La famiglia Bonifazio; racconto - 15

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serbo ogni anno una parte del suo vino migliore, per assicurarsi il
latte della vecchiaia. Sulle pareti della cantina, dietro alle botti,
correvano dei palchi pieni di bottiglie, allineate come i soldati sul
campo, colle relative etichette che indicavano gli anni. Era una
seduzione irresistibile, un attraente invito agli studi comparativi
sulla diversità dei prodotti di varie epoche. Andrea sturava una
bottiglia che indicava dalla sua trasparenza la purezza del vino. Era un
nèttare delizioso!... gli anni avevano sviluppati gli aromi che salivano
per le narici con esalazioni eccitanti. Quello dell’anno antecedente
doveva essere ancora più profumato. Ne faceva la prova, e vedeva di aver
ragione. Il più vecchio deve essere il migliore di tutti, e faceva un
ultimo assaggio che era un nuovo trionfo!... Egli usciva dalla cantina
colle gambe mal sicure, cogli occhi brillanti, e lo sguardo ardito.
Pareva che la vista delle battaglie di Napoleone lo animasse alla lotta,
e guai a chi gli compariva davanti in quei momenti fatali.
Pasquale lo sfuggiva, dicendo che il vice-padrone aveva il vino cattivo,
andava a rifugiarsi nel fienile; l’altro batteva a tutte le porte,
entrava in scuderia, e finiva col cadere sullo strame, ove restava delle
ore, immerso nel profondo letargo dell’ubbriachezza. Il cocchiere usciva
prudentemente dal suo nascondiglio, andava a chiamare il figlio del
padrone, e lo conduceva a vedere lo spettacolo del cugino sdraiato in
terra come un maiale.
Silvio ne diede subito avviso a Maria che passata la sbornia fece una
ramanzina al marito, il quale si giustificò mettendo in campo il
sospetto che un certo vino prendesse lo spunto, egli volle subito
assicurarsene e ne aveva assaggiato trovandosi a digiuno.
Un’altra volta il vino gli aveva fatto male, perchè prima di entrare in
cantina aveva bevuto della birra. Ma continuando ad ubbriacarsi non
seppe trovare altro pretesto che quello che il buon vino gli piaceva, e
che non vedeva la ragione di privarsene. Divenne una brutta abitudine.
Beveva anche all’osteria, e rientrava in casa barcollando, colla bocca
storta dalla quale uscivano delle parolaccie villane, delle espressioni
tronche minacciose. Metilde ne aveva paura, ed alla comparsa
dell’ubbriaco fuggiva nella sua stanza, e si chiudeva dentro.
Un giorno esso entrò improvvisamente in cucina tutto traballante, e si
mise a strepitare senza riguardi davanti ai cugini. Maria lo minacciò di
togliergli le chiavi della cantina; egli le rispose con uno schiaffo.
Silvio saltò al collo d’Andrea e voleva strozzarlo. Metilde urlava
spaventata, dicendo che quelle erano baruffe da mascalzoni, che Silvio
non aveva bisogno di farsi paladino di nessuna dama, che egli non doveva
ingerirsi negli affari degli altri.
Silvio dichiarò che si stimava in dovere di difendere la cugina, questa
singhiozzava convulsamente, e non voleva che Silvio battesse suo marito.
Andrea barcollante voleva menare dei pugni, allora la zuffa si riaccese,
e Silvio lo mise alla porta a furia di calci nel deretano.
In questo momento giunse il maestro Zecchini, che veniva, come al
solito, a far compagnia all’ammalato. Sorpreso dallo spettacolo
inaspettato, si gettò fra i combattenti, e giunse a separarli.
Quando tutti furono più calmi, egli disse:
—Non mi sorprendo che gli uomini si prendano a calci; li ho giudicati da
un pezzo; questa è una manifestazione spontanea della loro natura
asinesca.... ma mi meraviglio che simili scene abbiano luogo in questa
casa.... e in questi momenti!...
