Natalìa ed altri racconti - 04

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stati il suo orgoglio.
— Presto, presto.
— Ma se non ha pazienza — diceva l'Erminia — le strappo i capelli....
E sarebbe peccato.
Lidia tentennò la testa e un sorriso amaro le sfiorò le labbra.
Quei capelli bruni che le scendevano giù in doppia lista lungo le
guancie livide e smunte le facevano l'effetto d'una triste cornice a
un'immagine ancora più triste. Vide, in un'apparizione fuggevole, la
chioma nera di Natalìa profusa sulle spalle opime e sul seno procace;
vide in mezzo a quell'onda fluente i grandi occhi pieni di lampi e le
rosee labbra piene di fascini, e sentì la vanità della lotta.
— Presto, presto.
Si appuntò da sè le ultime forcine e licenziò la cameriera. — Attendi
al bagaglio, e disponi perchè sia pronto il caffè e latte.... E che
verso le otto ci sia una gondola alla _riva_.
Lidia guardò l'orologio e stette un momento perplessa. Doveva chiamar
Valentina, o, piuttosto, mentre la bimba dormiva ancora, doveva passar
nel salotto da lavoro e finir la lettera per Vittorio Morini? Finir
la lettera? Era dunque decisa? Avrebbe dunque rimesso a Morini il
biglietto di Natalìa? Era decisa?
Non avrebbe potuto dirlo; pur s'avviava al salotto, traversando
la camera da letto. In quella Valentina si mosse, stirò le piccole
braccia, girò intorno le pupille assonnate. — Chi è?... Mamma, mamma!
— Son io, tesoro; — disse Lidia correndo a baciarla.
— Che ore sono?... È ora d'andar a scuola?
— Oh per la scuola sarebbe presto, — rispose la madre. — Sono soltanto
le sei e mezzo. Ma non si va a scuola oggi.
Valentina, ch'era una bimba studiosa, aggrottò le ciglia. — O perchè?
— Perchè, — soggiunse Lidia cercando di dare un'intonazione allegra
alla sua voce, — perchè invece di andare a scuola si va insieme a fare
una visita ai nonni, a San Vigilio.... Come? Stai lì ingrugnata? Non
sei contenta d'andare dai nonni?
— Non m'hai detto nulla iersera; — notò Valentina con aria d'importanza.
— O che si deve dir tutto a madamigella? Era una sorpresa che ti
preparavo.... Su, su, alzati.
Lidia spalancò le imposte ch'erano socchiuse, e la luce del mattino
invase la stanza.
— È una giornata splendida.... Avremo un viaggio delizioso.... E come
sarà bello il lago!
Lo sa il babbo che andiamo dai nonni? — domandò Valentina.
— Lo saprà.
— Ma quando si torna a Venezia?
— Oh che bimba cattiva!... Anzichè aver piacere d'andar dai nonni pensa
già al ritorno.
Ma la fanciulla piagnucolava. — Come farò per gli esami?
— Non ti confondere per gli esami.... Accomoderemo tutto. Su intanto....
E Lidia, impaziente, strappò via le coperte della figliuola.
— Oh mamma! — protestò questa come offesa nel suo pudore, tirando a sè
un lembo del lenzuolo per coprire il corpicino seminudo.
— Alzati, dunque; — ripigliò Lidia.
— Mi alzerò sola.... Non mi guardare.
Era l'ambizione di Valentina di lavarsi e vestirsi tutta quanta da
sè, senz'aiuti.... Per spogliarsi la sera, era un altro affare. Allora
ordinariamente cascava dal sonno.
— Non ti guardo, no, non ti tocco.
Grave, taciturna, chiusa nella camicia da notte ch'ella si teneva
stretta sul petto, trascinando i piedini scalzi nelle pantofole
troppo grandi, Valentina passò nel camerino da bagno. No, quel
viaggio improvviso non la persuadeva. Da ieri in poi accadevano cose
ch'ella non capiva, che le si volevano nascondere.... E non erano cose
liete.... Bastava veder la sua mamma.
