Viaggio al Capo Nord - 12

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di pecora, e di capra.
Il desinare e il cenare de’ Laponi della montagna si fa costantemente
con ciò che dà loro in inverno la caccia. Ogni settimana ammazzano una
o due renne selvaggie, più o meno, secondo il numero degl’individui
componenti la famiglia. Ecco tutta la loro cucina. Il cacciatore che ha
ammazzata la renna, la taglia in pezzi, e mette questi nella marmitta
senza badare nè al sangue, nè ad altro imbratto. La bollitura fa alzare
il grasso, che si schiuma e si mette in una conchiglia, la quale serve
di piatto, e vi si getta un poco di sale. Cotta, o creduta cotta la
carne si cava dalla marmitta con una forchetta di legno, e si depone
sopra un piatto, lasciando nella marmitta il brodo. Tutti siedonsi
intorno al piatto, e ciascuno bagna il pezzo di carne che ha tolto,
colla punta del suo coltello nella conchiglia del grasso schiumato; e
di tempo in tempo beve un cucchiajo di brodo rimasto nella marmitta;
così que’ Laponi cominciano e finiscono il loro pasto. E sono essi
tanto economi, che neppure degli ossi fanno grazia ai loro cani;
perciocchè dopo averli ben bene piluccati li spezzano minutamente, e li
fanno bollire di nuovo per trarne una gelatina. Ma i Laponi mangiano
la carne anche arrostita; e in luogo di spiedo infilzano la loro
selvaggina in un palo aguzzo, che piantano d’innanzi ad un gran fuoco,
e di quando in quando lo rivoltano, onde per tutti gli aspetti la
carne sia penetrata dal calore; ma non usano poi percottarla col burro.
Qualche volta per variare affumicano la carne; e perchè prenda bene il
fumo le fanno qua e là molte incisioni: nel resto l’appendono all’alto
della loro tenda. I Laponi viventi sulla costa mangiano bue, montone,
orsi, volpi, e lontre, e vitelli marini, ed ogni altro animale, che lor
riesca di uccidere, salvo però il porco, pel quale hanno un’avversione
orribile. Que’ che si danno alla pescagione, mangiano sermoni, che
fanno seccare al sole; e non vi fanno altra concia che quella dell’olio
di balena. La madre ne dà de’ bocconi masticati al suo bambino, che
ancora allatta; e così il Lapone contrae il gusto di quest’olio, che
riguarda come la miglior cosa del mondo. Quando trovano finite le loro
provvisioni, raccolgono le teste, e le spine, e gli ossi de’ pesci
che abbiano ancora qualche bricciolo di carne; fanno arrostire queste
cose; poi le mettono a bollire in una marmitta con fette di coscia
del vitello marino: ma hanno la precauzione di porre questi ossami nel
ventre di una foca, e di tenerveli, onde s’imbevano meglio dell’olio
di quell’amfibio: quest’olio si serve poi come salsa. Arrostiscono
parimente il pesce, come fanno della carne. Hanno una singolar passione
pel pesce, che i naturalisti hanno battezzato col nome di _gadus
eglesinus_; e vivanda per essi squisitissima è il fegato del medesimo,
pesto, e conciato con certe loro bacche. Il mangiare di queste genti
con tant’abbondanza di grassume, e di olii, potrebbe far credere
che loro cagionasse varie malattie: ma essi non soffrono nè malattie
croniche, nè dissenterie, nè febbri, nè altri malanni del genere, che
soffronsi nei nostri paesi: la sola, che singolarmente li affligga, è
una colica spasmodica, che viene attribuita a’ vermi, della quale si
parlerà, e che è più incomoda, che inquietante. Nè usano, nè conoscono
il pane: al più fannosi con farina ed acqua alcune piccole focaccie,
che cuocono sul focolare. Bensì hanno certe delicatezze di loro gusto
per aguzzar l’appetito; e sono i soli ricchi, che le usano: una è la
scorza più interna dell’abete presa di recente dall’albero, e tenuta
per darle maggior sapore al fumo, e intinta nell’olio di balena. A
compimento de’ loro pasti godonsi dell’angelica, di cui mangiano fusto,
foglie, e radici fino che è fresca; e la mangiano pure bollita nel
latte. Dopo il pasto è loro delizia il tabacco o fumato, o masticato. È
inesprimibile la loro passione per questa pianta irritante.
