Viaggio al Capo Nord - 02

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dietro ad un masso di ghiaccio; e muniti di fucile e di bastone ivi
aspettano la _foca_ veduta discendere nell’acqua, sapendo che deve
ritornare di sopra per respirare. È allora che le tirano addosso,
e l’ammazzano. E come qualche volta avviene che l’acqua del buco si
geli subito che l’animale ne sia uscito, allora vi corrono sopra co’
bastoni, non dandogli tempo di aprirsi l’adito all’acqua impiegando il
suo alito. In questo assalto sì pericoloso per lui, l’animale impiega
tutto il coraggio, che la natura gli ha dato: morde co’ denti i bastoni
degli aggressori, e talvolta ne attacca le persone medesime. Ma il
cacciatore si ride della resistenza oppostagli; molto più che la _foca_
è troppo lenta ne’ suoi movimenti; e la costituzione delle sue membra
la rende poco atta ad operare sopra una superficie solida.
Dopo tante fatiche, ed alcune meno importanti avventure, noi facemmo
riposare i nostri cavalli a metà del cammino; e finalmente abbordammo
alla piccola isola detta Signilskar. Essa è nuda interamente, e non
abitata che da qualche paesano e da un offiziale del telegrafo ivi
posto per corrispondere con quello di Grisselhamn, il primo che
fosse stabilito nella Svezia. Questa isoletta è una delle molte,
che sparpagliate in quella parte del golfo prendono collettivamente
la denominazione di Aland. Signilskar è distante in linea retta da
Grisselhamn 35 miglia all’incirca. Ma il giro che noi avevamo dovuto
prendere nel nostro viaggio ce ne avea fatto impiegare forse dieci di
più.
Eravamo per partire da Signilskar, quando vedemmo di ritorno il cavallo
che era fuggito. Quell’animale faceva pietà per lo stato miserabile in
cui dopo tanto strappazzo si trovava. Ma era fiero ancora come prima, e
come prima intollerante della vista e dell’odore delle nostre pellicce.
Dovemmo cercare di stargli lontani, onde non s’inquietasse di nuovo.
Attraversando le isole di Aland si trovano case, ove prendere nuovi
cavalli; e si viaggia parte sul ghiaccio del mare, e parte sulla
neve che cuopre il terreno. Tra le due poste di Heralsby e di Skorpas
trovasi posta sopra una rupe la famosa fortezza di Castelholmen, tutta
cinta dall’acqua fuorchè ove una lingua di terra l’attacca all’isola.
Questa fortezza occupa parecchie pagine della storia di Svezia.
Tra le isole di Vergata e di Kumlinge noi avemmo per guida un
paesano di circa 55 anni, il quale ci sorprese tanto per la decenza
e giocondità del suo conversare, quanto pel buon senso delle sue
osservazioni. Egli, ben diverso da’ suoi compatrioti, costantemente
taciturni ed incapaci di dare il minimo indizio di curiosità ai
viaggiatori, con una civiltà rara per un uomo di sua condizione e
di que’ climi, ci andava facendo molte domande sul nostro paese,
sulla situazione di esso, sulla natura del governo, sul clima, sulle
produzioni naturali e sopra altre interessanti materie. Il piacere da
noi provato in udirlo uguagliava la sorpresa di tanta sua intelligenza.
Ed avendo egli udito che noi eravamo d’Italia, mostrò qualche stupore,
aggiungendo nello stesso tempo qualmente egli sapeva che l’Italia
allora era involta in gran guerra; e che un guerriero che metteva
spavento dappertutto, la scorreva vittorioso. Ognuno comprende di
chi egli parlasse. Noi gli domandammo quante miglia credess’egli che
l’Italia fosse lontana da Aland; ed egli confessò di non potercelo
dire; ma credeva che l’Italia fosse assai più lontana che la Danimarca.
