Viaggio al Capo Nord - 06

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poco sanno, e poco vogliono sapere; il loro Ministro ha predicato
loro colle parole e coll’esempio l’uso dell’aratro; e non v’è stato
verso che se ne sieno persuasi. Quando in autunno comincia a nevicare
fanno la posta all’orso; e si uniscono in tre, o quattro per dargli la
caccia. Alla metà di agosto vanno alla caccia delle anitre selvatiche,
e d’altri uccelli, i quali allora mutando le penne non possono volare,
e ne ammazzano quanti vogliono.
Finito che abbiano di raccogliere i loro fieni, li mettono a coperto in
trabacche erette sopra legni ben forti, e tenendo alto il palco, onde
l’umidità delle alluvioni non lo guasti. Alcuni posseggono renne, che
danno a custodire, e a pascere a qualche Lapone.
Somma è la sobrietà di questi popoli: non bevono liquori spiritosi che
il dì delle nozze: nel qual giorno usano un desinare alla loro maniera,
ed un ballo accompagnato da grida, e da sbattimenti di mani. Non amano
punto la birra; e gustando del vino, che loro offrivamo, facevano
mille smorfie, come se bevessero una medicina. Il Ministro ci assicurò
che in tutta la sua parrocchia forse non v’era un solo bicchiere di
acquavite; e che la ubbriachezza è riguardata da questo popolo come
il vizio più scandaloso, a cui possa essere soggetto un uomo. Il che
ci fece pensare, che questa fosse una delle cagioni per le quali egli
era sì poco riverito e stimato dal suo gregge. Vivendo questi popoli
di tale maniera non è meraviglia se non soffrono le malattie, le quali
affliggono gli abitanti de’ paesi più meridionali; e il Ministro ci
disse aversi esempi di paesani, che hanno vissuto fino a cento dieci
anni. La malattia unica, che faccia strage tra loro, si è una specie di
febbre infiammatoria, che sbriga le persone in pochissimi giorni.
Nel breve tempo che noi stemmo in Muonionisca il ministro ci propose di
fare qualche corsa all’intorno; e noi volentieri scegliemmo di visitare
il monte Pallas, della cui denominazione il nostro conduttore non seppe
darci conto. La gita fu faticosa in quanto al salir la montagna, alla
cui cima non potemmo giungere. Da quelle alture, a cui salimmo, ci si
presentarono superbi punti di vista, che meriterebbero la diligenza del
pittore. Ci mettemmo a raccogliere insetti, e piante: il buon Ministro
non sapeva comprendere a che pro tanta fatica per cose da nulla. Dacchè
gli si era abbruciata la biblioteca, si era accostumato a far senza
teologia. D’allora in poi avea capito che la cognizione dell’Esser
supremo riguardata come scienza non era in generale buona a niente nel
mondo, se non sia per divertir l’intelletto, e a togliere dal corso
della vita la non curanza, in cui l’uomo pensante potrebbe cadere
sugli avvenimenti futuri. In 20 ore avevamo fatto trentasei miglia: il
calore era eccessivo, poichè a mezzogiorno, ma all’ombra, il termometro
di _Celsius_ segnava 37 gradi. Ritornammo dunque a Muonionisca, ove
dopo breve riposo ci mettemmo in ordine per tirare innanzi il nostro
viaggio.


CAPO XII.
_Pallajovenso. Errori de’ viaggiatori e geografi circa la Laponia.
