Natalìa ed altri racconti - 12

Cernieri lo riconduceva a vent'anni indietro, faceva uscir dalle
nebbie dell'oblio l'immagine d'una giovinetta un po' magra, un po'
gracile, ma con una rara espressione di dolcezza nella bella fisonomia
intelligente. Per lei, per lei sola il suo cuore aveva battuto
una volta; per lei sola egli aveva un giorno, un'ora pensato alla
possibilità di prender moglie.... E poi?...
Il servo Pomponio, che aveva il vizio di esser curioso, s'era
avvicinato in punta di piedi al professore, e borbottava: — Come mai si
sia cacciata in quel libro?...
Cernieri si scosse, e bruscamente: — Che cosa fate qui?... Andatevene.
— Non devo continuare?
— No, per ora, no.... Andate.
— Le occorre nulla?
— Nulla.... In caso vi chiamerò.
Pomponio si ritirò a malincuore. Avrebbe pur voluto sapere che razza di
lettera fosse quella che turbava così il suo padrone.
Rimasto solo, il professore sedette sulla sua poltrona e aperse con
dita tremanti la busta che Maria Lisa Altavilla non avrebbe aperta mai
più. Ecco ciò ch'egli aveva scritto da Padova il 15 ottobre 1875:
“_Cara signorina,_
“Ho ricevuto stamane il tristissimo annunzio e non voglio tardare ad
assicurarla della parte che prendo al suo giusto dolore.
Già nel luglio scorso, quand'ebbi l'onore di trovarmi spesso a Venezia
con suo padre e con Lei, io ero testimonio delle sue trepidazioni
per quella preziosa e insidiata esistenza. Si ricorda di quella
passeggiata, per me indimenticabile, lungo il mare? Avevamo visitato
prima San Lazzaro ove il suo babbo s'era compiaciuto di porger così
benevolo ascolto alle mie spiegazioni circa alla mummia conservata
nel museo di quei Padri Mechitaristi; quindi, fattici tragittare a
Sant'Elisabetta del Lido, ci eravamo recati al nuovo Stabilimento di
bagni. Il professore, un po' stanco, si fermò nella sala in compagnia
dell'ingegnere Livorni. Noi scendemmo sulla spiaggia. La giornata
era mite; il sole, nascosto spesso fra i nuvoli, non dava noia, ed
Ella tenne chiuso quasi sempre il suo ombrellino di seta rossa. Le
piccole onde venivano a morire ai nostri piedi che lasciavano l'orma
sulla sabbia umida. Ella, intanto, mi diceva come, da un anno e più,
la salute del suo papà fosse profondamente scossa, come i vari medici
consultati avessero suggerito a caso ora questa cura ora quella
senza che nessuna potesse arrestare il deperimento che la spaventava.
Mi diceva altresì con che tenera sollecitudine quel suo diletto si
sforzasse a nasconderle ciò che soffriva, egli che non le aveva mai
nascosto nulla. Di confidenza in confidenza, Ella passò a discorrermi
della loro vita intima e casalinga, dell'accordo pieno dei loro
sentimenti e dei loro pensieri, del loro affetto reciproco suggellato
dalla sventura, perchè di una numerosa famiglia, erano rimasti loro
due soli nel mondo. Vinta dalla commozione, Ella tacque: i suoi occhi
erano pieni di lacrime. Quali parole mi salirono allora sul labbro?
Non certo tutte quelle che avevo nel cuore. Sono assai timido per mia
natura; ho, lo confesso, un grande sgomento di ciò che può distrarmi
da' miei studi, togliermi alle mie abitudini. Ma so di averle pur
fatto intendere quanta simpatia mi attirasse a Lei, signorina; so di
averle detto ch'Ella poteva fare assegnamento sopra di me in qualunque
occasione. Grazie, Ella sussurrò dolcemente. E la sua mano tremò nella
mia. Poi Ella mi pregò che ritornassimo sui nostri passi. Non parlammo
nel ritorno; ma mi pareva che le nostre anime fossero tanto vicine! Di
lì a un pajo di giorni Ella lasciò Venezia senza che ci si presentasse
più l'opportunità di trovarci a tu per tu.