La bevanda comune de’ Laponi è l’acqua, che l’inverno procacciansi
facendo fondere la neve al caldo. Se sono vicini ad un fiume, rompono
il ghiaccio per provvedersene.
Rimane a far qualche cenno de’ mobili di casa, che i Laponi usano; e
l’inventario di questi è corto. I Laponi erranti non potrebbero averne
molti ancor che volessero, poichè oggi sono attendati qua, domani là,
e le loro tende sono assai piccole. Nè, siccome si è già accennato,
sono più ampiamente alloggiati quelli, che hanno ferma residenza,
onde nemmeno quelli della costa s’imbarazzano di tavole, di scranne
e di simili cose. Tutto adunque si riduce ad una marmitta, a qualche
piatto, ad alcuni cucchiai di corno o di stagno; ed è un gran lusso
de’ pochi più ricchi un qualche cucchiajo di argento. I montanari
nella lunga notte di tanti mesi non hanno altro lume, che quello che
si procacciano col fuoco continuo. L’abitante delle coste per veder
lume empie un guscio di conchiglia d’olio di foca, vi pone uno stoppino
fatto di giunco; e questo è il suo mobile più pregiato. Ma veramente il
mobile più pregiato, in quanto il Lapone vi mette tutto il suo ingegno
a farlo e ad ornarlo, si è la culla destinata a contenere il frutto
del suo amore. Questa culla è fatta di un tronco d’albero ben incavato
e fregiato di scolture. La madre l’attacca con alcune correggie alle
sue spalle quando viaggiando ha da portar seco il suo bambino; ed ha
l’attenzione di fargli pendere sul davanti raccomandata ad un mezzo
cerchio una filza di globetti, onde giacendo sulla schiena, ed avendo
libere le mani e le braccia, il figliuoletto possa divertirsi.
Si è detto delle renne, del governo e dell’uso che i Laponi ne fanno;
qui non occorre che accennar qualche cosa della caccia che danno alle
selvaggie. Non vi si abbandonano però che accidentalmente, tutte le
loro cure essendo intese alla custodia delle domestiche. È in inverno
spezialmente che vanno in traccia delle selvaggie, correndo a piedi
sulla neve con quelle loro scarpe, che abbiamo chiamate scivolatoi,
medianti le quali vanno più spediti della renna medesima, al cui
corso l’altezza della neve fa grande ostacolo. Raggiungendola adunque
l’ammazzano con qualche colpo sulla testa: diversamente le tirano sopra
con arma da fuoco: usano ancora, secondo la circostanza de’ luoghi,
di un laccio, in cui l’animale imbarazza le sue corna. Hanno anche la
destrezza di ridurle o a certi parchi, o in qualche stretta, da cui le
renne, entrate che vi sieno, non possono più uscire.
Col fucile o con lacci i Laponi prendono le lepri che abbondano nel
paese. Questi animali in inverno hanno bianco il loro pelo. Abbondano
pure nel paese le volpi; e ve n’ha di diverse specie, altre essendo
rosse di colore, altre aventi sulla schiena, e su quel rosso una croce
nera; alcune nette nere; altre nere, ma aventi sulle vertebre un lungo
pelo di un grigio di cenere; e queste sono di gran prezzo in tutti i
mercati d’Europa. Ve ne sono anche di bianche colle orecchie, e i piedi
neri, e colle code bianche, e macchiate di peli neri. V’ha pure de’
martori. Quelli di montagna hanno il pelo corto, e nericcio, giallastra
la coda, e grigio di cenere il petto: il martore detto di betulla,
perchè spesso si trova dove quest’albero cresce, è giallo di pelo, ha
la coda porporina, e bianco il petto. Più rara è la donnola, chiamata
dai naturalisti _mustella martri_, la quale ha per proprietà di saltare
sulla schiena della renna, ed a forza delle unghie e dei denti di
ucciderla.