Nuda, sotto la doccia, Valentina piangeva, e le sue lacrime si
mescevano all'acqua che le pioveva dall'alto sulla nuca e sul dorso.
E di nuovo Lidia s'avviava al suo salottino da lavoro quando l'Erminia,
ch'entrava in camera coi vestiti spolverati della padroncina, l'avvertì
che c'era fuori suo zio e che desiderava parlarle.
Lidia s'imporporò in viso. Non l'aveva ella messo alla porta? Come
osava ripresentarsele?
— Non ho tempo; — ella rispose. — Digli che non ho tempo.... che sto
per partire....
— Appunto per questo, — replicò l'Erminia. — È rimasto così male
sentendo che parte.
— Fa la mia ambasciata e risparmia i commenti; — intimò la signora.
L'Erminia ubbidì, ma non tardò a ricomparire.
— Scusi.... io non ne ho colpa.... il signor Ernesto ha insistito
tanto.... La prega, la supplica di riceverlo per un minuto.... Non so
che cosa abbia.... So che fa pietà.... Pare invecchiato di diec'anni da
ieri.
— Insomma.... — principiò Lidia. Ma si pentì a mezzo. Non poteva
far licenziar dalla cameriera, quasi fosse un intruso, lo zio di suo
marito, lo zio Ernesto, quegli che la servitù vedeva continuamente
andar e venire come uno di casa. — Dov'è? — ella chiese.
— È in sala.
— Ebbene, accompagnalo nello studio del padrone.... già fino alle nove
non c'è nessuno.... e che mi aspetti.... Tu poi torna subito di qua
e bada a Valentina.... Non le dire che c'è lo zio, non voglio che si
trovino insieme.... Ricordatene.
Ed ecco che Lidia era ancora davanti al suo tavolino, decisa a non
abboccarsi con lo zio Ernesto senz'aver prima preso una risoluzione
irrevocabile circa alla lettera di Natalìa. Annunziare il fatto
compiuto era il miglior modo di troncare un colloquio che le ripugnava.
Spiegazzata, sgualcita, la lettera di Natalìa era sotto i suoi occhi,
accanto a quella incominciata per Morini. “_Signore. La lettera che le
inchiudo non era destinata nè a Lei nè a me, ecc., ecc._„
Ora ella s'accorgeva che le righe scritte non avevano bisogno di
nessuna illustrazione, e che non vi mancava se non la sua firma. Perchè
esitava? Perchè a rilegger le sue parole, pur così semplici, così
vere, e in apparenza così calme, ella provava un amaro disgusto di
sè, sentiva una voce intima della coscienza che le ripeteva: È male, è
male?
E il tempo stringeva, e Valentina poteva da un momento all'altro
irrompere nella stanza, tempestarla di domande, chiederle s'ella
scriveva al babbo. Non le aveva già chiesto se il babbo sapeva della
loro partenza?
Valentina aveva ragione; il babbo doveva sapere. Cedendo a
un'ispirazione subitanea, Lidia stracciò in minutissimi pezzi il
foglio ove aveva tracciato le linee accusatrici, prese un cartoncino da
corrispondenza e vi scrisse con rapidità febbrile:
“Carlo. — Hai dimenticato nel tuo studio un biglietto che compromette
qualcheduno. Te lo spedisco, avvertendoti ch'era aperto e l'ho letto.
“Vado con Valentina sul Garda, dai miei genitori. Addio.„
Con la fretta angosciosa di chi non vuol lasciar adito al pentimento,
chiuse entro una busta il cartoncino insieme col biglietto di Natalìa,
vi applicò il francobollo, vi fece la soprascritta:
_Al signor Commendatore_
_Avvocato Carlo Fìdoli_
_Albergo Milano_
_Roma_.
Indi, senza frapporre indugi, cacciando in seno la lettera che avrebbe
impostata ella stessa alla stazione, corse nello studio di suo marito.
