Viaggio al Capo Nord - 09

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i tristi esempi delle tirannidi, de’ quali è piena la storia; o
delle fallacie, e degli spergiuri, sì frequenti tra le nazioni che si
vantano di civiltà, e che a malgrado dell’orgoglio, che loro ispirano
i vantaggi che dalla civiltà ritraggono, non mancano di commettere atti
di barbarie ripugnanti ad ogni credenza.
In una delle famiglie visitate da noi fummo testimonii di una scena
veramente toccante; e servì a convincerci che la sincera e viva
cordialità non è estranea a queste latitudini gelate. Noi entrammo
a tre ore dopo mezza notte in una casupola, ov’erano il marito, sua
madre, una moglie giovine, e due piccoli ragazzi. Dormivano tutti, e
noi aspettammo qualche tempo, onde potessero agiatamente svegliarsi.
Aveano tutti il medesimo letto, cioè a dire il suolo coperto di
frasche e foglie della odorosa betulla: le loro coperte erano pelli
di renne. Dormivano alla maniera de’ Laponi vicini al mare: intendo
dire vestiti de’ loro abiti, che erano larghissimi da ogni parte, e
non nocivi per alcun modo alla circolazione del sangue. La giovine
donna fu la prima a svegliarsi; e gettando gli occhi sopra uno de’
nostri battellanti, che riconobbe, gli testificò il suo piacer di
rivederlo, ed entrò in discorso con esso lui nella lingua lapona. Poco
dopo svegliaronsi e il marito di essa, e la suocera; ma i ragazzi
continuarono a dormire profondamente. La vecchia vedendo il Lapone
diede tosto in un pianto dirotto; la nuora ne seguì l’esempio; e così
fece il nostro battellante: poco stemmo a piangere anche noi, ma per
una di quelle simpatie, che hanno per interprete il cuore, e non le
labbra; quando entrato in casa il nostro interprete, e trovandoci
piagnenti, ci domandò in finlandese la cagione della nostr’afflizione.
Noi non potevamo dargliene alcuna; ma non così era della vecchia. Essa
avea veduto quel battellante l’anno precedente; e allora essa godeva
buona salute; ma da quel tempo in poi era stata colpita da apoplesia,
che le avea tolto l’uso della favella. Dopo alcuni momenti dati a
questa generale commozione, e quando ciascuno fu rimesso in calma, noi
domandammo un po’ di latte, e di formaggio di renna: immantinente la
reggitrice della casa uscì, e ci condusse alla dispensa, la quale era
un piccol casotto di legno, piantato sopra alcuni piuoli ad una certa
distanza da terra, perchè le provvisioni ivi tenute non rimanessero
alterate dalla umidità della neve in inverno; e fummo sbalorditi
veggendo la quantità delle cose, che quella brava reggitrice teneva
nella piccola dispensa. Ivi era molto pesce secco, e carne di renna
secca anch’essa; e formaggio, e lingue di renne, e farina di avena;
poi pelli di renne, pelliccie, ed abiti di lana, ed altre cose. Tutto
annunciava uno stato agiato, ed anche ricchezza; e ciò che merita
d’essere particolarmente osservato si è, che quella buona donna ci
offrì tutto quello, di che avessimo bisogno nella più pulita e cordiale
maniera, e senza mostrare che neppure per ombra pensasse a quanto
potessimo noi darle in ricambio. Ben lontana da questo essa persistette
a ricusare il denaro che le offrimmo per le cose da noi accettate. Io
ho veduto pochi paesi, in cui gli uomini vivano in sì grande agiatezza,
e in tanta beata semplicità, come sulle coste marittime della Laponia.
Le loro casupole sono scure ed anguste: non hanno lettiere, non sedie,
non tavola: assidonsi per terra; e in terra dormono sopra foglie di
betulla. Ma che serve? essi in casa non mancano di alcuna cosa, che sia
loro necessaria; e ciò loro basta. Quanto alla situazione, le loro case
godono di un aspetto ridente, essendo per la più parte poste sulla riva
del mare, fabbricate ora a’ piedi, ed ora a’ fianchi delle montagne, e
sempre presso a luoghi, in cui la mano benefica della natura ha posto
grassi pascoli, e fecondissimi, senza bisogno che alcuno li coltivi; ed
è per certo sopra ogni cosa avventurosissima sorte, che possano dire
qualmente il suolo che calcano co’ piedi, e la terra che provvede ai
loro bisogni, sono veramente roba loro, senza temere che un despota
venga a turbarli nel loro possesso. I soli nemici che abbiano da temere
sono alcuni mercanti, i quali vengono a stabilirsi sulle loro coste,
e la cui avarizia e cupidità abusano di loro innocenza, e della loro
inclinazione, per vender loro ad un prezzo eccessivo i liquori forti,
ed altre cose, delle quali abbisognino.