Anche la Laponia ha castori; e talora se ne sono veduti dei bianchi,
i quali non sono, che una specie di mostruosità della natura. Troppo
è nota l’indole singolare di questo animale perchè noi non commettiamo
qui una superfluità parlandone. Diremo piuttosto dell’animale chiamato
dai Laponi _zhjestes_ del quale v’ha tre specie: quello di mare,
il cui pelo è giallo pallido, e molto fitto; ed una sua pelle costa
ordinariamente in Danimarca uno scudo: il secondo è detto delle baje e
delle paludi, più piccolo dell’altro, la cui pelle di un color nerastro
è più brillante di quella dell’altro; e vale tre scudi e mezzo. Il
terzo è quello d’acqua dolce, col petto bianco e la schiena nera come
le penne del corvo; e vale cinque e più scudi.
Lo scojattolo e l’armellino sono altri animali preziosi per le loro
pelli. Di questi e degli altri, che abbiamo accennati, i Laponi vendono
le pelli ai Russi, che le adoperano quali nelle loro manifatture,
quali facendone pelliccie, o per uso del paese, o per traffico con
altri popoli. A tutti questi animali vanno unite alcune specie di
sorci; e spezialmente quella, che i Laponi chiamano _lemmick_, che
ivi sono in immenso numero. Va pure unito l’orso, di cui si è altrove
già parlato abbastanza. Tocca a’ filosofi spiegare lo strano fenomeno,
che in questa estrema parte del continente, in mezzo ai rigori di sì
inclemente clima, gli animali tanto selvaggi, quanto domestici, sono di
una singolare fecondità. Le stesse pecore danno due volte all’anno de’
gemelli; e le capre due gemelli costantemente, e qualche volta tre.
Nelle edizioni inglese, e francese di questo viaggio si parla a lungo
de’ _pesci_, degli _uccelli_, degl’_insetti_, de’ _vegetabili_, e de’
_minerali_ della Laponia: quelli che di tali cose in particolare si
dilettano, consulteranno quell’edizioni. Qui si parlerà piuttosto di
alcuni usi proprii de’ Laponi, come argomento che può interessare i più
de’ lettori.
I Laponi sono oggi quelli che erano nel secolo XII, in cui furono
conosciuti sotto il nome di Skrit-Fiani. Quantunque posti sotto la zona
boreale, hanno qualche costume degli abitanti dell’India: per esempio,
dovendosi il Lapone presentare ad un magistrato, o al suo pastore, non
lo fa mai senza regalarlo o di un formaggio, o di qualche pernice,
o pesce, o di un agnello, o di alcune lingue di renne, ecc.; e ne
riporta un po’ di tabacco, una bottiglia d’idromele, od un fiaschetta
d’acquavite, o dello zenzero, del pepe, e simili droghe.
In addietro per dinotare le loro feste, ed i giorni lieti, o funesti,
facevano uso di un bastone con tacche: questo era il loro almanacco.
E sa di quel uso il complimento che incontrandosi praticano,
abbracciandosi scambievolmente, e gridando _eurist_, che vuol dire:
_dio ti salvi da ogni pericolo_. — L’isolamento, in cui vivono le
famiglie lapone, non permette di aver ricorso alle mammane per ajutare
le partorienti: quest’officio è esercitato dagli uomini. Un altro uso
è, che al neonato si assegna una renna, come una specie di patrimonio,
la quale quando sarà grande sarà sua insieme con quanto potrà
provenirne: che vuol dire ch’egli avrà un bell’armento; nè per alcun
titolo, o pretesto vi si può mettere su le mani.