Ernesto Landi che sedeva accasciato si alzò in piedi. — Lidia.... non
vuoi ascoltarmi?
— È inutile.... Parto.
— È proprio vero?... Parti con Valentina?
— S'intende.
— Ma non per.... molto?
Ella tacque.
— Lidia, Lidia, — insistè lo zio. — Non distruggere una famiglia.
— Sono io che la distruggo?
— Lo so, i torti non son tuoi.... Ma non conviene esagerare.... Tante
cose si accomodano, tante cose più gravi di questa.
— Non son venuta qui per discutere, — interruppe Lidia. — Ormai quel
ch'è fatto è fatto.
— Hai spedita la lettera? — chiese trepidante lo zio, credendo di dover
interpretare così la frase sibillina.
— È come se l'avessi spedita; — ella replicò brevemente.
— Dunque non l'hai spedita? Dunque c'è ancora tempo?
— La getterò io con le mie mani nella cassetta postale, — dichiarò
Lidia.
Poi, stanca di questa commedia, tirò fuori la lettera e la mise sotto
gli occhi di Landi. — Eccola.
Vedendone la soprascritta egli rimase perplesso, e rivolse alla nipote
uno sguardo ansioso. Non era uno sbaglio? Il biglietto di Natalìa?
— È qui dentro; — disse Lidia, rispondendo alla muta interrogazione. E
soggiunse: — Sono stata vile.
La fisionomia d'Ernesto Landi s'illuminò di riconoscenza. — Sei un
angelo! — egli esclamò. E fece atto di chinarsi per baciarle il lembo
della veste.
Ella si ritrasse sdegnosa e respinse la lode.
— Sono vile, vile.... Siamo tutti vili, io, mio marito, tu.
Come se Ernesto Landi volesse provar luminosamente che, almeno per
quanto si riferiva a lui, la sentenza era giusta, egli biascicò
esitante: — E non mi hai mica nominato?
Lidia atteggiò le labbra a un sorriso sarcastico. — Oh no.... È una
faccenda che regolerete fra voi due.... Già _quella signora_ ha posto
per tutti.... E adesso, caro zio, non abbiamo altro da dirci.
Umile, insinuante, egli arrischiò una preghiera: — Non mi permetterai
di abbracciar Valentina?
— No, — ella rispose in tuono secco, reciso. — Anzi non voglio che tu
la incontri.
Lo fece passare per l'antistudio, gli aperse la porta che dava sul
pianerottolo e fronteggiava quella del suo quartierino particolare.
Egli uscì a testa bassa, sgomentato dalla voce dura, dal gesto
imperioso di Lidia.
— Arrivederci, — egli balbettò. — E se ho errato, perdonami.
— Addio, — diss'ella, tirando l'uscio dietro a sè.
Sentiva d'esser stata senza pietà, ma c'era in lei una reazione contro
la debolezza di prima. Dopo aver rinunciato a vendicarsi dei due veri
colpevoli, ella infieriva contro quegli il cui delitto era forse men
grave. Tale è spesso la giustizia del mondo.
. . . . . . .
La gondola che doveva portare alla stazione Lidia e la figliuola era
sul punto di staccarsi dalla _riva_.
— No che il nonno non dorme. Perchè mi avevi detto che dorme?... —
gridò a un tratto Valentina, scotendo forte il braccio della madre. —
È là il nonno, alla finestra della sua camera, e ci saluta e mi manda
dei baci.... Buondì, nonno, buondì.
E rossa, animata in viso, la bimba ricambiava con la mano i baci che
Ernesto Landi continuava a mandarle. Quindi, con un moto d'impazienza:
— Mamma, guarda in su, dunque.... Saluta anche tu.
Lidia non potè a meno di alzare gli occhi e di fare un cenno col capo.
— Buondì, nonno; — seguitava a gridar Valentina, mentre la gondola
s'allontanava, e dalla _riva_ piovevano i _buon viaggio, signora,
buon viaggio, signorina,_ della servitù. — Buondì, nonno.... Vieni a
trovarci a San Vigilio, vieni col babbo....