Ciarlataneria di Maupertuis. Aspetto del paese tra Muonionisca
e Pallajovenso. Musco delle renne. Arrivo a Lapajervi, e crudele
persecuzione delle zenzale. Lago di Pallajervi: isola Kuntigari:
fermata in essa deliziosissima. Rondinelle di mare come
servizievoli ai pescatori. Laponi nomadi presi a guida, congedati
i Finlandesi; e penoso viaggio fatto con coloro._

Partimmo adunque il dì 1 di luglio da Muonionisca circa le ore 10 della
sera. La giornata era stata caldissima, perciocchè a mezzo giorno il
termometro di _Celsius_ segnava 29 gradi, e a mezzanotte discese ai
19, ond’è poi che deliberammo di viaggiare per l’avvenire la notte,
e riposare il giorno. Noi risalimmo il Muonio sino alla imboccatura
del piccol fiume chiamato Pallojoki, presso al quale trovasi una
piccola colonia detta Pallajovenso. Parlo di questo villaggio perchè
esso è propriamente il confine della Laponia dalla parte di Tornea;
mentre è locuzione impropria quella di chiamar Laponia il vasto paese,
che comprende Lulea, Pitea, ed Umea sino a Tornea, il quale invece
appartiene alla parte occidentale della Botnia. E ben fa meraviglia
che _Maupertuis_, a cui le scienze sono obbligate di una topografia del
luogo, ove fece le sue osservazioni, e sì celebre per le sue operazioni
astronomiche in queste parti, abbia sì poco conosciuti i luoghi ove si
è fermato, chiamando Laponia la Vestro-Botnia, e intitolato _Viaggio
in fondo alla Laponia_ quello ch’egli fece per visitare con _Celsius_
la già rammentata rupe coperta di caratteri runici. Egli avea appena
appena toccati i confini della Laponia. Ed egli, e gli accademici suoi
compagni dissero una bella bugia, e furono veri ciarlatani, quando
dissero a’ Parigini, che presentavano loro due donne lapone, che non
lapone erano quelle miserabili, ma vere finlandesi; e non parlavano che
la lingua di Finlandia.
Il paese da Tornea a Muonionisca, ed a Pallajovenso, comunque vada
insensibilmente prendendo un carattere selvaggio, non varia gran
fatto all’occhio: le montagne, i laghi, i boschi, le cateratte che lo
coprono, non presentano molta differenza. Ma procedendo da Pallajovenso
a Kantokeino pel fiumicello Pallojoki la differenza salta agli occhi:
potrebbe dirsi, che qui tutto comparisce nuovo. Pallajovenso è uno
stabilimento finlandese di quattro, o cinque famiglie. I mercanti di
Tornea vi hanno costruita una camera, ove fanno fuoco, e si ricoverano
nel loro passaggio l’inverno; e gli abitanti vivonvi in migliore stato,
che quelli d’altri luoghi vicini. La navigazione sul Pallojoki non
fu meno faticosa delle sostenute dianzi, sebbene per altre cagioni.
Siccome era lungo tempo dacchè non era piovuto, poca era l’acqua, di
modo che spesso il battello toccava il fondo, e i rematori doveano
spingerlo avanti a forza di andarlo alzando. Più: il fiume è sommamente
tortuoso; e con tante fatiche sovente invece di andare innanzi si
andava indietro allontanandosi dal punto, a cui tendevamo. Sudavano
que’ poveri uomini; e noi ci annojavamo, c’inquietavamo, ci trovavamo
male, perchè obbligati a camminare a piedi dietro la riva, ci toccava
farci strada attraverso del bosco, ove i rami degli alberi, e i
cespugli ad ogni passo ci arrestavano, lacerandoci inoltre il velo, che
ciascheduno di noi portava intorno al volto per non essere divorati
da quelle maladettissime zenzale, che a migliaja e migliaja ci erano
continuamente addosso. Noi eravamo diretti a Lapajervi: intanto prima
di giungervi facemmo alto per riposarci sopra una rupe considerabile,
che veniva a formare un isolotto. Ivi accendemmo un gran fuoco per
cacciare da noi quegli eterni nemici di ogni creatura fatta di carne;
e di là avemmo la veduta di una prospettiva tutta ancora nuova per
noi. Il musco, di cui si nudrono le renne, copriva tutto il terreno
del contorno, che appariva quasi affatto piano, e da lontano chiuso
da alcuni monticelli egualmente coperti dello stesso musco, che,
naturalmente di un giallo pallido, allora per la siccità era quasi
bianco. Un sì vasto tappeto così colorato, faceva all’occhio un colpo
singolarissimo: tanto più, che per le circostanze del suolo prendendo
quel musco alcune gradazioni di colorito, presentava qua e là de’ pezzi
di forme diverse, e prendeva a guardarlo in totale la figura di un gran
mosaico a cagione de’ varii compartimenti, in che appariva diviso.