E quando gli dicemmo che l’Italia era di là dalla Danimarca trecento
buone leghe svedesi, ci guardò con grande sorpresa; e dopo un breve
silenzio replicò che non concepiva che motivi ci conducessero a venire
nel suo paese, e a spendere tanti risdalleri in poste. I suoi discorsi
particolarmente battevano sul clero, ch’egli si compiaceva di mettere
in ridicolo con quella vena di buon umore che è il sintomo ordinario
di un buon criterio. Egli era grande ammiratore di _Gustavo III_, con
cui ci diceva aver discorso; e non v’è dubbio che non lo divertisse.
Nè mai perdendo di vista il suo argomento favorito, cioè di satirizzare
sul clero, vi ritornava sopra costantemente terminato che avesse alcuna
digressione, che noi avevamo la compiacenza di ascoltare. _Gustavo
III_, diceva egli, era un grand’uomo, un gran re; e nondimeno egli
non pretendeva la metà del rispetto e della venerazione, che da noi
richiede il nostro clero. Questo clero predica la umiltà; ma intanto
egli spinge l’orgoglio al di là di quanto possa mai credersi. I nostri
parrochi godono di buone prebende; vivonsi in una beata tranquillità;
e per non avere disturbi prendono a giornata de’ preti poveri, che
facciano per loro le domeniche quello che dovrebbero fare eglino
medesimi. In quanto a loro non fanno altra cosa che starsi quietamente
sdrajati sulle loro careghe, e ricevere gli omaggi de’ paesani che
passano vicini ad essi. E sappiate bene che codesta oziosità loro non
dee imputarsi a poca capacità e dottrina; perciocchè se sorga qualche
quistione sul pagamento delle decime, imposta ch’essi mettono sul
prodotto de’ nostri sudori, si fanno presto conoscere pei più dotti e
più sensati uomini del mondo. Nè sono eglino soltanto buoni aritmetici;
ma sanno di più sulle dita tutte le leggi, tutti gli editti, e tutti
gli statuti del regno.
Io ripeto qui parola per parola il discorso di codesto paesano per dare
una idea del modo di pensare sopra una materia che interessa, come per
tutto altrove, il popolo di queste contrade. Ma quello che ci rendeva
più sorprendente la intelligenza di codest’uomo, egli è che non avea
avuta alcuna educazione, nè letto alcun libro, di modo che quanto
diceva, tutto era parto della sola sua testa. Il nostro filosofo della
natura mesceva ne’ suoi discorsi qualche osservazione meteorologica.
Così, p. e., prediceva una estate assai tarda dietro alcune macchie da
lui osservate sulla da noi detta Via Lattea. Ci riferì pur anco alcuni
aneddoti della guerra di Finlandia fatta da _Gustavo III_; e ci disse
che la battaglia di Hogland sarebbe stata più decisiva in favore degli
Svedesi, se tutti gli ordini fossero stati eseguiti convenientemente;
ma che il principe _Federico_ non potè mandare la flottiglia in
soccorso della squadra, che mancava di munizioni. La quale circostanza
veramente è una delle più notabili in tutta la storia di quella guerra,
confermatami da persone, ch’erano al fatto di ben sapere le cose, e
sulle quali non può cadere sospetto di nissuna specie.