— Basta, ora, Valentina.... Chetati; — ammonì Lidia.
— Povero nonno!... Resta così solo.... E quant'è commosso!... Pare
che pianga.... Non può nemmeno parlare.... Ecco, adesso sventola il
fazzoletto.... Buondì, nonno!
E Valentina agitava ella pure il suo fazzolettino bianco di batista,
ove Lidia aveva ricamato un bel V.
La gondola svoltò in un altro canale, la casa disparve.
— Mamma, — chiese Valentina, — che cosa ti ha fatto il nonno che sei in
collera con lui?
Lidia non rispose, tirò a sè la figliuola e se la strinse al petto
singhiozzando.
— Mamma, mamma, — proruppe angosciosamente la fanciulla, — cos'hai?
Cos'è avvenuto da ieri in qua?
— Niente, caro tesoro.... Nuvole che passano.
La barca usciva nel Canalazzo, entrava nel sole. Lidia si rasciugò gli
occhi, li fissò nella luce, li fissò, pieni di tenerezza, in Valentina.
Ridiscendeva a poco a poco la calma nel suo cuore sbattuto dalle
tempeste, vi ritornavano la speranza e la fede. Chi sa? Forse tutto non
era perduto; forse la mano innocente di Valentina poteva riedificare
ciò che la mano impura di Natalìa aveva infranto.


DUE FUNERALI

Ero da due giorni a Milano per una mia faccenda e mi disponevo a
ripartire la sera quando mi giunse questo telegramma da Venezia:
_Preghiamovi caldamente rappresentare domani nostro Istituto funerali
commendatore Baggi. Spendete circa 100 lire in una corona._
Il dispaccio era firmato dal Presidente della Banca Adriatica, persona
amicissima mia, ed era spedito evidentemente in nome di tutto il
Consiglio d'amministrazione. Anche con la Banca ero in qualche rapporto
e sapevo che, parecchi anni addietro, in momenti difficili, l'appoggio
del commendatore Baggi le era stato prezioso. Non potevo quindi
rispondere con un rifiuto, sebbene, in quanto a me, non avessi mai
visto il defunto.
Ordinai la corona, comperai un cappello a cilindro e un paio di guanti
neri, e la mattina dopo, alle 9 precise, ero in via Brera, N. 48, dove
il commendatore occupava un elegante quartierino del primo piano.
Il carro funebre di prima classe era fermo davanti alla porta,
attraendo lo sguardo dei passanti invano allontanati da due uscieri
municipali in gran tenuta; lungo il muro andavano via via schierandosi
le varie rappresentanze con le loro bandiere; altra gente era raccolta
nell'androne e nel cortile; gli amici, i conoscenti, le persone di
maggior riguardo erano pregati di salire. Due giovinotti in lutto
strettissimo, due nipoti, l'uno grasso e l'altro magro, tutti e due
con un viso da eredi, facevano con grande compitezza gli onori di
casa. Allorchè mi presentai ad essi, ringraziarono con effusione me
e la Banca delle dimostrazioni di simpatia fatte al caro estinto e
mi pregarono di tener uno dei cordoni. Balbettai le condoglianze di
rigore, insieme con le solite domande insulse sul genere, sulla durata
della malattia, ecc., ecc.
— Ma! — rispose il nipote grasso con un sospiro. — Il povero zio
aveva avuto l'_influenza_ in gennaio e non s'era mai rimesso.... Però
usciva, attendeva agli affari. Alla fine di marzo i medici scopersero
un'_angina pectoris,_ e in tre settimane.......
— A sessant'anni appena! — notò un signore calvo che si rasciugava i
sudori.
— È una gran perdita per la _piazza!_ — soggiunse un altro.
— Un colpo d'occhio, uno spirito d'iniziativa! — disse un terzo.