Volle sentire le giustificazioni di ciascheduno, prima di pronunziare la
sua sentenza, e poi soggiunse:
—Mi toccava vivere tanto lungamente da persuadermi che i nipoti sono
simili agli avi, l’eredità del sangue è imprescrittibile. Tu Andrea sei
un ubbriacone come tuo nonno; tu Silvio sei battagliero come l’avolo
capitano, che ha ornato queste pareti colle battaglie del primo
Napoleone; ma tuo nonno si batteva contro la cavalleria dei cosacchi, e
tu ti batti con quell’asino vestito e calzato, indegno di questa casa, e
di questa donna. Maria, perdonate all’ubbriacone, come Gesù Cristo ha
perdonato a chi lo metteva in croce, dicendo: «egli non sa quello che
fa!»
Per buona ventura papà Gervasio non aveva udito nulla di quel
tafferuglio.
Il maestro Zecchini li scongiurò di vivere in buona armonia, di non
tralignare dall’esempio di quella famiglia che era stata sempre un
modello di probità e di buoni costumi.
—Almeno, egli aggiunge, state tranquilli fino alla finale catastrofe che
vi attende, e che pur troppo non è molto lontana.
E infatti il male si aggravava, e la febbre sempre più forte consumava
il malato. Maria era instancabile, gli somministrava esattamente i
rimedi nelle ore prescritte, senza sgarare d’un minuto, gli risparmiava
le più leggere emozioni, gli evitava il più piccolo rumore, girava
intorno al letto in punta di piedi, sorvegliando attentamente i minimi
cenni dell’infermo. Gli cambiava l’aria della stanza senza molestarlo
con luce troppa abbagliante, gli asciugava il sudore della fronte, gli
ravviava i capelli scomposti. Fino che conservò i sentimenti volle
vedere ogni giorno gli alberi del parco; Maria gli metteva dei cuscini
sotto la testa, ed apriva le finestre. Egli guardava cogli occhi
languenti le foglie appassite dell’autunno, aspirava con avidità l’aria
esterna che entrava a ondate odorose.
Maria gli portava dei fiori, le rose rifiorite, gli ultimi crisantemi, o
le prime viole del pensiero seminate in agosto; egli mostrava piacere, e
domandava conto degli animali e delle piante più care, fra le quali
aveva passate le ore migliori della vita. Maria pensava a tutto e a
tutti, con calma serena, senza confusione fra le molteplici brighe, con
quel sorriso degli occhi che indicava la bontà e la pazienza, anche sul
volto illanguidito dalle fatiche, anche coi lineamenti resi malinconici
dalle amarezze e dai disinganni della vita.
Un giorno l’ammalato perdette la parola, ma parlava ancora cogli occhi,
poi anche questi s’intorbidarono, si fecero vitrei, immobili e senza
luce, le occhiaie divennero livide, i zigomi prominenti, la bocca pareva
più grande, e cominciò il rantolo dell’agonia.
Metilde ne ebbe paura, e fuggì dalla camera per non più rimettervi il
piede, Maria rimase ferma fino all’ultimo istante, umettando le labbra
inaridite del moribondo, con una penna bagnata nel vino di Marsala, e
accompagnando le sue preghiere a quelle del prete.
Silvio teneva nella sua mano quella del padre, e gli asciugava i sudori
della morte. Quando spirò, gli chiuse gli occhi con una pezzuola
ripiegata, e raccolse fra le braccia la cugina svenuta.
La portarono nella sua camera, ma quando ricuperò i sensi era tanto
sfinita che dovette mettersi a letto.
La sua assenza di poche ore fu segnalata a tutti da qualche privazione.
Il fuoco della cucina rimase spento fino a tarda notte. Nessuno si
sarebbe occupato del pranzo, se l’appetito non avesse deciso Pasquale ad
approntare qualche cosa. C’era un po’ di brodo, ma era insufficiente per
tutti. Pasquale si bagnò una buona zuppa, poi aggiunse dell’acqua al
brodo che avanzava e fece la minestra pei padroni. Si prese la parte
migliore di tutto ciò che rinvenne in dispensa, e servì il resto sulla
tavola della famiglia. Quel giorno Andrea si astenne dall’abuso del
vino, e Pasquale diede fondo alle bottiglie quasi piene che rimasero
sulla tavola. Si dimenticò di dare l’avena a Falcone e a Martino; i
polli ed i colombi rientrarono al pollaio e in colombaia senza l’ultima
porzione di becchime, e i conigli rimasero senza cena.
