dove quell’immenso
tappeto veniva rotto da paludi, da bacini d’acqua, e da laghi, il
complesso delle quali cose rendeva il paese malinconico e tristo
oltre ogni dire. In quel deserto andavamo ogni momento a pericolo di
perderci, mancando d’ogni segno d’indicazione. Alla cima della montagna
attraversammo uno spazio di circa 15 miglia, ora smarriti tra le nubi,
ora inceppati nelle nevi, quantunque fossimo nel cuor dell’estate;
e là la temperatura era ben cambiata. Fortunatamente le zenzale non
aveano ivi ospitalità favorevole; e se non avessimo dovuto passare fra
cespugli, appena avremmo provato da que’ crudelissimi nemici qualche
assalto. Ma quelli, che sul principio del nostro salire la montagna
avevamo fatti alzare, ci accompagnavano fedelmente anche lassù; e ci
perseguitavano ancora in mezzo alla neve; nè aveamo mai un filo di
vento che ci soccorresse. Nel passare per que’ tremendi luoghi vedemmo
un lepre bianco, ed alcuni uccelli proprii di quelle alture, e ci venne
in pensiero di far uso delle nostre armi. Ma que’ nemici ostinati
c’impedivano anche questo piccol conforto per quanto stava in loro:
imperciocchè dovendo noi cavarci i guanti per caricare, prender la
mira, e toccare il punto, ci cadevano a migliaja sulla parte del corpo,
che dovevamo lasciar nuda. Noi eravamo disperati, non avendo alla
mano con che far fuoco, onde cacciare da noi quella peste. Andando in
traccia di qualche albero ci abbattemmo fortunatamente in una capanna,
che il più vecchio delle nostre guide ci disse essere stata eretta
da alcuni mercadanti per luogo di loro riposo, e per iscaldarvisi in
tempo d’inverno. Questa capanna non era più che un quadrato di otto,
o dieci piedi, tutta di legno, e con in cima un’apertura per l’uscita
del fumo. Noi facemmo chiudere quell’apertura per meglio conservare di
dentro il fumo; e v’entrammo poscia quando accesovi il fuoco, fu piena
di fumo tutta quanta. I malefici insetti allora furono obbligati ad
abbandonarci. Noi eravamo lì stretti come le sardelle nel barile; ma
così stretti, e così affumicati, non avendo per sedere, o giacerci che
la nuda terra, dico apertamente che mi pareva di stare assai meglio,
che in qualunque buona locanda d’Inghilterra, o di Francia. Primo
nostro pensiero, così ammonticchiati tutti l’uno sull’altro intorno
al fuoco, fu di prepararci la cena colla selvaggina procacciataci
cammin facendo; e tuttochè non cessassero gli occhi di sgocciolarci
pel fumo, andavamo lietissimi tracannando grossi bicchieri d’acquavite
alla distruzione dei nemici, che ci tenevano bloccati. Dopo avere ben
bevuto, e ben mangiato, e bevuto ancora, attortigliati insieme come
le biscie ci addormentammo. Il tempo intanto si era mutato; ed un
vento gagliardissimo erasi alzato, il quale minacciava di rovesciarci
addosso la capanna. Non era quella capanna molto forte; ma grande
consolazione era per noi il pensare che quel vento procelloso cacciava
al diavolo quelle zenzale pestifere; e ad ogni fischio del vento ci
dicevamo l’un l’altro: ecco i nostri nemici in piena rotta: l’assedio
è finito; ed essi sono a qualche miglio lontani; e così dicendo ci
addormentavamo placidissimamente di bel nuovo. Ma non era già vero che
i nostri nemici fossero andati via; e ben ne feci io trista prova. La
mattina corsi fuori della capanna senza guanti, senza velo, e senza
cappello, avido di respirare l’aria fresca; e mi fermai ad osservare
tranquillamente l’aspetto del paese, e volli anche fare un giro
all’intorno della capanna per assicurarmi da me se noi fossimo in fine
liberi dai nemici; quando eccoli uscire da una imboscata, e saltarmi
addosso a sciami senza misericordia, e coprirmi in ogni parte. Come io
mi dibattessi, come menassi e mani e piedi, lo lascio concepire a chi
può farsi una giusta idea del flagello, sotto cui mi trovava. Corsi
alla capanna, sperando nel fumo, che ivi avea lasciato; ma non ve n’era
più ombra. Pare che il demonio avesse suggerito a que’ tristi insetti
di accovacciarsi in tempo della procella nel di dietro di quella
catapecchia per difendersi dalla violenza del vento, col proposito di
ripigliare i loro assalti tosto che fosse ritornata la calma. Ed in
fatti appena ci rimettemmo in viaggio, li vedemmo assalirci in maggior
numero pur anche di prima.