Quel colore biancastro del musco poteva ricordare quello della neve;
ma tale idea spariva per la verzura de’ piccoli boschetti qua e là
sorgenti, e più ancora pel senso del calore, che qualche volta riusciva
insopportabile. Essendo poi quel musco ben secco, faceva che ivi si
potesse piantar la tenda, e godervi migliore e più grata stazione, che
altrove: perciocchè altrove io avea bensì incontrati luoghi coperti
di questa pianta; ma nè mai tanto secca, nè in tanta copia: chè qui
soltanto parea avere essa dalla natura il regno, essa sola dominando,
senza che altra pianta possa prendervi posto; e non è che su que’
monticelli, che ho accennati, o sulla sponda del fiume, che si vegga
disperso qualche abete, o qualche cespuglio. Qui dunque veramente
vedemmo d’essere in un paese totalmente straniero, ove la superficie
del terreno, e il genere delle sue produzioni dimostrano, che la natura
l’ha destinato a razze d’uomini, e di animali interamente differenti da
quelle, che sussistono in Europa.
La sera giungemmo a Lapajervi con grande contentezza de’ nostri
rematori, i quali speravano di rifarsi ivi della fatica sostenuta
in tutta la giornata. Abbordando alla sponda del lago, su cui è il
villaggio, incontrammo due Laponi, che ritornavano dalla pesca, ed
erano per passare la notte sul luogo. Una densa colonna di fumo che
si alzava in aria voluminosa, ci guidò senza bisogno d’altra scorta al
luogo, ov’essi trovavansi; ed avvicinandoci ad essi vedemmo che aveansi
intonacata tutta la faccia con catrame, e coperta la testa, le spalle,
e il corpo con un vestito di lana, per difendersi dalle morsicature
delle zenzale. Uno d’essi pipava; e l’altro preparava il pesce preso
per farlo seccare al sole. La sporchezza loro, la loro magrezza, e
bruttezza, erano una prova evidente della loro povertà. Erano assediati
da capo a piedi da sciami immensi di zenzale, che li beccavano
penetrando attraverso de’ loro abiti con quegli acuti loro pungiglioni:
ond’è che non aveano cuore di spogliarsi, quantunque fossero inondati
dal sudore; e meno ancora di allontanarsi dal fuoco ad onta della
caldissima temperatura. L’arrivo nostro a quel luogo fu annunciato
dai milioni di zenzale, che accompagnavano noi medesimi, e che tosto
si unirono a quelle che tormentavano quelle buone creature. Non ci fu
verso di avere un momento di calma: ad ogn’istante eravamo costretti
a bagnarci, dirò, la testa nel più fitto del fumo, ed a saltare sulla
fiamma, affine di liberarci da sì terribili persecutori.
Volemmo visitare le famiglie di que’ pescatori, che abitavano alla
distanza di un miglio. Trovammo dappertutto fuochi accesi. Ve n’erano
ove stavano i majali, e le vacche, e ve n’erano non solo nell’interno,
ma anche di fuori, presso alla porta delle case. Queste case de’ Laponi
non sono grandi come quelle de’ Finlandesi; e la porta di quella che
noi visitammo, non era più alta di quattro piedi. Avevamo lasciate
indietro le tende sperando di trovare alloggio con codesti Laponi; ma
facemmo i nostri conti assai male. Ci fu forza accettare l’offerta di
quella famiglia; e quando venne l’ora di ritirarci fummo condotti in
una cameruccia tutta piena di fumo, dove trovammo delle pelli di renne
stese sopra foglie di betulla, delle quali era coperto il pavimento.