In Laponia il ministro del culto è maestro di scuola, è sacristano, è
tutto, poichè pochissime sono le funzioni religiose. — Se la famiglia
nell’andare a provvedersi per bisogni della giornata non può menarsi
dietro i piccoli figliuoletti, lasciandoli nell’abitazione, capanna, o
tenda che sia, i piccini lega nella culla, onde non cadano movendosi
troppo, e que’ di due, o tre anni lega per una gamba ad una corda
raccomandata ad un piuolo, onde salvarli dal pericolo di cadere sul
fuoco. — Le donne lapone radono fino alla pelle la testa de’ loro
figli, essendo inimicissime degl’insetti, che altrove divorano la pelle
de’ ragazzi, e di chiunque non si tenga netto.
Quando un giovine ha deliberato di prender moglie, lo dice alla
sua famiglia, la quale va in corpo alla famiglia della ragazza con
provvisione d’acquavite, e con qualche regalo per la figlia, che si
ricerca. Entra nella tenda, o nella capanna quello che è destinato a
parlare, e gli altri lo sieguono: il solo giovine rimansi fuori finchè
non sia chiamato. L’oratore comincia dall’empiere un gran bicchiere
d’acquavite, e l’offre al padre della ragazza, il quale, se lo accetta,
è riputato acconsentire; e allora si dà acquavite in giro a tutti.
È ammesso a questa libazione anche il futuro, il quale ottiene il
permesso di parlare in proprio nome alla ragazza. L’oratore intanto
dice quanto può, e sa dire in favore di lui; e quando i genitori della
medesima hanno dato il loro assenso, il giovine mette fuori i regali
destinati alla sposa, p. e. una cintura, un anello, o cosa simile;
e ai genitori di lei promette abiti da nozze. Se per avventura si
ritrattasse l’assenso dato, tutte le spese incontrate anche per quelle
cose che rimasero consumate, restano a carico di chi ha data occasione
alla novità intervenuta. Del resto quando le parti si sono accordate,
il giovine ha il permesso di far la corte alla sua bella e si veste
da festa andando a trovarla, e in lode di lei compone canzonette piene
di affetto. Il che prova, che se i Laponi stimolati a cantare, fecero
cattiva figura, o non ebbero conveniente eccitamento, od erano i più
ignoranti Laponi del mondo. Chi non si trova abile a fare delle belle
canzoni alla sua fidanzata, supplisce regalandole tabacco, acquavite,
o cose simili. Il dì delle nozze la sposa è vestita all’incirca coi
soliti abiti; ma ha nuda la testa, e cinti sulla fronte i capelli con
qualche striscia di stoffa di varii colori, e nel resto porta i capelli
sparsi ed ondeggianti sulle spalle. Il Lapone è frugale anche nel pasto
nuziale, e i convitati di qualche agiatezza regalano lo sposo di alcuna
moneta, o suppliscono con una renna, od altro equivalente. In Laponia
però nè suoni, nè canti, nè balli conosconsi, come segni del tripudio,
che dappertutto accompagna le nozze. Lo sposo per un anno comunemente
vive coi genitori della moglie: poscia va a piantar casa da sè; e
ne ottiene qualche montone, una marmitta, e qualche altra di quelle
piccole cosuccie, che sono necessarie in una famiglia lapona, e che si
sono di sopra indicate.