Noi lasciammo quella casa per continuare la nostra navigazione. Ma
fatte appena cinque, o sei miglia, la violenza del vento ci sforzò a
ritornare a terra. Approfittammo adunque di questa nuova circostanza
per fare una corsa nell’interno del paese, e cercare qualche oggetto
capace di fissare la nostr’attenzione, come sarebbe stato l’incontro
di Laponi nomadi colle loro greggie, e le loro tende. Facemmo da sette
in otto miglia a piedi, e trovammo qua e là tra quelle montagne siti
deliziosi, fresche vallate cinte da montagne coperte di betulle, e
d’altri alberi. In mezzo alle nostre fatiche gustammo il piacere di
riposarci all’ombra sulla riva di limpidi ruscelli, che serpeggiano
per quelle vallate. In fine trovammo una tenda di montanari, ove la
nostra curiosità trovò materia, su cui esercitarsi. Questa tenda avea
forma conica, in ciò dissimile da quella che per ordinario hanno le
altre tende. Ficcano in terra parecchi pali, o grossi rami d’albero
tagliati di fresco, e li raffermano sopra un largo cerchio fatto a
terra, e a que’ pali, o rami, danno in alto una direzione diagonale
in maniera che s’incontrano insieme nella loro estremità superiore.
Foderano poi l’ossatura nel suo contorno di parecchie pezze di stoffa
cucite le une colle altre. Il diametro di quella, in cui noi entrammo,
avea alla sua base circa otto piedi: in mezzo era il fuoco, e presso
questo era assisa la donna del padrone della tenda, suo figlio,
ancor fanciullo, e alcuni cani poco ospitali, poichè non cessarono
mai di abbajare finchè noi ci fermammo ivi. Presso la tenda era una
catapecchia composta di cinque o sei pali obbliquamente disposti in
modo che s’incrociavano alla cima, ove poi erano legati insieme tutti,
e coperti, come la tenda, di pelli, e di pezze di stoffa. Sotto questa
catapecchia que’ Laponi custodiscono le loro provvisioni; e quelle
ch’erano ivi, consistevano in formaggio, in una piccola quantità di
latte di renne, e in pesce secco. Più lungi una cattiva palizzata fatta
in fretta serviva di parco alle renne quando le radunano per mungerle.
Quegli animali non erano ancora ritornati allorchè noi arrivammo; e
stavano pascolando alla montagna, d’onde non doveano ritornare che
alla fine del giorno. Come noi non ci sentivamo in gambe per andare
a trovarle con pericolo di perderci per le strette de’ monti, giacchè
la troppa uniformità poteva ingannarci, pensammo far meglio offrendo
a que’ Laponi un poco d’acquavite perchè coi loro cani andassero a
trovar le renne, ed a condurle al loro domicilio, o ad altro luogo
che riuscisse a noi vicino. Appena que’ Laponi ebbero assaggiata
l’acquavite, che loro data avevamo come pegno di maggior ricompensa,
sentimmo l’abbajare de’ cani eccheggiare per le montagne; e i Laponi ci
dissero quello essere il segnale dell’arrivo delle renne. Infatti un
istante appresso vedemmo comparire e discendere dalle alture trecento
renne per guadagnar le vallate, la cui erba fresca prometteva ad esse
miglior pascolo. Noi insistemmo perchè le facessero entrare nel recinto
della palizzata, onde osservare i loro andamenti, e gustare del loro
latte munto al momento. Tutto si fece secondo il desiderio nostro; ma
non era senza difficoltà, perchè quegli animali non avvezzi ad essere
chiusi tanto presto resistettero per qualche tempo. Ma e gli uomini,
e i cani la vinsero. Avemmo dunque tutto l’agio, posciachè le renne
furono pel chiuso, di vedere quegli utili animali, che i primi nomadi
estranei ad ogni civiltà seppero addomesticare e sottomettere. — Que’
poveri animali erano magri magri: aveano un’aria di tristezza e di
patimento: il loro pelo era basso, e il respiro, come lo mandavano
fuori affannoso, dimostrava abbastanza, che una stagione sì calda
gl’incomodava. La loro pelle inoltre qua e là era ulcerata per le
morsicature di una specie di tafano, il quale cerca per tal maniera
di aprirsi un luogo, in cui deporre le uova, con doppio tormento delle
renne, sì per le piaghe che vi aprono sulle varie parti del corpo, sì
pel rodimento che vi cagionano gl’insetti a mano a mano che in figura
di vermi sbucciano da quelle uova. Io presi parecchi di quegli insetti,
e molte di quelle uova colla intenzione di regalarne i miei amici
entomologisti, che si dilettano di far raccolta di tali cose. In quanto
al latte che assaporammo, era assai lontano da quello che le renne
danno in inverno. In estate esso contrae un certo gusto di selvaticume
e di forte, che si avvicina al rancido.