Noi entrammo a tentone, poichè il fumo non ci lasciava vedere alcuna
cosa. Quando stavamo per addormentarci io intesi una specie di respiro,
procedente da un angolo della camera, e forte a maniera che poteva
meritare attenzione, tanto più che noi ci eravamo immaginati d’essere
le sole creature viventi, che si trovassero ivi. Io adunque pensai
che quel respiro fosse di qualche cane, o d’altro animale venutovi
per passare la notte vicino a noi. Ma ben presto distinsi un sordo
sospiro, che mi parve più d’uomo, che di animale. Alzai pian piano
la testa provandomi di vedere che cosa fosse; e come alcune crepature
della muraglia facevano penetrare una debole luce, colle mani e colle
ginocchie mi mossi per approfittare di quella luce; e non tardai a
scoprire il luogo da cui veniva il rumore udito: erano due ragazzetti
nudi, giacenti sopra pelli di renne, i quali vedendomi ebbero paura,
credendoci animali feroci venuti per divorarli, onde gridando corsero
dalla loro madre cercando ajuto. La paura di que’ ragazzetti fece
ridere noi, e servì a distrarci dalla tristezza, in che ci aveano
gittati quelle faccie de’ Laponi impegolate di catrame, e quel
tormento, che soffrivano quanti erano ivi uomini, ed animali da quei
crudelissimi insetti. Le donne erano estremamente brutte, e sporche; e
tutto indicava miseria.
A Lapajervi noi cercammo informazioni sul viaggio, che dovevamo fare
verso Kantokeino, e nulla ci fu detto di confortante. Eppure non si
trattava che della distanza di 70 miglia: ma bisognava attraversare
parecchi laghi, risalire, e discendere varii fiumi, affrontar paludi,
rinunciare a trovare abitazioni di sorta, e a vedere stampa di umana
creatura per tutto il viaggio. Al più ci si diede ad intendere che
avremmo potuto trovare qualche pescatore lapone sul lago di Pallajervi;
e su questa speranza rimontammo il fiumicello Pallajoki, che viene da
quel lago. Ho detto già la fatica occorsa in navigarlo: gli ostacoli
furono i medesimi, ed anzi crebbero, perchè molte volte fummo obbligati
a portare noi stessi le nostre robe per alleggerire il battello. Quando
poi giungemmo al lago si alzò un sì fiero vento, che il battello corse
gran pericolo di sommergersi, prima di giungere all’isoletta Kintasari.
Posto piede in essa, trovammo tre pescatori, i quali s’avean fatta una
capannuccia con rami d’alberi, ed ivi aveano esposti al sole molti
pesci per seccarli. In mezz’ora può farsi il giro di quell’isola,
accanto alla quale ve n’ha un’altra più piccola. Da quella, in cui
eravamo, vedevasi il circuito del lago, formato da piccole alture
coperte di musco, con boschetti frammezzati di betulla e di abeti.
Dappertutto poi avevamo d’innanzi il paesaggio, che ho già descritto;
e la nostra immaginazione si esaltava a segno, che pareaci d’essere
in un’isola incantata. Mai non avevamo veduta cosa simile: il sole non
calava mai giù dell’orizzonte; non vedevamo altri colori che il bianco
e il verde; e la forma delle casucce de’ pastori, e quella, novissima
per noi, de’ fiori che smaltavano il suolo, la novità degli uccelli,
che empivano i boschi, e facevano eccheggiar l’aria de’ loro canti:
tutto ci riempiva di sorpresa, di ammirazione, di diletto. La nostra
tenda quando fu piantata, pareva la reggia dell’isola dominante; e
superava in lusso la capannuccia de’ nostri Laponi, come la residenza
di un sultano dell’Asia supera le catapecchie de’ suoi schiavi.