Le isole di Aland non sono meno di 80, e per la più parte piccole e
deserte. Sono situate tra il golfo di Botnia e quello di Finlandia,
e si stendono dal 59.º grado e 47 minuti di latitudine, fino al 60
e mezzo: la loro longitudine è dal 56.º grado e 57 minuti, al grado
39.º e minuti 47. Aland, che dà il nome a tutte, ha 20 miglia di
lunghezza, e ne ha di larghezza 16. Il mare che circonda l’isola di
Aland, gela rare volte; e gelava in addietro meno frequentemente che
oggidì. Credesi da alcuni, che i forti agghiacciamenti, pe’ quali si
può transitare a piedi e nelle slitte, succedano ogni dieci anni. In
generale gli abitanti di queste isole vivono lungamente: coltivano
frumento, segala, orzo, avena; fanno la pesca delle aringhe; e si
alimentano di pane di frumento e di segala, di pesce fresco, o salato,
di latte, di burro, di formaggio e di carne: usano molto la carne
del vitello marino; ed è per essi un piatto squisitissimo quello che
chiamano _skarkroppe_, fatto di fette di carne concie con farina
e con lardo. È loro particolar costume il maritarsi verso la metà
della estate, con che pretendono di provare che non hanno bisogno di
aspettare la raccolta delle messi per porsi in istato di mantenere la
loro famiglia. Il vestito degli uomini consiste in un corto soprabito,
il quale alla domenica per lo più è di panno turchino. I giovani
portano calzette di cotone, ed alcuni di loro hanno un orologio: le
donne hanno una gonella ed un grembiale di cambellotto, di cotone o
di tela dipinta, e qualche volta di seta: di seta nera in generale è
il loro abito da lutto e di cambellotto la gonnella. In testa portano
de’ berretti; e si coprono il seno con parecchi fazzoletti di seta:
stando poi in casa usano panni fabbricati nel paese; e ne hanno di
varie sorti. Le maritate s’empiono le dita di anelli, essendo questa
la loro più evidente passione. Ma in Aland si veggono meno cucchiai e
nappi di argento che presso i contadini di Finlandia. Le abitazioni
di quest’isolani sono comunemente di legname, coperte di scorza di
betulla; e nell’interno ben illuminate e pulite. La mancanza d’acqua
corrente fa che usino molini a vento.
In quanto al carattere degli Alandesi è giusto dire che sono ingegnosi,
vivaci ed obbliganti: che sul mare spiegano molta destrezza ad ogni
uopo, e coraggio: costumati poi e buoni a segno, che si è osservato
qualmente dal 1749 fino al 1793 sette sole persone furono convinte
di delitto capitale; e non vi seguirono che sette omicidii. Questo
popolo non è per nulla inclinato alla superstizione; ma viene accusato
d’essere litigioso; il che non so su qual fondamento.
Queste isole non hanno nè orsi, nè scojattoli; e l’alce, che in
addietro era comune, vi è scomparso affatto. Bensì vi sono lupi che
vi provengono dalla Finlandia attraversando il mare quando è gelato.
Noi non ne abbiamo incontrati, ma ne abbiamo vedute le traccia nelle
foreste. Vi sono parimente volpi, martori, armellini, lepri, talpe,
sorci di varie specie: rare sono le lontre; e frequenti sulle coste
i vitelli marini. Di uccelli si contano più di cento specie, e molte
specie di pesci. I naturalisti possono avere largo campo di esercitarsi
sugl’insetti proprii di queste isole; e i botanici sulle piante.
Ma pochi minerali trovansi nelle montagne d’Aland, le quali sono
principalmente formate di una specie di granito rosso. Gli Alandesi
curano poco le api, ed hanno torto.


CAPO III.
_Abo e cose notabili di questa città. Stato e vivere degli
abitanti del paese. Incontro di un bardo moderno. Aurora
boreale. Yervenkile. Sua cascata. Caccia. Stato economico
dell’albergatore._

Non v’era gran che a quest’isole, perchè vi ci fermassimo. Noi dovevamo
spingerci ad Abo; e per arrivarvi passammo presso il castello di
Abo-Hus, situato alla foce del fiume Aura. Abo è una di quelle città,
che nel paese si chiamano _Stapestad_, cioè che hanno il permesso
di commerciare co’ forestieri. È situata al 60.º grado e 10 minuti
di latitudine settentrionale, sopra un promontorio formato dal golfo
di Finlandia e da quello di altrove Botnia. È distante da Stockholm
287 miglia; e siede in riva del fiume Aurajocki, ivi largo da 180
a 300 piedi, e le cui acque fangose poco o nulla servono agli usi
domestici. La città, lunga 12,820 piedi e larga 7,250, è divisa in
cinque quartieri, tre de’ quali sono situati al nord-est del fiume, e
due al nord-ovest; e comunicano insieme per mezzo di un ponte di legno.