Ma le nostre guide ci avvertirono essere tempo di ridurci al battello,
e di approfittare di un venticello fresco, che s’era alzato, e ch’era
propizio alla nostr’andata. Prendemmo dunque congedo dai nostri
Laponi, i quali ci testificarono il loro dispiacere per la sì presta
nostra partenza, gittando uno sguardo di tutto cuore sul barilotto di
acquavite che ci accompagnava.


CAPO XVI.
_Delle renne: dell’indole di questi animali: del governo che i
Laponi ne fanno: delle varie sorti di slitte che usano, ecc._

Ma poichè ho fatto menzione e qui ed altrove delle renne de’ Laponi,
è giusto che di questo sì interessante quadrupede dica qualche cosa di
più particolare.
I più antichi naturalisti, che parlarono delle renne, le indicarono
col nome di _rangiferi_. Il _Linneo_ chiama la renna _cervo dalle
corna ramose, rotonde, colle sommità palmate_; e i caratteri che danno
alla renna un’aria di famiglia co’ cervi, sono la mancanza de’ primi
denti incisivi alla mascella superiore, il modo con cui le sue corna
crescono, le quali divenute dure cadono tutti gli anni, e ripullulano
ogni anno, come quelle del cervo. La differenza però tra la renna e il
cervo si è, che la renna femmina ha le corna meno ramose, è vero, meno
larghe e meno grandi, che quelle del maschio.
L’autunno è il tempo degli amori delle renne; e le femmine partoriscono
in maggio. Una guerra sorge tra maschi quando s’incontra che desiderino
la stessa femmina; ma il più attempato de’ maschi, che è anche il
più forte, vince nella lotta, e rimane il signore del gregge. Alcune
femmine partoriscono ogni anno, altre ogni due: ve n’ha anche delle
sterili. Quando la renna ha partorito perde le sue corna: i loro
piccoli pochi giorni dopo essere nati, sono agilissimi, e possono
correre quanto la madre. Ogni renna conosce i suoi parti per quanto
numerosa sia la greggia, nella quale si trova. Se la madre è di pelame
grigio-cinericcio, il figlio è rosso di pelo, con una striscia lungo la
schiena; e quel colore diventa poi più cupo quando verso l’autunno il
pelo cade. Alcune renne diventano bianche con macchie cenericcie sul
corpo; ed ogni piccolo di color bianco procede da una madre che avea
questo colore.
Le renne femmine sono più alte, e più forti di statura de’ maschi.
Molte hanno le corna ramosissime, ed alcune non ne hanno di nessuna
sorta. Le corna cadono in autunno; le nuove sorgono da prima in figura
di due piccoli tumori neri, che s’alzano sulla fronte. Quando le corna
stanno per cadere, l’animale si mostra tristo; in questa circostanza le
renne passano il loro tempo di riposo in mangiarsi reciprocamente que’
pezzi di pelle, che al cader delle corna si sono distaccati, e che loro
dà un aspetto schifoso. Questo è ciò che più volte ho avuto occasione
di vedere, e che, per quanto io sappia, sono il primo a notare. Codeste
corna sono di un tessuto al loro centro ben fitto, e molle alla loro
radice: il tronco è rotondo; e si avanza insensibilmente in rami
spianati. Soventi volte sono sì macchinose, che quando questi animali
combattono insieme, si attaccano, e s’imbarazzano tanto, che bisogna
che l’uomo accorra a liberarneli.