Adesso, signorina, la maggiore delle disgrazie l'ha colpita; adesso è
giunto per lei il momento di mettere alla prova i suoi amici. Sarei
voluto venire io stesso a Firenze, ma devo partir fra poche ore per
Londra affine di assistere al Congresso degli Orientalisti che s'apre
in quella metropoli il 19 corrente. Dall'Inghilterra potrei forse
intraprendere un lungo lungo viaggio fuori d'Europa; ma dipenderà
da Lei ch'io lo intraprenda o no. Una sua parola avrebbe la virtù di
ricondurmi in Italia. A ogni modo io sarò a Londra per tutto l'ottobre,
e la prego di farmi aver colà una sua riga _ferma in posta._ Pensi che
sono anch'io, e da molto più tempo di Lei, solo affatto nel mondo.
Mi creda sempre
Suo aff.mo
“ATTILIO CERNIERI.„

III.
Due volte il professore rilesse le quattro pagine di questa lettera,
sforzandosi di richiamare alla sua memoria il giorno, l'ora, il luogo
in cui l'aveva scritta, cercando di spiegare a sè medesimo, come
potesse averne dimenticato l'impostazione, come il silenzio di Maria
Lisa Altavilla non avesse fatto nascer nel suo animo nessun sospetto,
come non avesse avuto l'idea di riscrivere, d'informarsi.
Ecco, egli ricordava. L'avviso mortuario gli era arrivato la mattina
mentr'egli stava facendo il bagaglio, e il suo pensiero era corso
subito alla povera giovinetta che aveva conosciuto tre mesi addietro
a Venezia e che gli aveva destato una così viva simpatia. Indi per
tutto il giorno aveva agitato il quesito se dovesse mandarle soltanto
le sue condoglianze o se dovesse dirle qualche cosa di più, qualche
cosa di meglio rispondente ai sentimenti ch'Ella gli aveva inspirati
e a cui forse ella partecipava.... Non era una ragazza delle solite,
la Maria Lisa. Pareva nata per essere la compagna d'un uomo di studi.
Non aveva fatto da segretario al padre, non poteva far da segretario
a lui? Imparar due o tre lingue per aiutarlo, prender note per suo
conto, metter in pulito i suoi lavori, correggergli le bozze di stampa,
e quand'egli partiva per un Congresso, per una missione scientifica
preparargli i bauli, accompagnarlo alla stazione, anche accompagnarlo
in viaggio qualche volta, sollevandolo dalla briga di prendere i
biglietti, di trattare cogli albergatori, di discutere coi fiaccherai,
eccetera, eccetera? Visto sotto questa luce, il matrimonio non gli
era apparso più un abisso senza fondo, ma un porto tranquillo ove
riposarsi dopo le tempeste. E, la sera, unitamente a parecchie altre
lettere, aveva scritta anche quella per la Maria Lisa. Aveva scritto
con un'espansione, con un abbandono di cui s'era meravigliato allora,
come si meravigliava adesso, ma, questo pure si ricordava, provando,
nello scrivere, una dolcezza inusata.
Era nella cameretta del suo quartierino di Padova; sulla tavola
ardeva un lume a petrolio; dinanzi a lui era spalancato l'Atlante
del Menke, alla pagina che portava l'intestazione _Aegyptus ante
Cambysii tempus._ Quella carta egli l'aveva consultata nel rispondere
al suo amico Morrison dell'Università di Edimburgo che insisteva per
visitare insieme le rovine di Tebe nell'Alto Egitto. Ed egli, lasciando
sospesa la sua decisione fin dopo il Congresso, aveva, nell'ipotesi
del viaggio, corretto e ampliato l'itinerario, comprendendovi Itithia,
Apollinopolis e Syene.