I nipoti, chiamati dai loro uffici, uscirono dalla stanza nella quale
s'erano raccolti a poco a poco tutti i pezzi grossi della finanza
milanese. Sentivo intorno a me come un odor di milioni. E sentivo
anche discorrere a bassa voce dei corsi della rendita, del _riporto
fine corrente,_ dei cambi, dell'aggio dell'oro, dell'Assemblea della
Banca Generale e del Credito Mobiliare, della politica finanziaria
del Ministero, e via via. Del morto non si discorreva più. Doveva
esser vero quel che mi era stato detto; che, com'egli non aveva una
famiglia sua, così non aveva amici intimi; aveva, in gioventù, atteso
a' suoi piaceri; aveva atteso nella maturità alle sue speculazioni;
corretto, ossequente alla legge, osservantissimo dei suoi impegni, ma
in complesso un fior d'egoista.
Si udì un bisbiglio di preci nell'andito, un bagliore di faci passò
attraverso il vano dell'uscio aperto; poi tutta la gente ch'era pigiata
nel salotto si mosse e cominciò la discesa giù per la scala. Fu un gran
sollievo il trovarsi all'aria aperta.
Il nipote grasso che aveva preso a volermi bene oltre a' miei meriti,
mi accompagnò fino al carro; un impiegato delle pompe funebri mi
assegnò il mio posto alla destra del feretro, e dopo qualche minuto
speso per ordinare il corteggio ci mettemmo in cammino preceduti dalla
banda civica che suonava la marcia del _Don Sebastiano._
A tenere i cordoni eravamo in dieci. Io non conoscevo nè gli altri
quattro ch'erano dalla mia parte, nè i cinque ch'erano dalla parte
opposta; non conoscevo il morto, non conoscevo quasi nessuno di quelli
che formavano la lunga processione. Poichè era lunga davvero, più di
quello che non mi fossi immaginato, e le finestre delle case davanti
a cui passavamo erano piene di curiosi, e di là dalle due file di
servi e di fattorini che portavano le torcie accese si vedeva la folla
assiepata sui marciapiedi.
L'ufficio funebre venne celebrato nella Prepositurale di San Marco;
dopo di che il convoglio, molto assottigliato, si avviò al cimitero.
Ed ecco che passando per il Corso Garibaldi, vediamo dinanzi alla
chiesa di San Simpliciano un altro corteggio che stava per muoversi
anch'esso, ma che ci lasciò il passo con la deferenza che i funerali di
terza classe devono a quelli di prima. Un carro dimesso tirato da un
cavallo unico ed umile, e guidato da un cocchiere non umile per sè ma
vergognoso di condurre al Camposanto un così povero morto. Sul feretro
una sola, piccola ghirlanda di fiori freschi, misero riscontro al lusso
di corone che coprivano il feretro illustre.
Un fattorino della Banca Nazionale che mi camminava a fianco si voltò
verso un compagno e disse: — _L'è_ il povero Bertizzoni.
L'altro accennò affermativamente col capo.
Rimasi colpito da quel nome di Bertizzoni e non potei a meno di
chiedere: — Bertizzoni? Era uno qui di Milano?
— Stava qui da _anni annorum_.... Ma non era mica nato a Milano.... Tò,
adesso che ci penso mi pare che fosse nato a Venezia.... Il signore lo
conosceva?
Anzichè rispondere feci una nuova domanda. — Era vecchio?
— Sulla cinquantina.
— E il nome di battesimo?...
— Oh un nome stravagante, Licurgo.
— Licurgo?
— Già.
— Era impiegato?
— Adesso era nella casa Gondrand.
— La casa di spedizioni?
— Appunto.
— E lascia famiglia?
— La vedova e un figliuolo, un bravo ragazzo ch'è alla Cooperativa.
Per quanto la conversazione fosse fatta piano, essa non poteva passare
inosservata ai vicini. E un signore grande e grosso che doveva essere
un personaggio d'importanza e che teneva uno dei cordoni davanti a
me slanciò ripetutamente un'occhiata al fattorino come per ammonirlo
a tacere. Compresi anch'io la sconvenienza di quel dialogo in quel
momento, in quel luogo, e non aggiunsi altre interrogazioni.