Ha tre piazze. La detta _piazza grande_ è cinta di parecchi edifizii
pubblici e privati, costrutti in pietra: la _piazza nuova_ ha fabbriche
d’ogni specie fatte di legname; e presso la _piazza della chiesa_ è
l’accademia. Questa chiesa è la cattedrale, detta di _Sant’Enrico_:
bel fabbricato gotico, lungo 350 piedi e largo 190. Essa serve ai due
cleri, lo svedese e il finlandese: il primo incomincia le sue funzioni
alle sei ore della mattina; e il secondo alle ore nove. Abo non ha
altra chiesa che questa.
L’accademia ha due piani, ed è fabbricata in pietra. Ha sale per
le sedute degli accademici, per gli esercizii ginnastici, per la
biblioteca e per altri usi. In questo fabbricato alloggia il vescovo
d’Abo; e sta inoltre anche il seminario.
L’università ha molto credito, e singolarmente in grazia di uno
statuto, il quale obbliga tutti quelli che hanno terreni o pensioni
dalla corona, a lasciare i loro corpi, morti che sieno, ad uso
del teatro anatomico. Questa università ha professori adunque di
anatomia, che vi si sono distinti, e ne ha di chimica, di storia
naturale e di economia. Recentemente si sono assegnati stipendii fissi
e sicuri a’ professori che prima non ne avevano; e si è istituita
una nuova cattedra di poesia unita a quella di eloquenza. Il numero
degli studenti si valuta a cinquecento cinquanta all’incirca. Questa
università deve la sua fondazione alla famosa regina _Cristina_: essa
ne formò pure la biblioteca, accresciuta poscia da diversi personaggi
assai rispettabili; ed oggi è ricca di libri rari, di manoscritti, di
medaglie, ecc. Tra varii oggetti di curiosità ci si mostrò un libro di
orazioni incise da un paesano sopra tavolette di legno. V’è ancora una
bella raccolta di medaglie svedesi antiche e moderne; e vi si contano
più di dieci mila volumi, e si ha un fondo annuo di centocinquanta
risdalleri per ampliarla.
A tre miglia di distanza da Abo verso il sud-ovest è Beckholmen,
piccolo porto, ma sicuro, e per la profondità delle sue acque atto a
ricevere le più grosse navi mercantili, provveduto inoltre di quanto
occorre per caricare e scaricare. I legni che non hanno bisogno di
oltre 8 o 10 piedi d’acqua, possono risalire quasi fino al ponte.
Abo ha varie manifatture di tabacco, di zucchero, di fettucce di seta,
di tele, di corami, di carta, ecc., e le piantagioni di tabacco sono
per essa un oggetto importantissimo, poichè ne producono ogni anno
per lo meno 152,000 libbre grosse. Considerabile è pure il commercio,
ch’essa fa non solo nei porti del Baltico, o ne’ vicini, ma in quelli
di Cadice, di Lisbona, di Bordeaux, di Genova e di Amsterdam. Ma è
d’uopo partire da Abo.
Noi ne partimmo ai 20 di marzo, e ci dirigemmo verso il nord. Per
risparmiarci la pena di scaricare e caricare le nostre cose ad ogni
posta, avevamo comperate ad Abo delle slitte, affatto simili alle usate
dai paesani. Ma come in quell’anno non era caduta moltissima quantità
di neve, il cammino riusciva stentato; e il cavallo incontrando
de’ tratti di terreno spoglio o in tutto, o in gran parte di neve,
faceva una enorme fatica a strascinare la slitta, e ad ogni momento
ci bisognava discendere, e andare a piedi finchè si trovasse neve,
o qualche lago, o fiume gelato. Molte volte adunque la slitta si
rovesciava; e com’era stretta e bassa, noi non correvamo per ciò gran
pericolo.