E, ancora, il professor Cernieri si ricordava. La sua padrona di casa
era venuta a picchiare all'uscio e a dirgli che la carrozza era pronta
e ch'ella vi aveva fatto mettere le valigie, il _plaid_ e l'ombrello.
In fretta egli aveva chiuso e riposto nello scaffale l'Atlante, in
fretta s'era cacciato in tasca le lettere a cui aveva applicato già il
francobollo, in fretta aveva disceso la scala ed era salito in vettura.
Ma per quale strana combinazione una delle lettere fosse andata a
finire dentro l'Atlante; per quale negligenza, nel gettare in buca
le altre, in numero di cinque o sei, egli non si fosse accorto che ne
mancava una, quella che doveva essere la più importante per lui, ecco
l'enigma che il dotto professore non avrebbe risolto mai.
Egli poteva giurare che nemmeno per un secondo gli era balenata l'idea
di non aver impostata la lettera. Anzi, per parecchi giorni, adesso
se ne rammentava, era rimasto come sbalordito della propria temerità.
Perchè non ci aveva pensato su? Perchè, con una di quelle parole che
non si riprendono, s'era messo al rischio di sacrificare il massimo
dei beni, l'indipendenza? Perchè aveva giocato il suo avvenire sopra
una carta? Era un galantuomo; data una risposta favorevole della Maria
Lisa Altavilla, non gli era lecito tirarsi indietro.... Se poi ella
rispondeva di no, egli s'era procurato uno scacco inutile. Dio buono,
che furia aveva avuta? C'era da scommettere che, anche di lì a uno, a
due, a tre anni, la ragazza, non bellissima e senza un soldo di dote,
sarebbe stata libera; e intanto a lui si sarebbe certo presentata
l'opportunità di vederla, di conoscerla meglio, di pesar meglio il
pro e il contro.... Così a Londra, nella prima settimana, mentre gli
crescevano le tentazioni del viaggio in Oriente col Morrison e con
un giovine docente di Heidelberg che si era loro offerto a compagno,
egli era stato inquieto, nervoso, trepidante a ogni distribuzione di
posta e non sapendo più che cosa desiderare o temere. Quindi di mano in
mano che il tempo passava e ch'egli, relatore intorno a due temi, era
assorbito dai lavori del Congresso e attratto nell'orbita degl'illustri
eruditi salutanti in lui un futuro luminare della scienza, l'immagine
della povera orfana andava gradatamente scolorandosi, e una timida,
segreta speranza gli si faceva strada nel cuore: quella di ricuperar
la propria libertà pel silenzio continuato di Maria Lisa, senza patir
l'umiliazione di un aperto rifiuto. Egli avrebbe potuto dir sempre che
il suo dovere l'aveva fatto; non era colpa sua se le sue offerte non
erano state accolte.
E un giorno, uno dei primissimi giorni di novembre, egli pure, come
Giulio Cesare, aveva esclamato: _Alea jacta est._ Aveva traversato
di volo l'Europa centrale e l'Italia fino a Brindisi, e insieme al
Morrison e al dottore di Heidelberg s'era imbarcato su un vapore della
Peninsulare per Alessandria. Due anni era vissuto fuori d'Europa, ora
nell'Alto Egitto, ora nell'Abissinia, studiando i geroglifici e le
rovine, inviando preziose monografie alle principali Riviste del mondo.
E Riviste, e giornali, e lettere di scienziati, e voti di accademie
gli giungevano dall'Italia, dall'Inghilterra, dalla Francia, dalla
Germania; gli giungeva anche da Padova qualche epistola spropositata
della sua padrona di casa. Da Firenze, dalla Maria Lisa Altavilla,
nulla.