Ci mettemmo nel nostro battello per contemplare in distanza quel
nostro regno chimerico; e n’andammo superbi. Avevamo fatto stendere
nell’interno della tenda foglie di betulla, e musco; ed olezzava il
luogo di un grato profumo. I nostri pescatori erano incantati dello
splendore di un tale stabilimento; e per la prima volta poterono farsi
idea delle pompose abitazioni de’ popoli inciviliti!!!
Tre giorni ci fermammo ivi deliziandoci; e que’ tre giorni ci parvero
corti. Ivi non avevamo il flagello delle zenzale, poichè un vento assai
forte ne le avea cacciate lungi: quel vento avea anche rinfrescata
l’aria. Noi andammo raccogliendo piante ed insetti, e cacciando
quadrupedi, ed uccelli; ed un nuovo piacere ci recava il ritorno de’
nostri pescatori: ritorno che assai prima che li vedessimo, venivaci
annunciato da una nube di rondinelle acquatiche, le quali nudrendosi
di piccoli pesci non cessano di fare la loro corte a’ pescatori,
trovando sempre di che guadagnarvi. Per lo che questi uccelli, pieni
d’intelligenza, veggonsi regolarmente venir la mattina al luogo ove i
pescatori hanno dormito, quasi avvertendoli qualmente è tempo di porsi
all’opera; e partono coi battelli pescarecci, e servono a’ pescatori in
luogo di bussola, volando innanzi a quelle parti del lago, ove veggono
l’adunamento de’ pesci, perciocchè hanno vista acutissima. Le loro
grida poi, e il loro immergersi nell’acqua serve per non fallace segno,
che con ottimo successo in quella parte saranno gittate le reti. Quelle
rondinelle sono sì famigliari co’ loro amici, che vengono sul battello
in presenza loro; e come lo scoppio delle nostre armi avrebbe potuto
spaventarle, i nostri pescatori pregarono a non usarne; e così feci.
Mentre però così ci sollazzavamo in codesta isola incantata, non
perdevamo di mira il nostro viaggio. Mancavaci qualche Lapone
viaggiatore, che ci ajutasse ad attraversar le montagne colle sue
renne, e ci aditasse i passaggi, pe’ quali potere inoltrarci alla
nostra meta. Uno de’ nostri pescatori andò per cercare, ed accordare
chi ci prestasse l’opera, della quale abbisognavamo; e trovò, ed
appuntò tutto, e noi movemmo al luogo, ov’egli avea concertato che
troveremmo que’ Laponi. Erano sei uomini, ed una ragazza di circa
diciotto anni. Stavano sdrajati sotto una betulla, a’ rami della quale
aveano appese lo loro provvigioni, consistenti in pesce seccato al
sole, ed aveano in mezzo a loro un gran fuoco, a cui facevano arrostire
pesce fresco, infilzato in una bacchetta, che andavano voltando di
tratto in tratto, affinchè quel pesce prendesse il calor del fuoco per
ogni verso. La ragazza fu la prima a vederci giungere; e n’avvertì i
suoi; ma essi nè si mossero allora, nè alcun’attenzione mostrarono per
noi quando fummo smontati di battello. Erano costoro vestiti di una
specie di camiciotto annerito dal fumo, e fatto di pelle di renna, con
un collo alto di dietro, e ben dritto: aveano alle reni una cintura,
che stringeva quel camiciotto, a modo che gli dava l’aria di un sacco,
ove riponevano tutto quello, ch’era di loro uso: portavano inoltre
de’ pantaloni, e degli stivaletti; cose fatte anch’esse di pelle di
renna; e i piedi di quegli stivaletti erano molto larghi, e pieni di
una sorta di fieno ch’essi pestano, e rendono morbido quanto la canapa.
La ragazza avea de’ pantaloni anch’essa, e degli stivaletti come gli
uomini; ma i suoi vestiti erano di lana, e di un panno verde era il suo
berretto, che s’alzava dritto, e colla punta sulla cima della testa, a
un di presso come il berretto degli antichi popoli della Scizia.