Noi dovevamo fare ancora 40 miglia prima di arrivare al villaggio di
Alten. Il temporale durato tutta la notte non avea purgata l’atmosfera
a modo che il cielo fosse rimasto chiaro; e lo spazio che dovevamo
percorrere in quella giornata ci presentava una prospettiva quasi
trista al pari dell’antecedente. Qualche volta considerando la quantità
di neve che incontravamo, ci pareva di dover essere alti più che lo
fossimo stati sulle montagne passate dianzi; e il nostro domestico in
particolare non sapeva darsi pace vedendosi tanto vicino alle nubi,
e parendogli d’essere lì lì per montare in cielo. Una volta, avendo
voluto appressarsi ad una nube splendente di bei colori, tanto andò
oltre, che si smarrì; e per qualche tempo lasciò noi incerti di sua
sorte, poichè avendo sparati i nostri fucili per chiamarlo, tardò assai
tempo a farcisi vedere. In fine incominciammo a discendere, e giungemmo
come per incanto ad un paese ineffabilmente bello, e splendente, per
la prospettiva maestosa che ne presentavano i monti, per la superba
vegetazione, onde tutto era animato; e meraviglia, e contentezza
ispirava agli animi nostri la confortatrice stupenda forma colossale,
in che ogni cosa in quel nuovo mondo colpiva i nostri occhi. E crebbe
ben presto il nostro piacere, singolarmente rivedendo di nuovo l’Alten,
traente le sue acque fra ricchi prati, e con quella rapidità, che
avevamo già ammirata nel nostro passaggio da Kantokeino a Koinosjoki.
Da Kantokeino al bel luogo, ove allora ci trovavamo, spazio di 120
miglia, non avevamo incontrata mai altra faccia umana, che quelle dei
due Laponi aggiuntisi alla nostra brigata. Qui trovammo un pescatore
venutovi per cercar de’ sermoni. Avea costui seco la sua donna,
la quale quando sentì il calpestio nostro, fu così spaventata, che
incominciò a persuadere al marito di prender la fuga insieme con lei
per paura di rimaner preda di qualche bestia selvaggia, o di qualche
incognito mostro. Ciò che dimostra come sia cosa assai straordinaria
il trovare in que’ boschi deserti figure umane. Quando giugnemmo presso
que’ due la donna non era rinvenuta ancora dalla paura. Quella donnetta
era giovine; e il cangiamento che la paura avea portato nella sua
fisonomia, la rendeva anche più interessante. Forse la solitudine, in
cui eravamo, forse l’essere da tanto tempo privi del consorzio del bel
sesso, contribuivano a destare in noi que’ dolci sentimenti. Ma era in
lei anche qualche cosa, che poteva più direttamente contribuirvi: chè
quella cara donnetta non era indegna d’aver posto tra le bellezze del
Nord. Avea gli occhi neri, i tratti regolari, i capelli castagni......,
ed io non poteva levarle gli occhi d’addosso; nè altro oggetto fuori
di lei mi attraeva. Suo marito avea una buona provvigione di sermoni
eccellenti; ed avea anche un vaso, in cui cuocerli. Incominciò a
tagliarne due, o tre in sottilissime fette; le mise a bollire, e le
conciò con alcune erbe, con sale, e con un pugno di farina d’orzo, che
portava in un sacco; e di questa vivanda quel buon uomo ci regalò. Non
avevamo nè piatti, nè forchette, nè cucchiai: supplimmo con pezzetti di
scorza di betulla; e facemmo un desinare eccellente.
Il battello di quel Lapone ci fu di grande utilità per discendere pel
fiume, la cui corrente ci portò prestissimamente ad Alten, dopo tanta
fatica fatta per quaranta miglia di sì aspra montagna. Ma altra giunta
di fatica ci aspettava pur anco. Smontati del battello per entrare
in un bosco, ove i sentieri che vedevamo, indicavano abbastanza che
finalmente eravamo giunti in paese d’uomini, andavamo domandando
alle nostre guide ad ogn’istante che andavamo innanzi, ove fosse
Alten-Gaard; quante miglia avessimo fatte, e quante ci rimanessero da
fare. Costoro non ne sapevano più di noi; e finimmo col riconoscere che
ci eravamo intricati in un laberinto, sicchè dopo aver camminato un’ora
e più ci trovammo precisamente sul luogo, in cui avevamo posto i piedi
uscendo del battello. Ad onta però della fatica fatta, e di quella che
dovevamo fare ancora, non potemmo trattenerci dal ridere, prendendo la
cosa con filosofica disinvoltura; ma per non cadere di nuovo in errore,
ricorremmo al nostro compasso, indicando alle guide il punto, a cui
meglio doveano dirigersi. Ciò produsse buon effetto; ma ci rimanevano
otto miglia di strada; ed eravamo tutti non mediocremente stanchi. Ci
rifuggimmo in una casa, che per gran ventura trovammo; ed ivi prendemmo
riposo. All’indomani arrivammo alla abitazione di un mercante norvegio,
il quale è il solo, che con alcuni suoi uomini costituisca il popolo di
Alten-Gaard, tanto da noi desiderato.