Nulla di gran momento il viaggiatore incontra sul cammino da Abo a
Yervenkile. Il paese è in gran parte piano; e solamente a qualche
miglio da Yervenkile diventa un poco montuoso, senza presentare però
punti di vista dilettevoli. In generale le case de’ paesani sono ben
fatte; e il forestiere vi trova alloggiamento e letto. Il paesano lo
accoglie con buona ciera; e gli fa parte delle sue provvisioni, le
quali comunemente consistono in latte rappreso, in aringhe salate,
e in carne pure salata anch’essa. Questi paesani sarebbero poveri
confrontati colla nostra maniera di vivere; ma confrontatisi tra loro
sono ricchi, perchè hanno tutto quello, che secondo essi costituisce
l’agiatezza. Potendo risparmiare qualche denaro, lo tengono pei loro
bisogni impreveduti, o lo spendono in vasellami ed utensili necessarii
alla famiglia. E in Finlandia non è cosa rara il vedere che in una casa
di legname, ove non si trova che aringhe e latte, si porti acqua in una
coppa di argento, che vale 50 o 60 risdalleri. Le donne sono vestite di
abiti caldi; e sopra i loro abiti portano una specie di duglietta di
tela, di modo che vedendole in tale figura si crederebbe che fossero
miserabilmente coperte. L’interno della casa è sempre caldo ed anche
molte volte troppo per que’ medesimi ch’entrano dall’aria aperta. Gli
uomini rimangonsi costantemente in casa con una semplice camicia e un
piccolo giubbettino sopra di essa; ed escono sovente anche fuori in
quella maniera senza paura nè di febbri, nè di reumi. Ne troveremo la
ragione quando ci avverrà di parlare de’ loro bagni. I Finlandesi che
accompagnano i viaggiatori per di dietro alle slitte, sono coperti di
un piccolo sopratutto di pelle di vitello marino o di panno, chiuso
alla metà del corpo con una cintura: essi mettonsi sopra gli stivali
delle grosse calzette di lana, avendo così il doppio vantaggio di
tenersi caldi e di non iscivolar camminando sul ghiaccio.
L’interno della famiglia di un paesano presenta all’uomo che non abbia
il cuore corrotto, un quadro giocondissimo d’innocente costume. Le
donne sono intese a cardare o a filare la lana; e badano bene a queste
loro faccende mentre gli uomini fanno fascine o reti, o fabbricano od
acconciano slitte. A Mamola noi incontrammo un cieco con un violino
sotto il braccio, circondato da una folla di giovinetti e di ragazze.
Era calvo sulla parte davanti della testa, avea una lunga barba che
gli arrivava al petto e bianchissima come la neve, con che ispirava
una certa venerazione. Sarebbesi preso per uno di que’ bardi, o poeti
descritti con una specie di entusiasmo nella storia del Nord. Quella
folla nol circondava invano, perciocchè cantava strofe graziose,
e le alternava con istorielle di varie maniere. Al giunger nostro
tutto tacque, e molti si sbandarono; e come i ragazzi sono ragazzi
in ogni paese, veggendo essi de’ forestieri, cosa per loro affatto
nuova, dimenticando il bardo si misero a burlarsi, e a ridere di noi.
Il povero bardo approfittando della occasione ci domandò in cattivo
svedese qualche moneta in limosina.