Le renne in estate sono tormentate da una mosca, la quale s’introduce
pel naso, e penetra ne’ seni frontali; e non se ne liberano che per
mezzo dello sternuto, o di un respirar violento correndo. Soffrono
anche di una malattia contagiosa, alla quale non si è ancora trovato
rimedio, e che fa terribile strage di questi animali. La malattia, di
cui parlo, consiste in un’affezione di milza. Si è altrove parlato del
male, che alla renna fa il tafano. Un altro malanno, di cui le renne
soffrono, è un panereccio, che loro viene all’unghia, e che il _Linneo_
crede procedere dal tafano. Le renne femmine hanno sulle mammelle
alcune piccole eruzioni, simili alla vaccina. Quando la renna può
salvarsi da queste malattie, vive fino ai quattordici ed anche sedici
anni: termine di sua longevità.
Il principal nudrimento delle renne in inverno è un musco biancastro,
che i botanici chiamano _licheno rangiferino_: esse però se lo debbono
guadagnare a forza di scoprirlo colle loro zampe di sotto alla neve.
Guai, se la neve gelata l’indurasse tanto, che la renna non potesse
giungere a penetrarla! Tutta la generazione delle renne perirebbe.
Le renne domestiche, le quali formano la ricchezza principale de’
Laponi, in inverno non istanno mai al coperto. In estate trovano erba
facilmente.
In alcuni luoghi della Norvegia s’impiegano le renne agli usi stessi, a
cui s’impiegano i cavalli; e si tengono in inverno nelle stalle.
La renna ama appassionatamente l’orina dell’uomo; e fa meraviglia il
vedere con che ardore lecchi la neve che ne sia imbevuta. Forse vi
è attratta pe’ sali, che l’orina contiene. Dicesi pure che faccia
la caccia a que’ sorci chiamati _lemmi_, de’ quali però sembra
non mangiare che la testa. La loro bibita è la neve, ch’esse vanno
prendendo da mucchii, presso i quali passano quando sono attaccate alle
slitte.
I più fieri nemici delle renne sono i lupi; ed i custodi di quegli
animali non invigilano mai abbastanza per proteggerli dalla strage,
che i lupi ne fanno. La loro diligenza diventa vieppiù necessaria in
tempo di procella, tempo che i lupi spezialmente scelgono ponendosi
in agguato per assaltare con buon successo le renne. Le renne stesse
concorrono al proprio danno in tale circostanza, perchè invece di
rifugiarsi alle tende de’ pastori, ove sono chiamate, colte da terrore
alla vista, od agli urli de’ lupi, si sbandano fuggendo; e i lupi
allora più agevolmente così disperse le assaltano, e le ammazzano.
Dico le ammazzano, e non le divorano, poichè il missionario che ci ha
informati, attesta di averne vedute stese sulla neve sei alla volta
morte, senza che sul loro corpo apparisse ferita alcuna: sì violento
colpo il lupo sa dare ad esse. Il che fatto, le strascina poi alquanto
lungi dal luogo, ove le ha ammazzate, e là esso le mette a brani, e le
divora. È notabile un’altra particolarità in proposito; ed è questa,
che quando i lupi mettonsi alla caccia delle renne, il più delle volte
sono accompagnati da molti corvi e cornacchie, il cui gracchiamento
serve di avviso al pastore lapone che l’inimico si approssima; e a quel
segnale si mette in guardia. Un’altra particolarità si è, che le renne,
le quali sono con una corda raccomandate a qualche palo spessissimo
vengono dai lupi risparmiate: laddove quelle che sono libere,
soccombono.
I Laponi per distinguere le proprie renne da quelle degli altri,
non ostante la confusione, in cui questi animali sono tenuti
necessariamente in sì vaste solitudini, usano fare a ciascheduna un
loro particolar segno all’orecchio mediante una incisione. Perchè
poi ogni greggia possa esserne ben sorvegliata, e nissun animale si
smarrisca, due volte al giorno conducono le renne al pascolo, e due
volte le chiamano alle tende; e quest’uso sieguono anche nel cuor
dell’inverno, quando le giornate sono brevissime, e le notti lunghe di
sedici ore. A proposito di che chiunque abbia la più leggiera tintura
del sistema solare, facilmente comprenderà perchè il sole in codesti
climi rimanga per sette settimane sotto l’orizzonte; e perduto nella
più bassa parte dell’emisfero non lascia che un debil luciore di alcune
ore. Però per quanto rimanga allora l’atmosfera ottenebrata, non è mai
nera tanto, che non si possa vedere quanto occorre per iscrivere, o
per fare alcuna faccenda ordinaria, sempre che almeno il cielo non sia
tutto coperto di nubi: il che s’intende dalle dieci ore della mattina
sino all’un’ora dopo il mezzodì. Ciò succede nel solstizio d’inverno.