Del resto, al suo ritorno in patria, egli l'aveva quasi interamente
dimenticata. Non eran trascorsi che due anni, ma quei due anni per lui
valevano due secoli, e i fatti anteriori si perdevano a' suoi occhi
in una lontananza vaga e nebulosa. Onde quando gli dissero che, tre
mesi addietro, la Maria Lisa aveva sposato un pretore residente in un
paesello della Sicilia, egli non se ne commosse più che tanto. Aveva
ben altro pel capo. Aveva da vagliare le diverse offerte pervenutegli
dal Ministero; aveva da scrivere per la _Edimburgh Review_ un articolo
sulle antichità assire; aveva infine da maturare il tema gravissimo di
quelle radici finniche o celtiche per amor delle quali egli era ormai
risoluto a dedicarsi interamente alla glottologia lasciando da parte
ogni altra ricerca. La Maria Lisa Altavilla era così piccola, così
piccola al paragone, e il matrimonio sarebbe stato tale un impiccio!
Solo qualche tempo dopo, sul punto d'accettar la cattedra di Firenze,
gli era capitato uno scrupolo. Se, per un trasloco del marito, quella
donna fosse di nuovo in Toscana? Se s'incontrassero? Che contegno
dovrebb'egli tenere con lei? Far l'indifferente, o fingere di non
riconoscerla, o rinfacciarle il modo inurbano in cui ella lo aveva
trattato?
Ahimè, il professore fu tolto assai presto da queste angustie. La Maria
Lisa Altavilla? La figliola del cavaliere Giuseppe? Quella che aveva
sposato il pretore Carlucci? Poveretta! Era morta laggiù in Sicilia,
d'una febbre di malaria, in capo a dieci mesi di matrimonio.
Morta! Certo, nell'udir la notizia, Attilio Cernieri aveva provato un
senso di pietà e di rammarico. Morta così giovine, quella che avrebbe
potuto esser sua moglie! Dunque oggi egli sarebbe vedovo, avrebbe la
casa in lutto, sarebbe come un naufrago della vita? Ah, quand'era così,
meglio, mille volte meglio che la Maria Lisa non gli avesse risposto.
Meglio per lui non aver preso delle abitudini che gli sarebbe stato
forza troncare, meglio non essersi avvezzato ad aver una femmina al
fianco.... Quelli che ci si avvezzano dicono ch'è tanto difficile farne
senza!...
Insomma Cernieri non aveva tardato a confortarsi.... E poi.... e poi
il tempo aveva compiuto l'opera sua, stendendo un velo densissimo su
quel fuggevole episodio, coprendo d'oblio persino il nome di Maria
Lisa Altavilla. Adesso la vecchia lettera trovata fra le pagine del
vecchio Atlante rievocava le cose scomparse. Innanzi all'uomo maturo,
invecchiato negli studi, indurito nell'egoismo, sorgeva per incanto
un ricordo della giovinezza, lo investiva violento come fiamma che
divampa, come raffica che si leva improvvisa. Stringendo nelle mani
il povero foglio ingiallito, egli rivedeva la dolce figura di Maria
Lisa; la vedeva pallida e mesta; pareva ch'ella gli dicesse: — Perchè
nell'ora dell'afflizione non m'hai mandato una parola, un saluto?
Gl'indifferenti compiansero al mio dolore; tu, che m'avevi lasciato
creder d'amarmi, tu sei rimasto muto, insensibile. E t'ho atteso, sai,
t'ho invocato.... Ahi misera chi si fida in un uomo!
Questo pareva a Cernieri che la Maria Lisa dicesse, ed egli pensava
ch'ella aveva portato con sè nella tomba l'acerbo giudizio, che non
avrebbe udite le sue discolpe, nè conosciuta la verità.... È pur triste
dover fermar la mente sull'idea dell'irrevocabile, dover crucciarsi
di torti che non si possono riparare, di malintesi che non si possono
togliere.
Ma la lettera che il grave professore seguitava a tener spiegata
davanti a sè non lo avvertiva soltanto che Maria Lisa era morta
reputandolo peggiore di quello ch'egli non fosse; essa gli ricordava,
quasi per irriderlo, che nella sua vita c'era stato un minuto di
poesia, d'abbandono, d'amore, e che quel minuto era rimasto infecondo.