Que’ Laponi erano quasi tutti piccoli; e i tratti della loro fisonomia
più caratteristici consistevano in avere le gote spianate, il mento
aguzzo, e molto sporgenti gli ossi delle guancie. La ragazza era
lontana dall’esser bella. Di sei uomini quattro aveano i capelli
neri: cosa che mi fece presumere che tra i Laponi prevalesse questo
colore, con che si distinguessero dai Finlandesi, non ne avendo io
tra questi trovato uno solo che avesse i capelli di questo colore.
E le persone poi, e il vestito di codesti Laponi, erano di una
sporcizia inesprimibile: tenevano nelle mani il pesce che doveano
mangiare, e l’olio che ne colava, dalle loro braccia scendeva alle
maniche del vestito, sicchè anche da lontano se ne poteva sentir
l’odore. La ragazza era passabilmente netta; ed avea qualche cosa di
quella decenza, che forma il più bell’ornamento del suo sesso: il che
potemmo vedere dal modo di ricusare la bevanda che le si offeriva, e
segnatamente l’acquavite, ch’essa pure amava quanto gli uomini. Onde
dissi meco stesso: ve’ dunque, che anche in mezzo alla Laponia le donne
hanno quell’affettazione di modestia, quell’aria di ricusare ciò che
pure desiderano vivamente di avere!
Noi sbarcammo le nostre robe, e saldammo i nostri conti co’ buoni
Finlandesi che sì fedelmente e sì bene ci aveano servito da Muonionisca
fin lì. Avemmo per essi tutti i riguardi, che il loro buon procedere
poteva aspettarsi; e vedemmo un sincero sentimento di affetto, e di
riconoscenza destar loro le lagrime; e ci presero per le mani, e ci
dissero le più toccanti cose. A modo che i Laponi, che furono testimoni
di questa scena, a malgrado del loro carattere flemmatico ne sembrarono
commossi: cosa che a noi fece piacere, perchè potevano formarsi buona
idea di noi.
La partenza da noi di que’ buoni Finlandesi fu un’epoca notabile nel
nostro viaggio. A noi in quel momento parve di rimanere distaccati dal
rimanente del mondo; e veramente la nostra situazione era critica. La
sorte nostra stava tutta nelle mani di que’ Laponi; e da essi dipendeva
non solo il compimento del nostro viaggio, ma la vita nostra medesima.
Solamente ch’essi avessero creduta impossibile la continuazione del
nostro viaggio, e ci avessero abbandonati a noi, come ritornare alla
beata nostra isoletta di Kintasari? Non avevamo più battello, con cui
attraversare il lago, sul quale essa giace. Questi tristi pensieri ci
occupavano: se non che d’altra parte poi considerammo, che que’ Laponi
non erano un popolo crudele; e quantunque fossero sette colla ragazza,
noi, sebben quattro soli, eravamo bastantemente forti per farli stare
al dovere. La ragione, per la quale erano venuti in tanti, dissero
essere per dover portare le robe nostre, attesochè in quella stagione,
in cui eravamo, le morditure delle zenzale rendevano intrattabili
le renne, e talvolta pericolose, perchè sì forte è il tormento, che
soffrono da quegl’insetti, che arrabbiano disperatamente fuggendo.
Caricaronsi dunque delle robe, spartendole tra loro colla discretezza
di darne meno a chi era meno robusto. Per animarli a ben servirci,
nell’atto che facevano gl’involti, noi demmo a ciascheduno un bicchiere
di acquavite, e ne promettemmo un secondo al momento della partenza.
Ma appena ebbero avuto questo secondo ne chiesero un terzo, giovandoci
di un proverbio lapone, che dice: _Prima di porti in viaggio bevi un
bicchiere di acquavite per la salute del corpo; e partendo bevine
un altro per trovar coraggio a terminarlo._ In fine ci mettemmo in
istrada: uno di loro andava innanzi a tutti: gli altri lo seguivano in
fila ad uno ad uno; e noi facevamo la retroguardia per vegliare sulle
cose nostre, e nissuna se ne perdesse: ma stando di dietro a coloro,
rimanevamo ammorbati dal pestifero odore, che cominciarono a tramandare
tosto che si posero in sudore: chè flagello di puzza simile non soffrii
in vita mia giammai.