Nel qual tempo il lume della luna, che costantemente splende, e quello
delle stelle compensano. Passate poi le sette settimane accennate il
sole comincia di nuovo a farsi vedere con uno splendore, che agli occhi
di ognuno comparisce più brillante. Ciò arriva al primo di aprile,
tempo in cui le giornate si sono tanto allungate, che le tenebre della
notte generale principiano a sparire; e come nell’inverno il sole avea
cessato d’illuminare per sette settimane la terra, nel solstizio estivo
ritorna a rallegrare l’abitante comparendo sull’orizzonte, e brillando
notte e giorno per lo stesso spazio di tempo. È però da notare che
il sole della notte pare più pallido e brillante meno che il sole del
giorno. Ma ritorniamo alle renne.
Quando esse recansi verso le tende, formano intorno ad esse un
circolo, e vi rimangono giacenti finchè ritornano al pascolo. In
inverno non potendo sperare per alimento che il musco del vicinato,
debbono estendersi molto pel paese, onde procacciarsene; e sia tempo
bello o sia cattivo, sono condotte al pascolo ad un’ora regolare.
Come poi sovente i pastori per mettersi al coperto di una burrasca
nevosa sono obbligati a ritirarsi dietro a qualche ammasso di neve,
e vi si addormentano, succede qualche volta, che un lupo porta via
una renna allontanatasi dalla greggia. La custodia di una greggia
generalmente è affidata ai ragazzi, o ai servitori; e quando appartiene
ad una famiglia formatasi di recente, e che non ha nè servitori, nè
ragazzi, allora la cura rimane affidata alla moglie, la quale se per
avventura ha un bambino, lo porta seco nella sua culla, e segue le
renne, per quanto il tempo sia rigido. I cani, molti de’ quali i Laponi
mantengono, sono loro di grande ajuto per contenere e dirigere le
renne, secondo l’occorrenza; e le renne ubbidiscon loro, ed essi ogni
cenno intendono del custode; e tengono in buon ordine tutta la greggia.
Quando nell’inverno questa è ricondotta alla tenda, e prende riposo, il
Lapone, o la sua donna, esce per contare le renne, e per sapere se ne
manchi alcuna, rimasta preda de’ lupi; ed è raro il caso, che il Lapone
a prima vista non iscopra la mancanza, se ve n’è, anche nel caso che la
greggia sia composta di uno, o di due migliaja di teste.
Quantunque i Laponi delle montagne usino di condurre, come si è detto,
due volte al giorno le renne al pascolo, in estate i maschi castrati
e le femmine sovente si abbandonano ne’ boschi a loro talento senza
alcun pastore. In quella stagione le madri si lasciano allattare i loro
piccoli, chiudendole in un parco fatto con rami d’alberi: parco che si
costruisce a poca distanza dalla tenda. Ivi le donne hanno una facenda
importante, ed è quella di sporcare le mammelle delle madri col loro
sterco, onde quando sieno messi in libertà i loro piccoli non possano
tettare. Dopo un certo tempo le femmine sono ricondotte a quel parco
medesimo; e allora subitamente vengono le loro mammelle nettate; e come
sono piene di un latte denso, si mungono. Ma le renne non soffrono
molto pazientemente quella operazione; e bene spesso bisogna legarle
per le corna con una corda. Una renna non dà più latte di una capra:
contuttociò i Laponi ne hanno tante, che mai non mancano nè di latte,
nè di burro, nè di formaggio.
Per la castratura de’ maschi i Laponi usano un mezzo singolarissimo.
Non ricorrono al coltello, nè fanno l’incisione preliminare; ma
ammaccano co’ denti le parti che altrove si tagliano. L’animale, che ha
subita questa operazione, cresce di volume e di carne; ed è più forte
de’ lasciati interi: diventano quindi di un gran valore per chi n’è il
padrone, di modo che quando si tratta di cose di molto prezzo, sempre
si paragona alla renna castrata.