La maniera nostra di viaggiare parte in islitta, e parte a piedi
mi condusse a meditare sulla utilità di una slitta, il cui modello
avea veduto nel deposito delle macchine di Stockholm. Era questa
una slitta sospesa a’ due fianchi, la quale con una sorta di molla
potevasi collocare sopra quattro ruote, e le molle l’alzavano dal
terreno, e servivano a convertirla in una vettura. Ai 30 di marzo
verso mezza notte eravamo ancora in istrada, con un freddo di 13 gradi
sotto il gelo, secondo il termometro del _Celsio_, quando, molto a
proposito per distrarci dalla nojosa monotonia del viaggio, ci si
presentò lo spettacolo di un’aurora boreale. Il cielo nella parte del
settentrione parve ad un tratto tutto infuocato; ed insensibilmente
prese quel brillante colore del rubino, di cui il tramonto del sole
arricchisce le belle serate d’Italia, felice presagio, al dir di
_Virgilio_ ed alla prova della esperienza, della bellezza del dì
susseguente. Dal seno di questa porpora superba immantinente s’alzò
verso il polo un arco splendentissimo di tutte le varietà dell’iride,
e tagliato da moltissimi altri archi non meno vivi, ma mobili, e con
maestà ondeggianti, i quali disegnavansi sopra un immenso velo di
un fosforo luminoso, le cui pieghe diafane, agitate continuamente si
sviluppavano in lunghi solchi di fiamma, ed ognor più animati da come
fiaccole ardentissime, colle quali sarebbesi detto, che il cielo ad
ogn’istante le fulminava, prolungavano lungi l’incendio sotto la volta
celeste. Tutta l’atmosfera veniva presa dal loro chiarore; e indoravano
vivamente i contorni di tutte le nubi. Se queste meteore frequenti
nelle contrade vicine al polo interessano per la loro magnificenza
gli abitanti del Nord, accostumati pure a vederle, facil’è giudicare
l’effetto che questo spettacolo produsse in noi, che ne godevamo la
vista per la prima volta.
Finalmente giungemmo ad Yervenkile, piccolo distretto, il quale
appartenendo alla università di Abo è affittato ad un onesto paesano.
Questo galantuomo ci accolse eccellentemente, e ci diede una camera
e de’ letti. L’ingenua sua ospitalità ci rendette giocondissimi i
tre giorni di riposo che prendemmo in casa sua, e di cui avevamo gran
bisogno. Quest’abitazione, vicina ad una bellissima cascata, offre un
eguale interesse al pittore e al cacciatore. Non sarà grave udirne una
breve descrizione a chi ami più particolarmente conoscere codesta parte
della Finlandia in cui ora siamo.
Yervenkile è un piccolo villaggio di tre o quattro famiglie situato
sopra un lago. Noi prendemmo la strada di questo villaggio invece di
quella di Wasa, perchè volevamo vedere la cascata che n’è distante un
quarto di lega, e ch’è famosa per la sua elevazione. Essa è formata
dal fiume Kyro, il quale uscendo del lago che porta lo stesso nome si
precipita attraverso di scogli e rupi scoscesissime e disuguali per
un’altezza di circa 210 piedi. È difficile dire in quante diverse forme
si presenti l’acqua impetuosa e schiumante che si gitta giù da tante
asperità enormi. Noi per meglio contemplarne lo spettacolo ci fermammo
sopra un’altura, da cui si discopriva un paese mirabilmente variato, e
quasi tutto coperto di pini, la cui verzura tetra, indorata dai raggi
del sole faceva un contrasto pittorico colla bianchezza abbagliante
della neve e colle masse de’ ghiacci sospesi sull’orlo della cataratta.