La grande semplicità, in cui vivono i Laponi, fa che non abbiano
altri giorni di riposo, e di festa, che quelli della stanchezza per le
fatiche sostenute; e quando voglionsi ricreare, non fanno che passare
da un esercizio ad un altro. Perciò i loro divertimenti non consistono,
che in prove di forza, o di destrezza. Spesso usano tirare a segno,
o giuocare alla palla, che uno getta, e l’altro deve respingere con
un bastone. Hannosi un giuoco prediletto, che chiamano della volpe, e
delle oche, che si fa in due, ed è ingegnosissimo: ne hanno un altro,
che chiamano del salto, proponendosi di saltare al di là di un palo
posto orizzontalmente ad una certa altezza; un altro consiste in una
lotta che due, o più sostengono, ma in numero pari per ogni parte; e
la sostanza sta in questo, che tenendosi da ciascun lato un bastone
attaccato alla stessa corda che l’altro, debbesi per le forze rompere
la corda; e perde chi vacilla, o cade, od abbandona il bastone. Lottano
ancora, o pigliandosi per la cintura, e cercando di alzare in aria
l’emolo, o con esso maneggiandosi in altre maniere. Le scommesse in
questi giuochi sono di qualche piccola moneta, o di un poco di tabacco,
o d’altra cosa simile. Questi giuochi, ed altri di egual natura
contribuiscono mirabilmente alla conservazione della robustezza, della
destrezza e della sanità.


CAPO XXII.
_Malattie de’ Laponi. Vajuolo. Colica spasmodica, oftalmia.
Preservativo contro lo scorbuto. Rimedio pe’ geloni, per le
ferite, per le fratture, e lussazioni. Affezioni inflammatorie,
reumi, lombaggine. — Funerali de’ Laponi, sepolture, convito
mortuario, anniversarii. Pietà verso i defunti. Giurisprudenza
sulle eredità. — Religione degli antichi Laponi. Montagne Sante,
tutt’ora in venerazione. Maghi. Affezione de’ Laponi al loro
paese._

Abbiamo detto altrove, che ad onta del clima, delle fatiche, e de’
cibi, i Laponi generalmente sono esenti da quelle tante malattie, che
regnano ne’ bei climi meridionali. Ma i Laponi hanno avuta la disgrazia
degli Americani; quella di partecipare del vajuolo, dacchè un giovine
Scozzese lo recò a Berg, dove fatalmente infettò chi per cagione di
commercio era ito colà dal fondo delle terre settentrionali. I Laponi
adunque furono alcune volte furiosamente minacciati di esterminio
da questa malattia; e le invasioni della medesima formano per loro
un’epoca di loro età. Ma il vajuolo è venuto da di fuori: propria
di loro dee ben dirsi quella colica spasmodica, di cui abbiamo fatto
menzione, e che essi chiamano _ossem_, o _helmé_. Essa sembra avere
i caratteri del _cholera-morbus_ delle Indie: imperciocchè ha la sua
sede nelle viscere verso la regione ombelicale: i dolori che cagiona,
si estendono sino al basso ventre, facendosi sentire a riprese, come
quelli del parto; e le angosce che reca, sono tali, che l’infelice
il quale n’è preso, si dibatte, e rivolta per terra, ed ora non può
espellere l’orina, ed ora la emette sanguigna, come se fosse attaccato
da calcoli. L’accesso dopo qualche ora, e sovente dopo alcun giorno,
termina con un ptialismo, che dura un quarto d’ora. I Laponi viventi
nelle montagne non ne sono attaccati giammai; bensì quelli delle
vallate, e spezialmente nella stagione estiva, quando loro avvenga
di bere l’acqua corrotta delle paludi riscaldate dal sole. Fanno poi
fronte a questa malattia con radici d’angelica, con ceneri, ed olio di
tabacco, e con castoreo liquido. — Endemica malattia loro è l’oftalmia,
che spesso precede la cecità. Il continuo fumo, in mezzo al quale
vivono tutto l’anno, può esserne una cagione; un’altra la vivacità
del fuoco, a cui sono sino dalla infanzia esposti, sicchè vien loro
a disseccarsi l’umidità della congiuntiva. Aggiungasi il riflesso
de’ raggi solari sulla neve, e la sì lunga, ed universale presenza
della neve. Si dice che soffrano anche di una cataratta imperfetta, o
piuttosto di un’affezione della congiuntiva, se il singular modo che
usano per guarirne abbia a tenersi per incontrastabilmente efficace.