Un montanaro, le cui ricchezze in renne sono mediocri, spesso lascia le
sue montagne, colla sua famiglia, e va a fissarsi presso la costa ove
si occupa della pescagione, lasciando la cura delle sue renne a qualche
persona che voglia incaricarsene.
Diciamo infine, che per quanto bene una greggia sia custodita, succede
talora verso la stagione in cui diventano calde che vi si mescoli un
maschio di razza selvaggia; e se sfuggendo il fucile del custode, ne
copre una, dall’accoppiamento nasce un meticcio, che non si rassomiglia
nè al maschio, nè alla femmina, ed è più piccolo della renna selvaggia,
e più grosso della domestica.
Ho detto che i Norvegii servonsi delle renne come di cavalli. I
Laponi non hanno cavalli; e suppliscono ai loro bisogni colle renne
attaccandole alle loro slitte pel trasporto sì delle persone, che
delle robe. Usano a quest’uopo de’ maschi castrati. Ma l’assuefarle
al servizio costa loro gran pena e gran tempo; e ve n’ha di quelle,
che in nissuna maniera voglionvisi adattare. È inutile spiegare come
compongano, e maneggino le redini, colle quali le dirigono, e come le
leghino alla slitta. Basterà dire, che fanno tutto questo con molta
industria. Molta industria pure dimostrano i Laponi nella costruzione
delle slitte, le quali sono di quattro sorta. La prima è fatta per
portare una persona, tutt’aperta, e breve tanto, che un Lapone assiso
sulla parte di dietro tocca coi piedi il davanti, larga quanto basta
per contenere le gambe e le cosce bene strette della persona, e sì
poco alta, che il viaggiatore può toccare la neve che ha ad ognuno
de’ lati. Questa slitta è leggierissima per modo che, occorrendo, si
può alzare, ed anche trasportare sulle spalle agevolmente. Più lunga,
più profonda e più larga è la seconda, che serve al trasporto delle
mercanzie: essa è coperta di parecchie pelli bene assicurate, per
preservarla dalla neve che cade. Allo stesso oggetto serve una terza
incatramata di fuori, e provvista di una pelle di foca posta a modo di
coprire le gambe e le ginocchia del conduttore, e di una grossa coperta
che s’alza sul petto del medesimo per difenderlo dalla neve quando
ne cada. La quarta, anch’essa incatramata di fuori, serve parimente
al trasporto delle robe; ed è più larga della prima e della terza;
ed ha un ponte che va da una estremità all’altra, ed alcuni ingegni
ottimamente inservienti alle occorrenze. Prima di salire sulla slitta
il Lapone si mette i guanti, poi monta su pigliando la briglia, che è
attaccata alla testa della renna, e ch’egli tiene raccomandata al suo
pollice destro. In questo frattempo la renna si conserva quietissima:
quando il viaggiatore è disposto a partire, scuote con violenza da
un canto all’altro la briglia; e l’animale s’avvia colla maggiore
velocità. S’egli vuole che la renna affretti di più, si mette sulle
sue ginocchia, e con certi suoni, o parole le fa animo, e volendo
che si fermi tira la briglia da dritta a manca, ed essa ubbidisce
sull’istante. Quando la renna si ostina, o vuol fuggire, se il Lapone
viaggia in compagnia d’altri, dà la sua briglia al conduttore della
slitta che lo precede, il quale l’attacca alla slitta sua; e la
renna è forzata così a procedere avanti. Mirabile poi singolarmente
è l’industria de’ Laponi in dirigere le renne nella discesa de’ più
scoscesi monti. Ove la discesa è tanto ripida da equivalere ad un
precipizio, sicchè la slitta potrebbe correre sulle gambe della renna:
per ovviare a tale inconveniente il viaggiatore attacca al di dietro
della slitta una corda, la quale egli annoda alle corna dell’animale,
che viene così a moderare la calata della slitta, la quale scivola pel
proprio peso. Ingegni simili, variati, all’uopo usano i Laponi nel
dirigere le renne, che attaccano alle altre tre sorti di slitte già
mentovate. Del rimanente, se come molte volte succede, la neve è sì
alta, che la renna non può aprirsi la strada attraverso della medesima,
o che vi si affonda sino alla pancia, il viaggio per necessità diventa
lento e penoso. Ma comunemente quando la strada è buona e ben battuta,
e che la slitta non ha da rompere la neve, ma puramente da scorrervi
sopra, la renna fa cinque a sei leghe all’ora. Ma ciò basti.