L’aspetto della cascata è particolare affatto alle regioni del Nord;
nè di simile se ne trova alcuna in Italia. Vedevasi l’acqua scagliarsi
da enormi volte di ghiaccio cristallizzate in mille maniere; e come il
vapore che s’alzava, ivasi congelando nell’aria in forma di polvere,
percosso dai raggi solari presentava iridi sorprendenti pe’ vivi e
diversi colori, e per la loro ineffabile mobilità. Cadendo poi que’
vapori gelati sopra la discendente corrente, formavano de’ ponti di
ghiaccio di tale solidità, che si potevano passare con tutta sicurezza;
e siccome i flutti urtavansi e precipitavansi con somma violenza contro
le pareti di que’ ponti, sovente accadeva che travasassero al di sopra
de’ medesimi, e ne rendessero la superficie sì liscia e sdrucciolevole,
che i paesani per passarvi erano obbligati a mettersi col ventre a
terra e a camminare colle ginocchia e colle mani. Essendo stati a
questa cascata più volte ne’ giorni che ci fermammo nel villaggio, ci
prendemmo anche il piacere della caccia per tirare alle lepri, alle
volpi e ai lupi, delle quali bestie vedevamo i segni nelle foreste; ma
non avendo cani con noi, non ne potemmo snidare alcuna. Ci limitammo
a tirare a piccoli uccelli, che osservammo di razza non veduta in
Italia. I paesani vedendoci gittare la nostra polvere per sì poca
cosa, ridevansi di noi; e come uno di loro credette di farci cosa grata
ammazzandoci qualcuno di quegli uccelli, prese il suo archibugio, lo
sparò, e ce ne portò uno, il quale avendo noi trovato senza testa,
gli facemmo intendere che il dono non poteva esserci grato: l’avremmo
desiderato intero. Il suo archibugio avea una canna simile a quella
di una carabina, ma di calibro piccolissimo; adoperava inoltre
palle grosse quanto un pisello. Io gli mostrai la nostra minutissima
munizione: egli ne fu meravigliato, non avendone mai veduta di simile;
ma ricusò di adoperarla; e caricato di nuovo l’archibugio alla sua
maniera, tirò, e mi recò un uccello della specie del primo, tutto
intero, e non avente che una piccola contusione al petto. Non avea
fatto che toccarlo leggierissimamente. Ammirammo la sua destrezza e
la giustezza del suo colpo d’occhio; ed egli disse che tutti i paesani
tiravano colla medesima abilità.
Prima di lasciare Yervenkile desideravamo informarci della maniera
di vivere del nostro ospite, delle sue spese domestiche, e del prezzo
delle derrate in quella parte di Finlandia. Il legname non costa che la
fatica di tagliarlo e di trasportarlo; e la giornata di un lavoratore
è cara, perchè costa dai 12 ai 16 soldi. Il nostro ospite avea tutta
l’aria di un uomo comodo. Avea sei vacche, le quali gli avevano dati
sei bei vitelli: avea sei capre, che ogni sera ritornando dal pascolo
gli somministravano latte abbondante: avea di più otto agnelli e
tre cavalli, de’ quali servivasi per le sue slitte: le vacche gliene
davano ogni mattina un secchio. Una vacca gli costava da cinque a sei
risdalleri; un vitello due; e sedici soldi una capra e un capretto.
Il cantone non dava frumento; e il prezzo della segala era di cinque
risdalleri e mezzo il barile. Gli domandammo se fosse stato mai nella
necessità di mangiare pane fatto colla scorza d’albero, e se mai si
fosse trovato costretto a nudrire le sue vacche coi loro escrementi,
conciandoli con un poco di sale, di farina e di paglia, conforme usano
quelli della Dalecarlia; e rispose non essersi mai trovato in tali
angustie. L’affittanza che avea era una casa, che abitava colla sua
famiglia: a destra di essa era un piccolo alloggiamento pe’ forestieri,
a sinistra le stalle per gli animali.


CAPO IV.
_Foresta famosa in Finlandia. Indole dei lupi che vi abitano.