Il modo è questo: pigliano un pidocchio umano, e lo fanno entrare tra
l’occhio e la pupilla; il fregamento che l’insetto eccita sul globo,
basta, per quanto dicesi, a distruggere una membrana, la quale stesa
sulla cornea è la prima cagione dell’affezione morbosa.
Parrebbe che i Laponi dovessero andar molto soggetti allo scorbuto,
come tutti i popoli vicini ai mari del settentrione; ma poco ne
soffrono; e dicesi ciò avvenire per l’uso copioso che fanno della
fina pellicola che si trova sotto la scorza dell’abete, di cui fanno
raccolta in maggio; la seccano, la riducono in polvere, e la mescolano
colla farina, di cui fanno le piccole focacce, che stanno loro in
luogo di pane. Se forse meglio non abbiasi ciò ad attribuire al siero
acetoso che usano cotidianamente, e all’abitudine di piantare le tende
sull’alto delle montagne ad un grado medio di temperatura, ove la
umidità de’ fondi non possa loro nuocere. Può contribuirvi fors’anco
l’uso che fanno nell’inverno della carne fresca di loro cacciagione,
e di quella delle loro renne; non meno che il continuo esercizio, in
cui vivono; le pelliccie, di cui sono coperti, e l’aria poco umida,
quantunque fredda, che respirano. I ragazzi soffrono i geloni: per
questi, e per altri mali che procedono dalle stesse cagioni, usano
l’applicazione del formaggio di renna. Per le ferite e contusioni
applicano la gomma che spontaneamente cola dagli alberi resinosi. Per
le fratture, e le lussazioni fasciano strettissimamente la parte offesa
dopo aver rimesse bene le ossa al posto; ma prima fanno prendere alla
persona una pozione, che dicono efficacissima per dissipare i dolori,
e sollecitare la guarigione. Non è detto di che quella pozione sia
composta; ma la giunta che vi mettono di limatura d’argento, o di rame,
non sembra molto persuasiva; e forse sarà superflua; come superflua
è da credere la cura che dannosi nella scelta de’ nervi, coi quali
fasciano le lussazioni, e gli storcimenti; mentre prendono dalle renne
femmine quelli che applicano agli uomini, e dalle renne maschie quelli
che applicano alle donne.
Finalmente i Laponi sono soggetti ad affezioni infiammatorie di petto,
a doglie reumatiche, affini alla lombaggine. Dapprima ricorrono per
guarire alle unzioni di grasso d’orso, e in appresso ai cauterii,
procurando per mezzo dell’abbruciamento un’escara, alla caduta della
quale la malattia cessa. Così i Laponi fanno per pratica ciò che il
padre della medicina spiegava per teorica, e colla pratica consecrava.
Ma bastino queste indicazioni in proposito delle loro malattie, e de’
loro rimedii; e diciamo piuttosto delle loro cerimonie funebri, giacchè
i Laponi in fine muojono come tutti gli altri uomini; benchè quasi
tutti, se particolar caso non intervenga, giungono alla età chi di
settanta, chi di ottanta, chi di novant’anni; e v’hanno parecchi che
passano i cento.
Quando un Lapone è gravemente ammalato, chiamasi un indovino, il
quale dica se guarirà, o se morrà. Se il presagio è funesto, il primo
capitato, che si trovi presso di lui, gli fa un sermoncino divoto; ma
più sovente quelli che sperano qualche porzione della eredità, badano
più a cominciare i funerali, ancorchè l’infermo sia ancora alle prese
colla morte. Morto poi che l’infermo sia, e per qualunque genere di
malattia, ognuno esce della capanna, in cui è il cadavere, credendo
che ivi rimanga ancora qualche cosa dell’anima del defunto. Alcuni
giorni poi dopo ritornano per seppellire il corpo, e rendergli gli
ultimi officii. Se fu persona pe’ fatti suoi commendevole, il corpo si
avvolge in una tela, quanto può aversi più fina; se non lascia cosa
di valore, si adopera un pezzo di tela grossa. Così si pratica con
chi professa il cristianesimo. Alcuni però sono vestiti de’ loro abiti
migliori, e collocati in una bara da una persona nominata, o pagata per
quest’officio; e il parente prossimo del morto dà a quella un anello di
tombacco, ch’essa subito si pone al braccio destro, come preservativo
d’ogni male, che potesse volerle fare lo spirito del defunto, di cui
non abbandona il cadavere fino a tanto che questo non rimanga sepolto.