CAPO XVII.
_Proseguimento della navigazione sul Mar-glaciale. Golfo delle
Balene. Isola della Have-Sund, il più orribil sito, che possa
vedersi. Isola Mageron. Arrivo al Capo-Nord. Descrizione di
questo promontorio._

Entrati adunque nel nostro battello noi passammo il Whaal-Sund, ossia
il golfo delle Balene. Esso era agitato da una violentissima correntia,
e dal venticello gagliardo che soffiava in una direzione contraria alla
nostra gita.
Le balene recansi in gran numero in quel golfo; e in que’ mari,
per quanto ci si disse, sono comunissime. Ma quantunque le nostre
genti ci assicurassero che non aveano mai passato quello stretto
senza averne vedute otto o dieci, noi non ne incontrammo nessuna.
Smontammo abbordando alla casa di un mercante posta in un’isola presso
l’Have-Sund. Ardisco dire che quella era la più orrida abitazione di
tutta quanta la contrada. Il terreno del contorno non avea un solo
albero, nè un solo cespuglio, nè un filo d’erba: nè vi si vedeva che
nude rupi. L’abitatore di quel luogo non avea nulla, se non ne andava
a cercare ben lungi; e così era persino della legna da scaldarsi. In
quel luogo il sole stava assente dall’orizzonte per quasi tre mesi,
di modo che senza le aurore boreali, che spargono una luce utilissima
agl’indigeni, que’ miserabili rimarrebbonsi sepolti nelle tenebre più
profonde. Che soggiorno d’orrore per un abitante della zona temperata,
se fosse condannato a passarvi la vita! L’amor del guadagno, e quello
della pescagione, vi fissano nondimeno alcuni individui.
[Illustrazione: _Tav. III._ — VEDUTA DEL CAPO NORD]
Del rimanente più che si accosta al Capo-Nord, più la Natura sembra
infoscarsi; la vegetazione debolissima, che fa ogni suo sforzo sulla
superficie della terra, immantinente perisce, e non lascia presso di sè
che rupi scarnate.
Continuando il nostro viaggio lasciammo alla sinistra lo stretto
formato dall’isola deserta detta Mageron, e dal continente. Alla
nostra destra aprivasi la vasta estensione dell’Oceano-glaciale; ed a
mezza notte precisa arrivammo finalmente all’ultimo punto dell’Europa,
cognito sotto il nome di _Nord-Cap_, o _Capo-Nord_.
Questo Capo-Nord, oggetto formidabile di una temerità vittoriosa di
tanti ostacoli, di tanti pericoli, e di tante fatiche; scopo veramente
colossale di un viaggio tanto lungo, intrapreso pel solo piacere
di toccarlo, e perchè fosse detto una volta senza impostura che gli
uomini non si erano arrestati se non dove era loro mancata la terra;
il Capo-Nord presentandosi a’ nostri sguardi s’impadronì di tutte le
nostre facoltà. Al suo aspetto la nostra immaginazione si separò da
tutto quello che la nostra vita si lasciava alle spalle; e il mondo non
fu più per noi che in questo confine della terra. Il nostro orgoglio
si fece grande per la riuscita avuta; ci trovammo spettatori della
nostra propria audacia; e calpestando codesto suolo, che nissuno prima
di noi avea calpestato, pareaci di camminarvi sopra, non da uomini, ma
da creatori. — Ah! questo delirio ben presto svanì. La malinconia, la
tristezza cupa e profonda succedettero al nobile entusiasmo del nostro
trionfo. Le rupi senza ornamento, il terreno senza vegetazione, l’aria
senz’abitanti ci dissero ben chiaramente che tanta costanza, tanti
sudori, tante cure ed ansietà non aveano servito che a condurci ov’è la
tomba della Natura.
Il _Capo-Nord_ è una roccia, la cui fronte, ed i cui enormi fianchi
spingonsi assai lungi nel mare. Gigantesco avversario de’ flutti e
degli uragani sembra sulla sua profonda base sicuro di comandare alla
loro agitazione; ma assalitori instancabili que’ flutti contro di esso
sollevati, non gli lasciano altra tregua che quella, la quale di tratto
in tratto la calma del cielo impone a’ loro proprii furori; e terribili
tosto che rimangano scatenati, tornano ad assalirlo, a batterlo, a
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