Del resto, non avevo più dubbio alcuno. Una coincidenza di nome e
cognome, e d'un nome così fuor del comune, era impossibile. Licurgo
Bertizzoni era certo il mio antico condiscepolo, figliuolo di quel
maestro elementare, Agenore Bertizzoni, che aveva la passione dei
nomi greci. Un fratello di Licurgo si chiamava Socrate, una sorella
Cassandra, un'altra Aspasia. Era una famiglia che contrastava il
desinare con la cena, e doveva ricorrere a mille espedienti per
tirare innanzi; il maestro Agenore la sera copiava musica, e la sua
consorte, la signora Palmira, si occupava di combinar matrimonî. Buona
gente però, e gente allegra, ospitale. Con Licurgo eravamo coetanei,
avevamo percorso insieme le _scuole reali_ e la nostra amicizia era
durata alcuni anni dopo la scuola. Tra il 1855 e il 1858 o io andavo a
prenderlo la sera o egli veniva a prender me per uscire insieme; anzi
più spesso andavo io da lui per merito delle sorelle vispe, floride,
belloccie. Non giurerei di non avere abbozzato con la Cassandra un
romanzo che finì con poca mia gloria, perch'ella sposò, non rammento
se nel 56 o nel 57, un uomo maturo, impiegato alla Contabilità, e che
fu tosto traslocato a Pavia. Chi sa dove sarà andata a finire? Sullo
scorcio del 1858 le disgrazie caddero come gragnuola secca su quella
casa di galantuomini, e successe una gran dispersione. Prima morì la
signora Palmira, poi il maestro Agenore; l'Aspasia, in seguito a un
disinganno amoroso, volle a tutti i costi entrare in un monastero;
Socrate s'imbarcò su un bastimento mercantile comandato da un capitano
dalmato ch'era suo lontano parente; Licurgo, rimasto solo, campava la
vita facendo lo scribacchino presso uno spedizioniere e ingrossando il
magro stipendio con qualche debituccio. Gli piacevano le donne e aveva,
relativamente alle sue forze, le mani bucate. Nel 1859 egli fece quello
ch'io non potei fare; emigrò in Piemonte e si arruolò volontario.
Ci scambiammo una mezza dozzina di lettere prima che cominciasse
la guerra. A campagna finita egli mi riscrisse da Torino ove aveva
un'occupazione provvisoria in attesa degli avvenimenti che non potevano
tardare e che lo avrebbero ricondotto a Venezia. Nel 1860 riprese le
armi. In dicembre mi mandò sue notizie da Napoli. Aveva lasciato il
servizio e si proponeva di stabilirsi in quella città fino a un'altra
guerra che cacciasse definitivamente gli Austriaci di là dall'Alpi.
A Venezia non sarebbe tornato che con le nostre truppe. Non ci aveva
più nessuno di famiglia; l'Aspasia, dopo la sua vestizione, era come
morta per lui; io ero un carissimo amico, mi avrebbe rivisto con tanto
piacere; ma ero un giovinotto; potevo ben andare a cercarlo. Il bello
si è ch'egli non mi dava nemmeno il suo indirizzo. Così la mia risposta
non dev'essergli pervenuta. Ed egli non scrisse più e passarono gli
anni senza che mi fosse dato saper nulla sul conto suo. Nella vita
entrano ogni giorno nuove relazioni, nuovi interessi, nuovi affetti;
altri legami si allentano, altre immagini si scolorano e a grado a
grado svaniscono. Non dirò che questo accadesse in me dell'immagine
di Licurgo Bertizzoni, ma è certo ch'io pensavo a lui sempre meno. Ci
ripensai nel 1866, quando le sorti d'Italia s'agitarono nuovamente
nel formidabile quadrilatero e nelle valli del Trentino. Bertizzoni
era uomo capace d'essersi rimesso in ispalla il suo bravo fucile e
d'aver intrapreso, magari da soldato semplice, questa terza campagna.