Mai più, mai più egli avrebbe trovato un minuto simile; mai più il suo
cuore avrebbe palpitato per una donna; mai più dalla sua penna sarebbe
sgorgata una prosa, che a noi può sembrar fredda e convenzionale, ma
che a lui sembrava riboccante di calore e d'affetto.
Ed egli chiedeva a sè stesso: — Se la lettera fosse partita? Se fosse
arrivata alla sua destinazione? Se Maria Lisa avesse risposto: —
Intendo ciò che tu accenni, ti ringrazio, ti amo, consento a esser tua.
Vieni. —? Certo egli non avrebbe, almeno allora, intrapreso il suo gran
viaggio fuori d'Europa; non avrebbe percorso l'Egitto e l'Assiria, nè
decifrato i geroglifici, nè interpretato il linguaggio delle rovine;
forse gli sarebbero sopraggiunti i figliuoli; forse le cure domestiche
avrebbero inceppata la sua attività; la sua fama sarebbe stata
ritardata, non sarebbero piovuti così abbondanti sul suo capo gli onori
e sul suo petto le decorazioni; forse egli non avrebbe fatta la sua
luminosa scoperta intorno alle radici finniche; forse altri occuperebbe
oggi il suo posto sul vertice della piramide scientifica, accanto al
celebre Löwenstein dell'Università di Upsala.
Sì, tutto ciò sarebbe potuto accadere, e un uomo come il professore
Attilio Cernieri doveva rallegrarsi che ciò non fosse accaduto.... E
pure.... e pure un dubbio insistente, affannoso gl'impediva di quietar
l'animo in questa consolante filosofia. Non sarebbe stato meglio
sacrificar un poco di gloria per aver un poco d'amore?
Il professor Cernieri non ebbe il coraggio di lacerare, di distrugger
la lettera; la ripose nella scrivania, richiamò il servo Pomponio e
gli ordinò di ripigliare il lavoro interrotto. Ma la sera, nel suo
studio, lo vinse di nuovo la tentazione di riveder que' suoi caratteri
di vent'anni addietro, e ormai non passa giorno, si può dire, ch'egli
non tiri fuori dalla busta il piccolo foglio sgualcito e non lo scorra
con l'occhio. Indi ne guarda la sopraccarta, ne guarda il francobollo
su cui la posta non impresse alcun segno, e ripete fra sè la domanda:
— Se la lettera fosse partita?


LE CONFIDENZE DEL DIRETTORE

— Ebbene — disse la signora Rosa, una donnetta svelta ed arzilla
nonostante i suoi cinquantacinqu'anni; — se gli altri non si muovono,
verrà la Tilde a fare una passeggiata con me.
La Tilde, ch'era una zitellona piatta davanti e di dietro, spalancò una
bocca immensa con troppe gengive e troppo pochi denti, e avvicinandosi
con passo saltellante a' suoi rispettabili genitori, rispose:
— Volentieri, se il babbo e la mamma non hanno nulla in contrario.
— Va pure, tesoro — disse il signor Nestore Ariani, impiegato al
registro e bollo.
— Va pure, viscere — soggiunse la signora Veronica. — Noi restiamo a
far quattro chiacchiere col signor direttore.
— Quello lì, dopo il pranzo, è come inchiodato sulla seggiola — notò la
signora Rosa.
— _Post prandium stabis_ — sentenziò il cavalier Flaminio Flaminî,
direttore del Collegio-convitto omonimo in una città dell'Alta Italia.
— E noi gli teniamo compagnia — riprese il signor Nestore con la sua
vocina da musico. — Col signor direttore c'è sempre da imparare.
Il cavalier Flaminî chinò dignitosamente il capo. — Bontà loro.
Scambiati i saluti, la signora Rosa e la Tilde si allontanarono. Il
direttore e i due Ariani, marito e moglie, rimasero sotto la pergola,
seduti intorno a una tavola rustica.