Argo coricato ai piedi del letto di Maria, la contemplava tristamente,
di tratto in tratto alzava una zampa sul materasso richiamando la sua
attenzione; essa gli faceva una carezza sulla testa, ed egli mandava un
gemito. Andrea apportò in camera qualche cibo per sua moglie, che essa
respinse con ripugnanza; il marito lo sporse al cane, che voltò la testa
da un’altra parte, rifiutandosi di mangiare. Le fantesche di casa
andavano e venivano dalle stanze, sbalordite, dimenticando i soliti
uffizi.
Il maestro Zecchini fu pregato di occuparsi dei funerali. Egli spedì
subito il triste annunzio mortuario ai parenti ed agli amici, e fece
tutti i preparativi necessari. Il giorno delle esequie il parco fu
invaso dalla folla, che aspettando il momento del trasporto, girava pei
viali, ammirando il sito pittoresco, e ciarlando sotto voce. I reduci
delle patrie battaglie erano accorsi colla loro bandiera per onorare il
collega del Quarant’otto, l’esule del governo straniero; molte persone,
beneficate tacitamente dal defunto, erano accorse spontaneamente al
mortorio, per sentimento di gratitudine. Il maestro Zecchini aveva fatto
apparecchiare la fossa del defunto presso quella de’ suoi genitori. Il
padre e il figlio, due valorosi campioni della indipendenza nazionale,
riposano tranquillamente nel modesto cimitero del villaggio coll’unico
onore che avevano ambito in compenso dei loro servigi, la presenza della
bandiera nazionale sul loro sepolcro.
Il notaio si recò alla villa Bonifazio per la lettura del testamento.
Silvio e Maria, figli di due fratelli indivisi, erano gli eredi
legittimi di tutta la sostanza, che verrebbe divisa fra loro in due
parti eguali, prelevate alcune spese, e qualche piccolo legato di
amicizia e beneficenza, fra i quali era ricordato il maestro Zecchini,
come l’amico più antico e più devoto alla famiglia, e Andrea Pigna: e
seguivano le clausole seguenti:
«Considerando che l’unico mio figlio Silvio, dedicato all’avvocatura non
potrebbe dimorare alla villa:
«Considerando che mia nipote Maria ha quasi sempre vissuto nella casa
paterna (meno i pochi mesi dopo il suo matrimonio) rendendosi benemerita
della famiglia per tutte le sue prestazioni:
«Desiderando che la nostra dimora continui ad essere abitata dalla
famiglia, e dai discendenti, e conservata, per quanto sarà possibile,
nelle presenti condizioni, così dispongo che la casa e le adiacenze, coi
mobili e gli animali, il parco, il giardino, l’orto ed il brolo che
costituiscono la villa, sieno compresi nella parte spettante a Maria,
alla quale raccomando di continuare nelle tradizioni domestiche.
«Questa parte è libera da ipoteche.
«Siccome poi tutte le ipoteche che gravitano le campagne vennero imposte
dai mutui contratti per l’educazione e il mantenimento di mio figlio,
così è giusto che tutta la parte passiva, rimanga a solo ed esclusivo
suo carico, coll’obbligo di pagare regolarmente tutte le scadenze dei
mutui, e di affrancarli alle epoche fissate nei relativi contratti, se
non gli sarà possibile di ottenere dagli interessati la necessaria
dilazione.»
Il testamento si chiudeva colle solite formule notarili, la data, le
firme del testatore e dei quattro testimoni, e quella del notaio col
bollo del tabellionato, tutto in perfetta regola, secondo le
prescrizioni del codice civile.
Silvio e Maria riconobbero che quel testamento era l’ultimo atto di
probità del loro padre e zio. Metilde e Andrea furono malcontenti, ma
non osarono esprimere il loro rammarico davanti il notaio, e mostrarono
di aderire col silenzio. Ma nei giorni successivi cominciarono i lamenti
in famiglia.

Andrea faceva osservare che l’eredità di sua moglie si riduceva ad una
abitazione troppo grande, con poche rendite e molti passivi, per le
spese di manutenzione delle fabbriche e degli animali. Metilde domandava
l’inventario per vedere che cosa restava dopo pagati i debiti che
gravavano la parte di suo marito.