CAPO XV.
_Situazione di Alten. Veduta dell’Oceano-glaciale. Abitanti di
Alten, ed ospitalità avutane. Navigazione per l’Oceano-glaciale,
e visita della costa. Monte Himelkar, e cascata che ne discende.
Visita ad alcune abitazioni di Laponi. Stato de’ Laponi stabiliti
sulla costa. Laponi erranti: loro tende, loro beni, e loro
renne._

Andando all’abitazione del mercante norvegio osservammo in un vicino
pascolo due o tre cavalli. Da 500 miglia in poi questa specie di
animali era sparita dagli occhi nostri; e il vederne allora ci denotava
qualmente eravamo giunti all’abitazione di una persona educata in un
paese incivilito, e per conseguenza estranea a questa contrada. La casa
era situata sopra una eminenza, e guardava da un canto montagne che vi
eran di contro, e masse di neve, delle quali esse sono perpetuamente
ricoperte: dall’altro canto essa avea la vista dell’Oceano-glaciale,
che da questa parte s’avanzava verso la terra, e formava una specie
di golfo, vicino al quale essa casa era fabbricata. Quale fu mai
la contentezza nostra trovandoci finalmente a sì poca distanza
dall’oggetto che ci avea fatto risolvere ad intraprendere il nostro
viaggio, e che metteva fine a tanti stenti! Il bel colore del mare,
paragonato colla nudità delle masse che si vedevano da lontano; la
brillante trasparenza delle azzurre sue acque, presentavano il più
ridente spettacolo. Ma nulla più commoveaci, e ci dilettava, che la
idea di essere ben riusciti nella sì pericolosa nostra intrapresa. La
vista di quelle montagne coperte di neve, e il nome di Oceano-glaciale,
o di Mar-gelato, in mezzo ad un calore grande come il maggiore che
si senta in Italia, accrescevano il contrasto tra i due estremi, e
distinguevano alla nostra immaginazione questo luogo come un fenomeno,
che non può incontrarsi in nissun altro paese.
Per meglio approfittare de’ godimenti, che allora provavamo, ci
risolvemmo a tuffarci nelle onde di questo mare, in questa regione
sì ospitale, e rifocillare le nostre membra defatigate con un sì
grato bagno. Ma il Mercante, con cui avevamo già legata conoscenza,
ci consigliò a non farlo, poichè nissuno il faceva per la quantità
de’ pesci cani, che frequentano in quella stagione le rive. Questa
considerazione però, comunque di peso, nulla valse sulla nostra
vanità, preferendo a tutto il piacere di poter dire: mi sono bagnato
nell’Oceano-glaciale. Ma entrati in quelle acque non istemmo guari
ad uscirne per la singolare freddezza delle medesime, così che ci si
erano di tal maniera intirizzite le gambe, che stentammo assai assai a
recarci sul lido.
Di ritorno all’abitazione ci eravamo un po’ forbiti, e conciati,
essendo sei giorni che non ci avevamo fatta la barba, quando ci
si venne a dire, che la tavola era pronta. Fu per noi gratissima
sorpresa il trovare ivi un lusso di apparecchio e di vivande, che
non ci avevamo mai figurato in tali luoghi. Il piacere di essere
giunti al Mar-gelato, che pur era grande, cedette a quello di vederci
innanzi le tante buone e salubri cose, che per sì lungo tempo avevamo
dovuto dimenticare, obbligati a contentarci di alimenti grossolani,
mal condizionati, mal sani forse, e il più delle volte anche minori
del bisogno. Ci parve d’essere stati trasferiti nel palazzo di una
Fata. Aggiungevasi poi l’amenità della conversazione. La moglie del
Mercante era una eccellente reggitrice di casa, e sapeva cucinar
bene: un domestico assai intelligente serviva a tavola: tra’ convitati
v’era il balì di quella parte di Laponia, il quale rimasto vedovo era
venuto a convivere con questa famiglia; codesto balì era una degna
persona, generalmente stimato in tutto il cantone. Noi ci trovavamo
qui tanto bene, che con vero rincrescimento incominciammo a parlare di
continuare il nostro viaggio verso il Nord. Il tempo, e la stagione
non permettevano che ritardassimo la gita. Secondo le informazioni
prese, da Alten al Capo-Nord correvano circa 240 miglia, le quali
era impossibile attraversare per la via di terra: bisognava dunque
pigliare quella dell’Oceano. Ci si disse che tutta quella penisola
era una catena di montagne rotte da laghi, che ci avrebbero interrotto
ad ogni passo l’andar oltre; e ci si aggiunse, che quando pure fosse
stato possibile per quella via il cammino vincendo ogni ostacolo,
verisimilmente non potremmo arrivare al Capo-Nord in meno di 15 giorni.