Io avevo un bel dire che sacrosanti doveri domestici m'impedivano
di fare altrettanto; lo ammiravo e lo invidiavo. Lo so; egli era un
ingegno appena mediocre; non aveva mai avuto passione per lo studio;
era un po' leggero di carattere; ma che importa? Nell'ora del bisogno
egli era sempre pronto a dare il suo sangue alla patria; mentre altri
avevano in serbo delle ottime scuse per non rischiare la pelle. Nel
periodo angoscioso corso fra il 24 giugno e l'armistizio, leggendo
avidamente i giornali che ci arrivavano di nascosto d'oltre Po e
d'oltre Mincio, io speravo e temevo ad un tempo d'incontrarvi il nome
di Licurgo Bertizzoni. Speravo di vederlo citato per qualche atto di
valore; temevo di trovarlo nella lista dei volontari morti a Custoza,
a Bezzecca, a Monte Suello. Nulla. Egli non cercava nè la gloria nè la
notorietà, e il silenzio compiacente si stendeva sopra di lui. Allorchè
la liberazione del Veneto dal giogo straniero fu cosa sicura, io
dissi: — Scommetto che adesso vedremo quel caposcarico di Bertizzoni,
scommetto che uno di questi giorni mi capita una sua lettera. — Ma non
capitò niente, e quando nell'ottobre e nel novembre 1866 mezza Italia
si riversò sulle nostre lagune, Licurgo Bertizzoni non venne. Ne chiesi
conto a molti Veneti, militari e non militari, rimpatrianti dopo lunghi
anni d'esilio. Parecchi lo avevano conosciuto, nessuno era in grado di
darmene notizie recenti. Non doveva aver partecipato all'ultima guerra.
Nel gennaio dell'anno seguente fui costretto ad assentarmi per tre
settimane. Reduce a Venezia, trovai sulla mia scrivania, insieme con
altre carte, il biglietto da visita di Licurgo Bertizzoni con queste
parole in lapis: _Lascio i miei affettuosi saluti, dolente di non aver
potuto abbracciare il vecchio amico. Riparto fra due giorni. Non ho
domicilio stabile. Viaggio per conto di case inglesi. Forse tornerò
presto, oppure scriverò._
I due giorni erano passati da un pezzo. Inutile cercare di Bertizzoni
a Venezia. Nè egli aveva lasciato indicazioni sufficienti perchè si
potesse cercarlo altrove. Diceva che forse sarebbe tornato presto o che
avrebbe scritto. Tant'era aspettare.
Ma non tornò, non mandò una riga. Dov'era? Che faceva? Ancora una
volta, nel 1870, se la memoria non mi tradisce, qualcheduno mi portò i
suoi saluti da Messina dov'era di passaggio per affari, piuttosto male
in arnese. Gli è che quei benedetti affari non andavano bene; non era
contento del proprio stato.... Aveva in vista un impiego governativo.
E poi, dal 1870 fino adesso, vale a dire per ventidue anni, Licurgo
Bertizzoni non s'era fatto vivo in nessuna maniera, e l'amico della
mia adolescenza era disceso a poco a poco nella penombra discreta
ove si aggirano tacitamente le memorie lontane. Ed ecco che oggi,
d'improvviso, il suo nome risonava alle mie orecchie con un accento di
commiserazione, ed egli, il camerata di scuola, il compagno delle prime
scappatelle, egli stesso, ahi nascosto per sempre agli occhi degli
uomini, forniva l'ultimo pellegrinaggio seguendomi alla distanza di
forse duecento metri, mentr'io, in ossequio a una delle solite commedie
sociali, rendevo gli estremi onori ad un morto che non avevo neppur
conosciuto di vista.