Il maestro Zecchini fu pregato di assumere l’incarico delle divisioni; e
quantunque si aspettasse un risultato poco soddisfacente, pure non volle
rifiutarsi per la fiducia che tutti gli dimostravano, invocando la sua
lealtà e l’antica amicizia.
Metilde annunziando alla sua famiglia la morte del suocero, e il
testamento, pregava sua madre di pazientare ancora per qualche tempo,
non essendo possibile di abbandonare la villa al momento delle
divisioni, alle quali attendeva il marito con grande assiduità, perchè
dal loro risultato dipendeva l’avvenire, nessuno essendo in caso di
giudicare l’importanza dell’eredità prima di conoscere le rendite e le
passività, e di aver esaminato i mutui, che restavano tutti a carico di
suo marito, il quale aveva avuto la dabbenaggine di accettare l’eredità
senza benefizio d’inventario. E su questo punto aveva avuto delle
diatribe piccanti con Silvio, che non voleva lasciarla parlare di
benefizio d’inventario, dicendosi rassegnato a qualunque pretesa
capricciosa della moglie, meno che a far torto alla santa memoria di suo
padre, e all’onore intemerato della famiglia.
Maria non intendeva niente alla necessità delle divisioni, e diceva a
suo cugino:
—Perchè ci dividiamo? Non possiamo restare uniti come fecero i nostri
genitori? Non possiamo abitare la casa in comune come abbiamo fatto fino
adesso? Io userò tutte le economie possibili in famiglia, tu
amministrerai la sostanza, e in pochi anni potremo pagare i debiti, e
ritornare come prima. Se vuoi ritornare a Venezia pei tuoi affari, e per
far piacere a Metilde, che sta in campagna per forza, le vostre camere
saranno riservate, potrete venire qualche giorno in primavera, un mese
d’autunno, noi andremo a visitarvi a Venezia, e così ci vedremo sovente.
Non ti fa piacere che ci vediamo?
—Cara Maria, rispondeva Silvio, se dipendesse da me solo non vorrei
lasciarti un momento, io non sono felice che in questa casa ove ho
passata la mia gioventù in tua compagnia. Ah! quelli furono gli anni
felici! e come sono passati!... ti ricordi le nostre merendine nel
nido?...
—Quando tu avevi paura delle bisce....
—Ero un vero imbecille!...

—Eri un galantino!... sei sempre stato così... ti sono sempre piaciuti i
bei vestiti, i goletti e i polsini inamidati....
—Che frivolezze!... è ben vero!... sono stato troppo leggiero; la
fatuità fu la mia rovina!.... Quanto sarebbe stato meglio se avessi
ascoltato mio padre, e fossi tornato a casa dopo gli studi...
—Povero zio!... Quanto ha sofferto per la tua assenza, vedendo che non
poteva persuaderti a tornare in famiglia.... ma egli ti nascondeva le
sue pene per non affliggere la tua gioventù... non si vive che una volta
sola, egli diceva, non posso obbligare mio figlio a sacrificarsi in
campagna per farmi piacere!... Egli ha sempre sperato fino al tuo
matrimonio.... poi non ha sperato più!...
—Che cosa diceva di mia moglie?...
—Diceva che era bella.... assai bene educata... seducente per un
giovinotto.... e ti compativa.
—Mi compativa?...
—Oh scusa se ti offendo.... volevo dire.... che egli capiva che ti
dovesse piacere.... ma diceva che.... Infatti adesso a che serve di
ritornare al passato, il quale non torna più....
—Ti prego, Maria, non rifiutarti di dirmi ciò che pensava mio padre di
Metilde; è tuo dovere di non nascondermi le sue parole....
—Ma non diceva niente di male.... anzi ti assicuro che ne faceva
moltissimi elogi.... solo che....
—Che cosa?...
—Che non era per te... che non poteva renderti felice....
—Aveva ragione!...
—Oh Silvio!... non dire di queste cose. Nessuno è perfetto, tutti
abbiamo qualche pecca, ma Metilde è bella, elegante, graziosa....
—Tu li conosci i difetti di Metilde....
—Io no....
—Sì, li conosci! è un po’ egoista, pensa per sè, è di umore incostante,
quando la tiri via dalla società e dal pianoforte non sa far altro; in
famiglia non è che un impaccio....
—Oh Silvio, non dir cattiverie.... una signora non è avvezza a certe
cose....