Ci si faceva in oltre osservare che un tal viaggio non era mai stato
intrapreso da veruno in estate a cagione della sua lunghezza, e delle
insormontabili difficoltà che presenta; e siccome il nostro tempo era
limitato, e che avevamo una grande strada da fare per riportarci a
Tornea, avremmo potuto perdere il vantaggio della stagione opportuna
al ritorno. Che se per caso fossimo colti da qualche cattivo tempo,
saremmo stati costretti a differire il ritorno fino a che l’inverno
fosse bene inoltrato per poterci servire di slitte. Per tutte queste
considerazioni ci risolvemmo a fare il viaggio per acqua, non senza
però il pensiero di fare anche qualche escursione per terra quando
fossimo alla meta del cammino.
Il terzo giorno adunque, dacchè eravamo giunti ad Alten, il Mercante
ci procurò un battello scoperto, con quattro remiganti, uno de’ quali
avea già passato il Capo, e sapeva bene la strada: gli altri tre erano
buoni marinai, usi a frequentare quel mare a cagione della pesca.
Quegli, che faceva le funzioni di piloto, era di Norvegia; i tre altri
parlavano la lingua finlandese, e la lapona. Con tutte le precauzioni
e le intelligenze prese la nostra gita dovea essere interessante e
dilettevole. Eravamo provveduti di cuscini, di materassi, di buoni
vestiti, e di buone coperte: eccellente era tutto quello che portavamo
con noi in vino bianco, in acquavite, in volatili, in sermoni, in
vitello, in presciutto, in caffè, in tè, con tutti gli utensili
necessarii per la cucina. Avevamo in somma con noi tutto quello che
poteva risarcirci delle privazioni fino allora sofferte; e pareva che
ci preparassimo piuttosto ad una partita di piacere, che a terminare
un penoso viaggio sull’Oceano-glaciale. Il golfo, in cui incominciammo
ad internarci, penetrando in diverse gole delle montagne, presentava
dappertutto un aspetto magnifico, e interessante.
Partimmo da Alten il lunedì, 15 luglio, a due ore dopo mezzogiorno, e
non arrivammo al Capo se non se la notte del venerdì venendo al sabato.
A 3 miglia da Alten passammo su la dritta di una montagna chiamata
dai Norvegi Himelkar, che vuol dire _Montagna dell’uomo celeste_,
dalla quale cadono cinque o sei cascate, alte da cinque in seicento
piedi. Più lungi ne trovammo un’altra più notabile ancora, e della
cui acqua ben bene ci empimmo. Fummo poi curiosi di salire quelle
montagne per vedere d’onde questa cataratta prendesse la sua origine;
ma quando fummo giunti alla cima, trovammo con nostra sorpresa una
prateria magnifica, alla estremità della quale era un’altra cascata
proveniente da una montagna più alta. Io credo che tutte queste
cascate sieno prodotte dallo scioglimento delle nevi, che vedevamo
coprire i monti più lontani, e le cui cime ignude formavano il fondo
del quadro. Questa ultima cascata precipitavasi giù di una piccola
montagna, ornata su tre de’ suoi fianchi di un bosco di betulle, che
sorgeva in anfiteatro, e stando alla sua regolarità sarebbesi detto
piantato da mano industriosa. A piccola distanza da questa cascata, la
cui presenza animava que’ luoghi, era una casetta di legno coperta di
zolle di verdura, ed abitata da una famiglia di Laponi stazionarii.