— Ma! — sospirò la signora Veronica seguendo con lo sguardo la
figliuola, fin che la ebbe persa di vista.
Erano in un albergo di campagna, _Al grappolo d'uva_. Ivi il cavalier
Flaminî (era quello il terz'anno) veniva l'autunno con la sua metà a
riposarsi delle fatiche scolastiche, occupava le stanze migliori, e
assumeva verso gli altri forestieri un'aria di benevolo patrocinio.
Quell'autunno egli raccoglieva sotto le sue grandi ali gli Ariani,
che, raggranellati due soldi, s'eran voluti dare il lusso d'un po' di
villeggiatura e alloggiavano insieme con la Tilde in uno stanzone a
tetto, diviso in due da una parete mobile e impregnato d'un acuto odore
di mele cotogne.
Poich'ebbe slanciato il suo _ma_ sibillino, la signora Veronica si
voltò risolutamente verso il direttore, e, ripigliando un discorso
interrotto, esclamò con un accento in cui c'erano lo stupore,
l'ammirazione, l'invidia: — Tutt'e sei le ha maritate?
— Sissignora, tutt'e sei — replicò di trionfo il cavalier Flaminî.
— Senza dote?
— Senza un centesimo.
— Ma come ha fatto, santo Iddio, come ha fatto? — gridarono in coro i
due conjugi.
Il signor direttore si levò gli occhiali e li posò sulla tavola.
Ora questo levarsi gli occhiali era pel signor direttore un gran
segno. Armato di quelle lenti, egli aveva anche più sussiego che non
convenisse al suo grado; parlava breve, solenne, per aforismi; privo
di lenti, egli discuteva bonario e loquace, perfin troppo loquace,
a quanto diceva la signora Rosa, la quale, delle due edizioni in cui
suo marito si presentava al pubblico, quella di lusso e la popolare,
preferiva la prima.
Adesso la signora Rosa non c'era, e il cavaliere poteva sbizzarrirsi
a sua posta. Non solo egli si levò gli occhiali, ma ordinò che gli
portassero un litro di quel buono e tre bicchieri. Poi, stropicciandosi
le mani: — Come ho fatto?... Ecco qua..... Quando alla nascita della
mia terza figliuola dovetti convincermi che mia moglie aveva la
viziatura organica di non partorire che femmine, io sentii la necessità
di prendere una risoluzione eroica. Ma quale? — _Abstinentia_ — mi
risponderanno loro. Eh sicuro, ma son cose più presto dette che fatte.
Niente _abstinentia_ dunque.... Invece....
Dopo aver versato del vino a sè e a' suoi compagni, il signor
direttore si portò l'indice della mano destra alla fronte per rilevare
l'importanza dell'idea peregrina germinata dal suo cervello, e
soggiunse: — Invece ho pensato a una _restauratio ab imis fundamentis_.
Gli Ariani ascoltavano con raccoglimento devoto, messi in maggior
soggezione da quelle frasi latine che il signor Nestore capiva poco
e che la signora Veronica non capiva affatto. Anzi ella rifletteva
malinconicamente che se per maritare le figliuole ci voleva il latino,
la sua Tilde sarebbe rimasta zitella tutta la vita.
— In quei tempi — ripigliò Flaminî — io davo lezioni private _de
omnibus rebus;_ mia moglie teneva una scuola elementare femminile con
insegnamento di francese. Si tirava innanzi alla meno peggio, perchè
la Rosina, non faccio per lodarla, era una donnetta che sapeva il suo
conto e poteva dar dei punti a molte maestre di grado superiore. Ma
quelle gravidanze erano una calamità, e più d'una mamma che avrebbe
voluto inscrivere da noi le sue bambine arricciava il naso a veder la
circonferenza della direttrice. E poi, delle bambine ne avevamo più del
bisogno in casa. Insomma, al terzo puerperio, io dissi alla Rosa: “La
nostra scuola si chiude.„ — E vedendola sbarrar gli occhi stupefatta,
soggiunsi pronto: — “Per riaprirsi cambiando sesso.... Ih, ih, ih!...