Estremo era il caldo, montando il termometro all’ombra a 29 gradi, e a
45 gradi esposto al sole. Il terreno ci abbruciava i piedi, e i pochi
alberelli, che potevamo incontrare, non ci difendevano dai raggi del
sole. Eravamo poco meno che soffocati; e per giunta dovevamo portare
abiti di panno ben fitto per salvarci possibilmente dalle punture delle
zenzale; intanto che il velo, con cui tenevamo per la stessa ragione
coperta la testa, c’impediva la libera respirazione. E questo gran
caldo operava pure potentemente sui nostri Laponi, che aveano bevuto
i tre bicchieri d’acquavite. Costoro si fermavano a prender riposo ad
ogni momento, e domandavano altr’acquavite. Ben ci accorgemmo di non
aver più a fare co’ Finlandesi, sobrii al pari che robusti, operosi ed
arditi: costoro invece non pensavano che alla loro gola. In sei miglia
che facemmo si fermarono cinquanta volte, e sempre chiedendo acquavite.
Se non fossimo stati forti a ricusarla, non saremmo andati innanzi di
più in quel giorno. Per fare sei miglia ci vollero sei ore: bisognava
che li cacciassimo innanzi per forza, e ben guardare che non si
allontanassero. Quando uno di loro cadeva, tutti gli altri fermavansi;
e quello era il segnale di far alto: con che tutta la carovana si
gittava per terra: e ci volevano suppliche d’ogni maniera per farli
alzare. Finalmente arrivammo alle sponde di un picciol lago detto
Kerijervi, sulla destra del quale stendesi una catena di montagne, che
forma il confine del Finmark, ossia della Laponia norvegia e svedese.
Ivi trovammo due battelli interamente sdrusciti con remi mezzo rotti
e disuguali in lunghezza, i quali erano stati tutto il lungo inverno
sepolti nella neve, ed esposti alla inclemenza delle stagioni. Con
questi dovevamo attraversare per due miglia quel lago. Due dei nostri
Laponi si misero a remigare, e due altri a cacciar fuori continuamente
l’acqua che entrava nel battello per le fessure: certo essendo che se
non avessero posta in tale operazione la maggiore possibile attività,
noi saremmo rimasti annegati. In sì gran frangente ci toccò eziandio
di vedere i nostri remiganti andare con tanta flemma e indolenza, con
quanta sarebbesi potuto andare in una partita di piacere; e se toccammo
infine la riva sani e salvi, noi non ne fummo obbligati che al nostro
gridare, pestare, minacciare, bastonare infine sì poltrona canaglia;
e metterci all’opera noi medesimi tanto coi nostri cappelli cacciando
fuori l’acqua, quanto colle nostre braccia vogando.


CAPO XIII.
_Erba angelica. Arrivo al Pepojovaivi. Incontro di pescatori
laponi. Loro usi e sospetti sui viaggiatori. Cagioni di questi
sospetti. Quantità immensa di pesce nel Pepojovaivi, ed acque
adjacenti. Caccia su quel fiume. Altre particolarità sui Laponi
nomadi. Arrivo a Kantokeino._

Usciti di quel lago ripigliammo il cammino a piedi; ma intanto una
delle nostre guide avendo sulla riva del medesimo adocchiata una certa
pianta, corse a strapparla, e se la divorò con incredibile avidità.