Prima che i Laponi fossero cristiani, ed anche molto tempo dopo,
seppellivano i morti nel primo luogo, che credessero opportuno, e
spezialmente ne’ boschi, come fanno anche oggi, se sono lontanissimi
da una chiesa. Il modo del seppellimento è di rovesciar sulla bara,
e sul cadavere deposto in una fossa la slitta, su cui n’è fatto il
trasporto, e di gittarvi sopra delle zolle verdi e delle frasche. Se
trovasi a portata una qualche caverna, in essa si depone il cadavere, e
se ne chiude l’ingresso. Quelli che non sono attaccati al cristianesimo
che assai debolmente, e sono i più, mettono col cadavere una scure,
un battifuoco, dicendo che il morto può trovarsi in luoghi oscuri, ed
aver bisogno di lume: la scure poi gli gioverà per aprirsi la strada
tra boscaglie, per le quali egli abbia a passare. Alle donne, invece
della scure danno forbici, ed aghi. Si aggiunge poi una provvigione di
viveri: il che renderebbe assai probabile l’opinione di alcuni, i quali
dicono darsi dai Laponi ai loro morti la scure, le forbici, e gli aghi,
perchè suppongono, che al mondo di là debbano lavorare come lavoravano
in questo. Quando si può trasportare a qualche chiesa il cadavere,
questo può seppellirsi o nel cimitero, o in chiesa, ottenendosene la
permissione: ma v’è gran difficoltà a trovare chi voglia scavare la
fossa, anche ben pagato. In questo caso si osservano le cerimonie del
culto cristiano; e quelli che hanno accompagnato il morto, esprimono il
lutto co’ più miseri abiti, che trovinsi avere. Quando il seppellimento
è fatto nel cimitero, si lascia sulla fossa la slitta, e sotto di
questa mettonsi i vestiti del morto, la sua coperta, e la pelle che
gli serviva di letto. Tre giorni dopo le esequie la famiglia si unisce
al banchetto funebre, in cui la vivanda principale si è la carne della
renna, che ha condotto il morto alla sepoltura: le ossa della quale
mettonsi in una specie di cassa, sulla quale scolpisconsi i principali
tratti del defunto; e vassi a seppellirla ove si è seppellito il
cadavere. Quando si tratta di un ricco, all’anniversario suo si
sacrifica una renna; e ciò si ripete per anni.
I Laponi conservano una lunga memoria di quelli che hanno perduti,
massime se sono parenti; nè fanno ostentazione della loro tristezza
con esterne espressioni e segni. Durano bensì degli anni ad andare
al sepolcro, e forano de’ buchi sui fianchi della fossa, mettendovi
un poco di tabacco, od altra cosa, di cui, mentre viveva, il defunto
dilettavasi, immaginandosi che la felicità dell’altra vita non consista
che in mangiare, bere, e fumare.