Il sesso noi non possiamo cambiarcelo, ma la scuola sì.... Era femmina
e diventa maschio....„ La Rosina seguitava a fissarmi con gli occhi
stralunati. Senza dubbio ella credeva che mi desse volta il cervello.
Ma io le spiegai le ragioni per le quali intendevo trasformare la
nostra scuoletta femminile in un Collegio-convitto per ragazzi. La
Rosa sollevò mille obbiezioni: e che non si deve lasciar il certo
per l'incerto, e che l'impresa richiedeva grandi mezzi, e che avremmo
fatto un buco nell'acqua, eccetera, eccetera. Io però avevo in serbo
l'argomento decisivo. — “Col Collegio-convitto maschile, noi, a suo
tempo, sposeremo le tre figliuole che abbiamo già e quelle che, con
l'aiuto della Provvidenza, ci capiteranno più tardi.... Sicuro; il
Collegio-convitto sarà un vivajo di generi.... Ih, ih, ih!„ — Fu per
mia moglie una rivelazione. Ella non si diede per vinta subito, ma io
m'accorsi ormai che parlavo ad una convertita. E m'accorsi anche ch'ero
da un momento all'altro cresciuto di riputazione nell'animo della Rosa;
finalmente ella doveva riconoscere di non aver sposato un maestrucolo
buono soltanto a insegnar le conjugazioni dei verbi.
Queste parole di colore oscuro potevano far credere che in _illo
tempore_ la Rosa non fosse la moglie docile ed ossequente ch'era stata
poi. Comunque sia, il fine principale del signor direttore era quello
d'imprimere un concetto sempre più alto del proprio valore nella mente
dei conjugi Ariani. E poichè essi tacevano intontiti, egli li provocò
con domande dirette: — Che cosa par loro della mia idea, eh?... Non fu
una trovata di genio?... Dicano, dicano la loro opinione.
Confusi dinanzi a tanta grandezza, gli Ariani si limitavano a sorridere
d'un sorriso ebete.
— Nei primordî — ricominciò il cavalier Flaminî — fu un osso duro da
rodere. Il Convitto si aperse con sei allievi, e tra loro e i dieci o
dodici esterni non si coprivano le spese. Convenne anzi far qualche
debito, tanto più che la Rosa continuava a partorir femmine e che
mi era nata la quarta figliuola, la Paolina.... Un altro si sarebbe
perduto d'animo, io no.... Avevo ormai le mie viste sopra uno de' sei
convittori, un ragazzo di buona famiglia, che avrebbe potuto essere un
partito eccellente per la mia primogenita, la Luisa....
— Possibile? Così presto? — interruppe la signora Veronica.
— Chi non semina non raccoglie — ribattè il signor direttore. E
tracannato un secondo bicchiere di vino, riprese: — Dunque non solo
non battei in ritirata, ma coraggiosamente appigionai un locale più
bello e più ampio, allargai le basi del Collegio, aggiunsi nuovi
insegnamenti.... e corsi pareggiati, e corsi preparatori a scuole
navali, militari, commerciali, e via via. Un'insegna poi che occupava
mezza facciata, con le sue belle lettere fiammanti d'oro su fondo
turchino:
COLLEGIO-CONVITTO FLAMINI
_sotto il patrocinio della Camera di Commercio
ecc. ecc. ecc._
Ce n'era per nove righe!... Insomma a poco a poco i convittori salirono
a quindici, a venti, a trenta, a cinquanta, a cento, e gli esterni
crebbero in proporzione. Non mancavano gl'invidiosi.... figuriamoci!...
Sparlavano di me e del mio Collegio; e ch'io ero venale e ignorante,
sissignori, questo dicevano, e che i professori non valevano un'acca,
e che li pagavo male, e che tenevo a stecchetto i convittori....
come se non avessi dovuto preservarli dalle indigestioni.... e che la
mia era una fabbrica d'asini.... come se non si fabbricassero asini
in tutte le scuole.... Io mi stringevo nelle spalle.... Avevo ben
altro pel capo.... Le figliuole avevano raggiunto la mezza dozzina,
e volendo assicurar loro sei mariti occorreva darsi le mani attorno.