Oh immensa malinconia delle cose! — Era qui da _anni annorum, — _aveva
detto il fattorino della Banca. E io in questo frattempo avevo fatto
certo una diecina di gite a Milano senza che mai mi passasse per
la mente d'informarmi se Bertizzoni ci fosse.... senza ch'egli mai
sapesse ch'io ero venuto, o, sapendolo, si curasse di vedermi. Forse ci
eravamo incontrati per la strada, ci eravamo urtati col gomito senza
ravvisarci.... Ma c'è di peggio.... Con la sicurezza ch'egli fosse
a Milano credo che l'avrei cercato; ma se il giorno prima m'avessero
avvertito ch'egli abitava a Monza, temo che non mi sarei spinto fin
lì.... Mi sarebbero sorti mille dubbi. — Forse non è in paese e faccio
il viaggio per nulla.... Forse lo secco.... Forse non si ricorda
più.... sarà tanto cambiato....
Ora invece mi sembrava di vivere in quei tempi remoti. Rivedevo la
povera casa a San Simeone Profeta, con le sue imposte sgangherate, col
suo tralcio di vite che s'arrampicava lungo il muro, tra due finestre;
rivedevo il maestro Agenore, tranquillo e sereno in mezzo ai suoi
debiti; rivedevo la signora Palmira, piccola, asciutta, loquace, sempre
in faccende; e la Cassandra co' suoi occhioni neri, col suo busto da
trasteverina; e l'Aspasia bianca, rosea, con un'aria civettuola che non
lasciava certo presagire in lei la vocazione pel chiostro; rivedevo
Socrate, il più maleducato della famiglia, ma non privo di spirito
naturale. Ma sopratutto rivedevo lui, Licurgo, bello, grande, forte,
spensierato, un po' vanitoso pe' suoi facili trionfi col bel sesso....
E mi pareva di averlo dinanzi nel giorno della sua partenza clandestina
pel confine svizzero, insieme ad altri giovani ch'emigravano con lui.
Egli, nella baldanza de' suoi vent'anni, pronosticava il suo ritorno
trionfale entro sei mesi....
Da quel giorno del gennaio 1859 era trascorso un terzo di secolo, e
io non l'avevo più visto. Chi sa dopo quante peripezie, dopo quanti
dolori e quante miserie egli arrivava oggi nel porto ove tutti dobbiamo
arrivare!...
Pieno di queste immagini e di questi pensieri io avevo continuato
a camminare macchinalmente accanto al carro funebre del commendator
Baggi, e, senz'accorgermi, ero giunto al Cimitero Monumentale. Il carro
si arrestò, si fece un gran silenzio. Un signore in occhiali, che seppi
essere un assessore del Municipio, tirò fuori dalla tasca del soprabito
un foglio di carta e lesse con voce monotona un breve discorso; un
secondo borbottò alcune parole in nome della Camera di Commercio; un
terzo portò alla bara il saluto del Consiglio d'amministrazione della
Rete Adriatica; un quarto pianse per conto della Banca Generale. Io
coglievo appena qualche frase staccata; la mia mente era altrove, il
mio sguardo seguiva lontano l'umile convoglio del povero Bertizzoni
che si dirigeva lentamente dalla parte opposta del Camposanto. Sentii
corrermi due lacrime giù per le gote. Di tutti quelli che avevano
accompagnato all'ultima dimora il commendator Baggi ero il solo che
piangesse, ciò che costrinse i due nipoti ed eredi a portarsi, per
pudore, il fazzoletto agli occhi.
E i due nipoti ed eredi mi strinsero vigorosamente la mano. — Grazie,
grazie, signor.... E grazie a tutti i preposti della Banca....
La gente si disperse; si trattenevano ancora i soli parenti sino
alla collocazione del feretro nella tomba di famiglia. Qualcheduno mi
offerse ricondurmi in città in carrozza; io preferii d'andare a piedi,
preferii d'esser solo.
M'avviai lungo il viale fiancheggiato da platani. Un _fiacre_ che
veniva anch'esso dal cimitero mi passò rasente. Ebbi una visione.
Al finestrino di quel _fiacre_ s'affacciò un giovinetto vestito a
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