—Che signora!... le signore ricche si capisce che piglino chi le serva,
ma Metilde non mi ha portato in dote che delle idee e delle pretese,
senza avere i mezzi di soddisfarle....
La conversazione fu interrotta da Andrea, che spalancò la porta con tale
violenza che fece tremare Maria.
—Di che cosa hai avuto paura? le chiese sgarbatamente il marito,
guardando il cugino con aria sospetta.

—Non vuoi che tremi, gli rispose bruscamente Silvio, pareva che entrasse
una bomba, o che venisse il terremoto.
Metilde seguiva Andrea, questi le gettò un rapido sguardo, adocchiò gli
altri due, poi tornò a fissarla con due occhiacci che volevano dire:
«vedete che se la intendono; li ho sorpresi in un colloquio clandestino;
che cosa ne pensate voi?»
Metilde lo guardò appena, tanto aveva paura di quell’ubbriacone, e
cercava di evitare tutte le occasioni di parlargli.
Silvio e Maria erano costretti dalla necessità a continue conferenze
d’affari, soli o col maestro, esaminavano i registri, facevano i conti
ai coloni, e l’inventario per le divisioni procedeva regolarmente. Molte
partite riscontrate richiamavano alla memoria i ricordi svaniti. Allora
coi gomiti sulle carte ciarlavano insieme del passato, dei loro parenti,
della povera nonna, e di tante prove dolorose e momenti terribili
attraversati dalla famiglia. Maria si ricordava pochissimo dei genitori,
ma conosceva la loro tragica storia; parlava del nonno capitano, delle
sue beghe continue col maestro, della loro amicizia, cementata dalla
pazienza di Zecchini, e dagli avvenimenti.
E tutti quei parenti erano morti!... non restavano che loro soli della
famiglia. Come avrebbero finito anche loro?... Allora Silvio pensava ai
suoi errori e ai meriti di Maria. Essa aveva assistiti gli ultimi
parenti, con somma bontà e intelligenza, e ricordando le cure delicate
ed affettuose da lei prodigate al suo povero padre, gli occhi gli si
riempivano di lagrime, e si espandeva in atti di viva riconoscenza per
la cugina, assicurandola che non avrebbe dimenticato mai più tutto il
bene che aveva fatto in quella casa. Egli medesimo le era debitore della
salute, era giunto alla villa in cattivo stato, forse a Venezia sarebbe
morto, ma si era ristabilito perfettamente a merito suo, e delle sue
cure, e quel mascalzone di Andrea mostrava di non saper apprezzare
abbastanza un tale tesoro....
—Andrea non è cattivo, te lo assicuro, gli diceva Maria; se non avesse
quel maledetto vizio del vino, non avrei mai avuto da lamentarmi di
lui.... col tempo si correggerà....
—Diventerà sempre peggiore, soggiungeva Silvio. Quel vizio esecrando gli
toglie la ragione e lo rende brutale, non può che peggiorare cogli anni,
e renderlo insopportabile.... Maria, dimmi francamente che cosa faresti,
se quell’uomo invece di correggersi, come tu speri invano, diventasse
sempre più vizioso, e ti mancasse ancora di rispetto?... Se prendesse
l’abitudine di darti degli schiaffi?...

Maria alzò la testa con una espressione di fierezza che Silvio non le
aveva mai veduta, rimase qualche istante perplessa, poi con duro
cipiglio gli disse:
—Parliamo d’altro.
In quel momento Silvio vide una scintilla negli occhi della cugina, e si
sentì consolato dal pensiero che il sangue dei Bonifazio non era
degenerato; e quello sguardo inaspettato gli fece battere il cuore più
forte.
La riconoscenza e l’ammirazione che sentiva per Maria gli fecero
dimenticare quel linguaggio e quegli atti, che talvolta la rendevano
volgare, e lo facevano arrossire davanti la gente. Allora non vedeva più
che quella costante devozione per la famiglia, che ne riassumeva i
sacrifizii, quella vita utile, quel cuore semplice e onesto, e deplorava
altamente di non avere saputo apprezzarla in tempo, ed esclamava
sospirando:
—Ah! cara Maria, ho falsato la mia vita, ho sbagliata la strada!...
—Io credo, gli rispose mestamente Maria, che nessuno a questo mondo
possa realizzare i propri sogni, che nessuno sia completamente felice.