Grazie al cielo, la Rosa era entrata perfettamente nelle mie idee
e mi ajutava con tutta l'anima.... Dei fiaschi erano inevitabili, e
guai a essere esclusivi, guai a impuntarsi su pochi nomi.... Si getta
l'amo cento volte per pigliare un pesce. Noi avevamo circa venti
candidati _in pectore,_ tre in media per ogni figliuola, i grandi
per le grandi, i piccoli per le piccole.... A questi venti, con le
debite cautele per non dar troppo nell'occhio, si usavano attenzioni
particolari; di quando in quando un invito alla tavola di famiglia,
una uscita straordinaria, una carezza, un elogio, e, al caso, una
parolina nell'orecchio dei professori _in limine_ degli esami. Che
se uno di loro cadeva indisposto, mia moglie gli teneva un'oretta
di compagnia, gli somministrava di sua mano le medicine, il thè di
camomilla, le tazze di brodo ristretto, eccetera, eccetera. E nelle
lezioni di ballo a cui partecipavano le mie ragazze quei venti erano
i cavalieri preferiti, anche se ballavano meno bene degli altri.
Ma il meglio era nell'autunno, in villeggiatura. Sempre conducevamo
con noi, verso un supplemento di retta che ben s'intende, un certo
numero di convittori; le famiglie ce li lasciavano o perchè si
rinfrancassero in qualche materia, o perchè potessero godersi un po'
d'aria campestre senz'abbandonare affatto il Collegio.... Allora
era una vita patriarcale.... un'ora o un'oretta e mezzo di studio
sotto di me o sotto un professore che ci tiravamo dietro; pel resto
erano scarrozzate, e gite sul somaro, e giochi innocenti diretti
da mia moglie, che, per fortuna, non aveva più la malinconia delle
gravidanze.... Basta, in quella stagione le bimbe e i convittori si
trattavano come fratelli e sorelle. Rischi seri non ce n'erano, coi
piccoli per un conto, coi grandi per un altro, chè già erano sempre
in parecchi e si sorvegliavano a vicenda.... Però è da scommettere
che, se quei ragazzi avessero avuto l'età necessaria e fossero stati
padroni di sè, si sarebbe combinato un pajo di matrimoni ogni autunno.
La Paolina sopratutto faceva furori. Una volta erano in cinque a
starle attaccati alle gonnelle. Ma ella aveva sett'anni e il maggiore
de' suoi spasimanti ne aveva dodici!... Eh, poveri noi se non ci
fossimo agguerriti contro le illusioni! Era un lavoro di Penelope,
un continuo fare e disfare. I diciotto o venti candidati rimanevano
invariati come cifra complessiva, ma mutavano continuamente nelle
loro unità. Oggi uno era richiamato a casa per motivi domestici;
domani un secondo non pagava la retta e conveniva licenziarlo; un
terzo rivelava un pessimo carattere; in un quarto si scoprivano i
germi d'una malattia ereditaria. Pazienza! Da bravi generali, la
Rosina ed io colmavamo i vuoti con le nuove reclute. Il guajo grosso
era questo: che l'educazione del Convitto, anche per quelli che
seguivano i corsi preparatorî, non durava eterna.... Sarebbe stata una
faccenda diversa se avessi potuto aprir dei corsi superiori, dei corsi
universitari.... chè già avrebbero imparato da me quello che imparano
nei grandi istituti pubblici.... Ma in questo benedetto paese, dopo
tanti sacrifizî per conquistare la libertà, non è mai lecito di far
quello che si vuole. Così a quindici, sedici, diciassett'anni al più
i ragazzi avevano compito i loro studi nel mio Collegio. Avevo un bel