Io desiderava di visitarli; ma una delle nostre guide mi consigliò,
nè senza ragione, a non presentarmivi a dirittura da me, e a farmi
prima annunciare da qualcheduno, perchè quella famiglia sarebbe forse
rimasta spaventata alla vista di un forestiere sì diverso da essi per
la statura, e il vestito. Andò dunque egli stesso a quella casa; ma non
vi trovò nessuno: la famiglia era ita a qualche spedizione di pesca, o
tra le montagne a curare le renne. Gli architetti delle case di codeste
coste sembrano stati alla scuola di quello che edificò la chiesa di
Massi, quantunque codesti tugurii non possano stare in proporzione
rispetto a quella chiesa, che in quanto le case nostre vogliansi
mettere in proporzione colle nostre cattedrali: non so dire se ci
contenessimo ne’ termini di civile discrezione in quella visita; quello
ch’è vero, si è, che non vi fu nè angolo, nè buco, in cui non volessimo
mettere il naso, ponendo le mani fino nelle saccoccie di quella gente,
giacchè i Laponi sono sì beati, che non hanno bisogno nè di chiavi,
nè di serrature. Non vi trovammo alcun oggetto di lusso, se per
avventura non fosse tale una scatola di resina, che cola da una specie
di un abete proprio di quelle contrade, e che forse più che a senso
di piacere essi usano a medicatura di ferite. Ritornammo non senza
fatica al nostro battello dando un eterno addio a sì vago e piacente
luogo, che non avremmo riveduto più, e che non invidia i luoghi più
pittoreschi della Svizzera.
Perfetta calma regnava sul mare, e la violenza del caldo opprimeva
tutti i remiganti nostri, che non potevano adoperare i remi senza
disfarsi in sudore. Per dar loro un po’ di riposo, e nel tempo stesso
soddisfare alla nostra curiosità, andammo a ricercare tutti i Laponi
stabiliti sulla costa, e i quali viveano generalmente alla distanza
di otto, o dodici miglia l’una famiglia dall’altra. In tutte le
loro abitazioni regnava l’abbondanza e la contentezza: ogni Lapone
è possidente all’intorno della sua abitazione di un terreno, che ha
un circuito di otto miglia: tutti hanno vacche, dalle quali traggono
un latte eccellente, ed hanno prati, che loro danno fieno pe’ loro
bestiami l’inverno. Ciascuno ha poi provvigione di pesce secco, non
solamente per proprio uso, ma ancora per barattarlo in oggetti di
lusso, cioè in sale, in farina, in avena, e in qualche panno. Le
loro case sono costrutte in forma di tende, ed hanno un’apertura in
alto per ricevere la luce, e dar passo nel tempo stesso al fumo. Il
fuoco sta nel centro della camera; ed essi vi dormono attorno gli uni
presso gli altri. In inverno, oltre il calore del fuoco, godono anche
di quello, che loro procurano le loro vacche, colle quali dividono
l’abitazione all’uso de’ montanari di Scozia, e degli abitanti delle
isole settentrionali. In estate le porte delle loro case stanno sempre
aperte; e quantunque in tale stagione non vi sia notte, essi sono
accostumati a dormire alla medesima ora che gli altri Europei. Soventi
volte siamo entrati ne’ loro abituri a un’ora, o due della mattina, se
è permesso così esprimersi, parlando della stagione attuale, e sempre
abbiamo trovata la famiglia a letto, e dormiente, senza che la presenza
nostra, e la nostra conversazione turbasse per un buon quarto d’ora
la dolcezza del loro riposo. Essi dormono in quella placida sicurezza
che ispira il non avere a temer nulla. Le sole cagioni de’ loro timori
sarebbero gli orsi, e i lupi; ma tali bestie non vanno mai verso le
abitazioni de’ Laponi che hanno fissa dimora: bensì vanno dietro le
traccie de’ Laponi nomadi, e delle loro greggie, così cercando di
provvedere ai loro bisogni: d’altra parte niun animale velenoso chiama
in queste aspre contrade la vigilanza dell’uomo, affine di preservarsi
da ogni pericolo.
Il governo non ha nulla a fare per amministrar la giustizia; e questo
popolo, il quale non ha di che piatire co’ suoi vicini, non ha bisogno
di una protezione, che gli riuscirebbe più onerosa che utile. Alcune
orde di abitanti dispersi per una immensa estensione di terra hanno
poche ragioni per darsi scambievoli assalti: l’eguaglianza di stato
tra loro, il silenzio ordinario delle loro passioni, e la dolcezza del
loro carattere, impediscono e l’occasione d’ingiurie, e i risentimenti,
ch’esse alimentano. Vero è che i Laponi sono senza difesa; ma i rigori
del loro clima, e più ancora la estrema loro povertà li rendono sicuri
sul timore di una invasione. Vivono dunque senza protezione, e non
hanno mai piegato servilmente il ginocchio d’innanzi ad un padrone.
Nè è poi certamente in queste regioni boreali, che vengasi a cercare
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