Nella ingenuità degli anni giovanili si spera l’impossibile, si travede
una vita color di rosa, come quelle figure che abbiamo ammirate sul muro
da fanciulli, prodotte dalla lanterna magica, ma quando il lume si
spegne il muro ritorna bianco; la realtà è molto diversa dalle ubbie
giovanile... ma è inutile lamentare le illusioni perdute.... perchè non
erano che illusioni. L’esperienza ci mette davanti la verità, e bisogna
contentarsi del proprio stato, e rassegnarsi al destino....
Così dicendo si alzò, quasi avesse timore di dire troppe cose, o di
udirne, e uscì rapidamente dalla stanza, lasciando Silvio in una
agitazione morbosa, fra il rimorso e la speranza, deplorando le
aberrazioni del passato, e cercando il modo di riparare i suoi falli....
forse con nuovi errori!...



XIX.

I conti e l’inventario procedevano regolarmente, e si cominciava a
prevedere il risultato finale. La parte di Maria, netta da passività,
poteva bastare ad una famiglia modesta ed economa, per vivere in una
relativa agiatezza; ma l’altra parte, dopo pagati i debiti che vi erano
attribuiti, non poteva dare per civanzo che una rendita derisoria.
Era dunque indispensabile di pensare seriamente all’avvenire, e Silvio
se ne preoccupava con diversi progetti, eccitato anche dalle sensate
ammonizioni del maestro Zecchini che presentiva la rovina.
La dipendenza del suocero avvocato, oltre di riuscirgli pesante, non gli
dava che mediocri risultati economici; le corrispondenze ai giornali non
erano che un debole aiuto. Il pensiero dominante di Silvio era quello
della emancipazione dai suoceri, per liberarsi specialmente dal pesante
dominio della signora Emilia, che contribuiva alle sue disgrazie colle
abitudini e le idee che ispirava alla figlia. Egli avrebbe rinunziato
volontieri alla vita mondana per vivere in libertà nella casa paterna,
ma prevedeva l’opposizione ostinata della moglie, si vedeva minacciato
da pericoli, e non si sentiva abbastanza forte per resistere alle
tentazioni che gli esaltavano il cervello.
Si risolse di rivolgersi ad un suo amico, che gli aveva procurato delle
buone corrispondenze, che lo lodava sovente, incoraggiandolo a dedicarsi
intieramente al giornalismo.
Gli scrisse una lunga lettera, facendogli conoscere i più minuti
particolari delle sue condizioni domestiche e finanziarie, domandandogli
consiglio se recandosi a Roma potesse sperare un’occupazione
conveniente, avendo i mezzi sufficienti per aspettare qualche tempo,
potendo scegliere, senza la fretta pericolosa della urgente necessità.
La risposta non si fece attendere lungamente, ed era la seguente:

«_Carissimo amico_,
«Io divido il genere umano in due parti disuguali.
«Una piccola minoranza che pensa colla sua testa, una grande maggioranza
che pensa colla testa degli altri. Noi possiamo vantarci di appartenere
alla prima categoria, e viviamo alle spalle della seconda, colla giunta
di quelli che pensando colla propria testa, sono curiosi di sapere
quello che pensano gli altri. Dunque quasi tutto il gregge umano
contribuisce al nostro mantenimento, e chi pensa bene ha diritto di
vivere più lautamente degli altri; ma c’è posto per tutti, anche per
coloro che vendono idee false, perchè tanto la miglior trattoria quanto
la peggiore taverna smaltiscono i loro cibi, e chi non può mangiare il
lepre deve contentarsi del gatto.
«Come il cuoco che ammannisce le varie vivande pei suoi avventori, il
giornalista apparecchia ogni mattina la politica, la letteratura, la
critica, le notizie cittadine, e il bollettino della borsa per uso e
consumo de’ suoi lettori, molti dei quali attendono con impazienza il
giornale, per sapere che cosa devono pensare in quel giorno. Tu sai
benissimo che l’ultimo giorno di carnevale, e la festa di Pasqua che non
esce il foglio stampato, moltissimi associati o lettori non pensano a
nulla, o pensano come la vigilia. Questo immenso prodotto della stampa,
sempre crescente, a misura che scemano gli analfabeti, ha continuo
bisogno di nuovi coscritti, da mettere al posto dei morti e degli
invalidi.