Incendii ed uragani che la devastano. Cammino pericoloso, e
mal passo sul ghiaccio. Altro ghiaccio più spaventoso. Wasa:
descrizione di questa città._

Abbandonando Yervenkil entrammo in una foresta famosa in Finlandia,
tanto per l’altezza delle piante, quanto per la sua profondità,
dicendosi che va oltre le 80 miglia inglesi. I lupi sono i soli
animali, che ivi possano temersi: non assaltano mai l’uomo; ma non
risparmierebbero mai il suo cavallo senza la presenza di lui; e
quando sono veramente affamati si uniscono in truppe, e danno addosso
furenti a quelli che strascinano le slitte. Guai se allora la slitta
si rovescia! Scappato il cavallo, e rimasto l’uomo abbandonato sulla
terra, essi precipitansi sopra di lui, e sel divorano. Noi non ne
vedemmo alcuno.
Queste foreste sono scure a cagione dei fitti rami che s’intrecciano
insieme sulle cime di quelle piante gigantesche; e la temperatura
n’è assai dolce. Ma tutto colà è muto; se non che tanto silenzio vien
rotto dallo scoppio, che il gelo cagiona nel corpo de’ grossi fusti.
E non è questo l’aspetto unico che presentano. Noi vedemmo gl’immensi
guasti di uragani terribili, e d’incendii spaventosi. Montagne, valli,
spazii di più miglia coperti di boschi, sono frequentemente esterminati
dalle fiamme. Onde quest’incendii? La poca cura de’ paesani, che non
abbandonano mai la pipa transitando per queste foreste; e una scintilla
che cada sopra foglie secche, ajutata da leggiero venticello, può
esserne una cagione. Oltre ciò i paesani soventi volte accendono de’
fuochi o per riscaldarsi, o per cuocere le loro vivande; e trascurano
poi di estinguerli partendone. La seconda cagione è riposta nelle
leggi del paese. In parecchi distretti i paesani traggono i legnami
dalle foreste reali pagando una certa tassa: in altri hanno la facoltà
di tagliarne; ma sono multati, se oltrepassano i limiti. Più: quando
una foresta della Corona s’incendia i paesani hanno il diritto di
abbattere, e di portar via gli alberi attaccati dal fuoco. Avviene
adunque che se i paesani mancano di legname, o se la quantità loro
assegnata non basta ai loro bisogni, l’interesse loro li spinge a
metter fuoco ai boschi della loro vicinanza, essendo allora liberi
ad appropriarsi quanti alberi mai vogliono. Io vidi in questa foresta
un esempio dei terribili guasti di uno di questi incendii. Le fiamme
aveano divorato il bosco per una estensione di sei in sette miglia. Non
può vedersi spettacolo più tristo. Non solo si tratta che presentinsi
allo sguardo tronchi e rimasugli d’alberi confusamente giacenti sul
suolo, e interamente ridotti in carboni; ma ve n’ha molti altri ancora
ritti in piedi, che le fiamme hanno spogliati dei loro rami, e della
loro scorza dalla cima fino alle radici. Alcuni sono stesi tutti interi
sulle brage estinte: altri semplicemente inclinati appoggiano i loro
neri scheletri ai vicini, morti anch’essi, ma senza essersi smossi
dalla prima loro positura. In mezzo poi a tanta ruina se ne osservano
de’ giovani pieni di sanità, di succhio, e di forza, i quali sembrano
nudrirsi delle ceneri de’ loro padri, e vanno crescendo per rimpiazzare
la generazione scomparsa. Ma eguale terribil guasto fanno anche gli
uragani.
È impossibile concepire come i venti possano penetrare attraverso della
fitta volta, che ad essi codesti boschi oppongono. Si sarebbe tentati a
credere che questi uragani fossero tante di quelle formidabili trombe
descritte da altri Viaggiatori, e che trionfano di ogni resistenza.
Alberi di un volume enorme sono strappati dalla terra, e mostrano
nude le loro profonde radici: pini che tre uomini non potrebbero
abbracciare, e i cui tronchi impunemente sfiderebbero le più furiose
tempeste dell’Oceano, ivi sono piegati come un debole giunco; ed
abbassano nella polvere la superba loro fronte. I colossi in apparenza
più indomabili sono precisamente quelli, che i venti maltrattano con
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