L’eredità de’ Laponi sta principalmente in bestiame, in denaro, in
utensili di rame, o di ottone, in pelliccie, e in vestiti. Ma il
forte della sostanza sta nelle renne, che qualche Lapone è giunto
ad averne fino a tre mila, e forse più. Parlandosi della divisione
della eredità è da avvertire, che quella che consiste in denaro, va
per lo più perduta, per l’uso che abbiamo detto regnare fra Laponi di
nasconderlo; e sono sì attaccati a quest’uso, che si ha l’esempio di
uno, il quale sollecitato ne’ suoi ultimi momenti a rivelare il sito
del suo tesoro, ostinatamente ricusò d’indicarlo, perchè, diss’egli,
gli eredi se lo avrebbero appropriato, mentre avrebbe potuto averne
bisogno egli. Dunque trattandosi de’ beni ostensibili, il fratello ne
prende due terzi, e la sorella uno, secondo che porta la legge svedese:
ma in questo riparto non entrano le renne, che hanno fatto parte della
sua dote; nè quelle che alla sua nascita furono donate al ragazzo, e
che assai volte sonosi moltiplicate copiosamente: se si tratta di beni
fondi, i due sessi trovansi a pari condizione; e questo è statuto di
_Carlo IX_, il quale concedette ad ogni famiglia una porzione di terre,
di laghi, di boschi, e di montagne, coll’obbligo di pagare un certo
canone annuo.
Sarebbe facile confrontando varii usi, e varie opinioni, che abbiamo
accennate dominare fra Laponi, cogli usi, e colle opinioni di
generazioni o scandinave, o tartare, rilevare i varii gradi di affinità
sussistenti tra questi popoli. Ma a ciò potrebbe contribuire forse
più quanto si sa della religione de’ Laponi, non affatto dimenticata
anche dopo che abbracciarono il cristianesimo. Eccone gli elementi
principali.
Le divinità adorate da questo popolo possono dividersi in quattro
classi. 1.º Le _Sopra-Celesti_; ed erano due. 2.º Le _Celesti_, due
parimente. 3.º Le _Sotto-Celesti_. 4.º Le _Sotterranee_. Quelle della
terza classe erano anch’esse due; e tre quelle della quarta: tutte poi
avevano il loro nome particolare.
La prima delle _Sopra-Celesti_, detta _Radien-Atshic_, era la divinità
suprema, il cui potere estendevasi sopra tutte le altre; ed in virtù
del nome venivasi ad intendere, che tutte le altre da questa traevano
l’esistenza, e la forza. La seconda era detta _Radien-Kiedde_; e
riputavasi il solo figlio della prima, la quale non creava nulla,
ma trasferiva nel figlio la potenza creatrice: e queste due divinità
dominavano sopra quelle della seconda, e terza classe, le quali erano
in grande venerazione presso i Laponi, perchè inclinate per indole loro
a fare il bene. — La prima delle _Celesti_, detta _Beiwe-Ailekes_,
rappresentava il sole, fonte della luce e del calore, per beneficio
delle quali cose le renne trovavano il loro nudrimento. A questa
divinità offrivano canapa. La seconda dicevasi _Alilekes-Olmak_:
pare che questa rappresentasse la luna, illuminatrice benigna
delle lunghissime notti. — Le _Sotto-Celesti_ occupavano la regione
dell’aria. Alla prima davano il nome di _Maderatje_, residente più
vicina al sole, e davano il nome di _Madarakka_, e di _Oragalles_ ad
altre, abitanti le regioni di sotto al sole: le più vicine alla terra
erano distinte coi nomi di _Sarakka_, e di _Juks-Akka_: le quali
per la vicinanza potevano facilmente assistere chi loro chiedeva
soccorso. _Oragalles_ significava il tuono, il quale in tempo delle
procelle sembra indicare una convulsione negli elementi che compongono
l’atmosfera; e i Laponi adoravano questa divinità per placarne la
collera, e fare che risparmiasse le loro persone, e le loro renne.
_Madarakka_ era la dea proteggitrice delle donne lapone, e la
invocavano in tutte le circostanze particolari del loro sesso. Essa
avea per isposo _Radien-Kiedde_, il potere di crear tutto. _Sarakka_
era la figlia di _Madarakka_, adorata dalle donne lapone anch’essa
insieme colla madre, _Juks-Akka_ era un’altra figlia di _Madarakka_,
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