Che pianta dunque era questa? Era un’angelica della miglior forza e
vivacità. Cresce essa appunto in codeste parti polari; ed è il più
eccellente antiscorbutico, che possa darsi. Mostrai a quell’uomo
piacere di gustarla; e la trovai di sì buon sapore, che ne divenni
avido quanto un lapone; e debbo dire ingenuamente che se mi sono
mantenuto sano in codeste parti, fin che mi vi sono trattenuto, lo
debbo all’angelica, di cui ho fatto uso continuo, potendo averne; ed
essa mi servì a temperare i tristi effetti dei troppo riscaldanti
e poco sani cibi, de’ quali la necessità ci obbligava a far uso,
com’erano il pesce o salato, o seccato al sole, la carne di renna di
tal modo seccata, il formaggio secco, il biscotto e l’acquavite. Prova
n’è, che il mio compagno, che non faceva uso di questa pianta benefica,
spesso provava dolori di stomaco, accompagnati da indigestioni.
Quantunque fosse mezza notte le zenzale non lasciavano di tormentarci.
L’aria era calma; e le zenzale moltiplicavansi attratte dall’odore
esalato da que’ sporchi Laponi; defatigavaci inoltre il musco assai
alto, e l’ingombro de’ cespugli. Facemmo tre miglia; e non avevamo
più forza di andar oltre. Fortunatamente trovammo la sponda del
fiume Pepojovaivi, ed alcuni pescatori sdrajati attorno ad un fuoco
con due ragazzi di circa 5, o 6 anni. Deliberammo di passar ivi la
notte accanto a loro, mentre essi facevano cuocere la loro cena. Ma
le zenzale ci perseguitarono a segno che non ci fu possibile aprir
bocca per mangiare, senza inghiottirne centinaja. L’aria era poco
agitata: il fumo saliva in lunga colonna perpendicolare; e non ci era
di verun soccorso. Dovevamo mangiando tenere i guanti, e prendere
tutte le precauzioni ad ogni boccone, per introdurlo sotto il velo
che ci copriva la testa, onde non fosse accompagnato da veruna di
quelle implacabili persecutrici. Ma quante e quante, ciò nondimeno ci
dovevamo aver sotto i denti! Per evitare possibilmente tanta noja niun
altro partito trovammo, che quello d’immergere la testa nel fumo ad
ogni boccone che volevamo prendere. Era però insopportabile anche il
calore, che così facendo dovevamo sostenere: ma almeno questo incomodo
ci parve preferibile all’orrore d’inghiottire ad ogn’istante insetti
sì disgustosi: d’altra parte non potevamo pensare ad alzare la nostra
tenda, perchè l’opera voleva tempo e fatica; e i nostri Laponi aveano
bisogno di riposo.
Finita che avemmo la trista cena, ci mettemmo ad osservare gli usi e le
azioni di que’ Laponi ivi trovati, per incominciare a prendere un’idea
de’ loro costumi e delle loro abitudini. I due ragazzi mentovati aveano
e faccia e corpo estremamente grossi, così che parevano gonfii; ma però
erano vivaci e robusti. La nostra presenza non fece loro sensazione
veruna; nè punto si sconcertarono. Essi andavano al fiume, ne recavano
acqua, e divertivansi gittandola ora su di noi, ed ora sulle nostre
robe: guastavano insolentemente tutto quello, che cadeva sotto le
loro mani; e disordinavano tutto quello che fosse alla loro portata:
nè i loro genitori s’imbarazzavano punto di ciò che facessero, come
se niente fosse. E mentre i loro figli si esercitavano in fare a noi
tutto il male, di che erano capaci, essi non badavano che a cucinare
diverse sorte di pesci, che tagliati in varii pezzi facevano bollire
in una pignatta con grasso secco di renna, e un poco di farina. Mentre
poi la pignatta era ancora sul fuoco, tutti que’ Laponi vi si assisero
intorno con un cucchiajo in mano; e quando credettero che la pietanza
fosse cotta, incominciarono a dare dentro quella pignatta uno alla
volta, adoperando quel loro cucchiajo. Chi n’avea preso abbastanza
si poneva a dormire, e svegliato poscia tornava a mangiare; e così
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