«Chiunque vuol venire a Roma, qualunque sia la sua essenza, carne o
carota, è sicuro di bollire nella gran pentola dell’eterna città.
«Dal primo ministro all’ultimo spazzino ciascuno trova il suo posto.
«Ci vengono da tutte le provincie degli uomini d’ingegno e degli
stolidi, senza contare tutte le zucche spedite dagli elettori, la cui
maggioranza appartiene a coloro che pensano colla testa degli altri....
«Ero giunto a questo punto della mia lettera, quando vidi entrare il
nostro comune amico Sacripante che veniva a domandarmi se avessi da
proporgli un direttore per la _Confederazione Universale_, giornale
sbattuto dalle onde e dai venti contrari. Ho pronunziato il tuo nome che
fu accolto con entusiasmo. Vieni dunque, appena sarai libero, a fare il
capitano di questo naviglio in burrasca, e se saprai guidarlo con
destrezza, e condurlo in porto, la tua posizione è assicurata, diventi
grande ammiraglio della stampa.—Addio.»

Appena giunta questa lettera, Silvio chiamò Metilde, chiuse l’uscio
della camera, e le mise sotto gli occhi una tabella piena zeppa di
cifre, che indicava in modo positivo il risultato finale della
liquidazione della sostanza paterna.—Una rendita meschina!—
A scongiurare così desolante condizione non restavano che due soli
espedienti, o rassegnarsi a vivere modestamente in campagna, o partire
per Roma, da dove gli veniva offerta la direzione d’un giornale
cosmopolita.
Metilde escluse intieramente la prima proposta, e non accettò nemmeno la
seconda, riservandosi di rispondere, dopo di aver consultata la
famiglia.
Scrisse subito a suo padre, raccontandogli le dolorose contingenze del
loro stato dopo la liquidazione disastrosa, notificandogli le proposte
del marito, il rifiuto perentorio fatto alla prima, l’esitazione sulla
seconda, e unendovi una copia della lettera di Roma, domandava consigli
e suggerimenti sulla condotta da tenersi.
Mentre si aspettava la risposta da Venezia, un nuovo incidente venne a
rendere più irritante la reciproca condizione delle due famiglie che
vivevano insieme alla villa, guardandosi con diffidenza.
Pasquale aveva saputo all’osteria che Andrea si lamentava con tutti del
testamento dello zio Gervasio, e dei carichi che gli erano imposti.
La villa gli riusciva troppo onerosa con l’obbligo di conservare il
parco passivo, coll’abitazione troppo grande che rappresentava un altro
capitale infruttifero, e le convenienze della moglie che lo obbligavano
a mantenere due cugini parassiti, che gli costavano cari.
Pasquale pensava che Andrea aveva ereditato più di quanto meritava, e lo
giudicava indegno di godere tutto quel ben di Dio che non sapeva
apprezzare.
Un giorno erano brilli tutti due, caso che succedeva sovente. Andrea si
mise a rimproverare Pasquale per tutto il tempo che passava colla
spazzola in mano intorno al cavalletto dei finimenti che non avevano
bisogno d’essere tanto lucidi, mentre trascurava molti altri lavori più
utili, dei quali dovrebbe occuparsi se non fosse tanto poltrone.
Questa verità fece saltare la mosca al naso del domestico, il quale gli
rispose, che anche lui avrebbe qualche occupazione più seria che non
dovrebbe trascurare per simili frivolezze....
—Che cosa vuoi dire con queste ciarle?...
—Voglio dire che se io avessi una bella moglie, non vorrei che i mosconi
le girassero d’intorno,

—Balordo!... Silvio ha ragione di dire che sei un vero briccone!...
—Ah! il signor Silvio dice questo?... farebbe meglio anche lui di non
ingannare sua moglie, facendo la corte alla cugina!... questa sì è una
vera azione da briccone!...
Tali parole entrarono nel cuore di Andrea come tante freccie avvelenate.
Egli guardava il cocchiere in atto di sdegnoso disprezzo, ma non sapeva
trovare una parola da rispondere.
Pasquale con un sogghigno satanico accresceva l’insulto e l’agitazione
del padrone, il quale soffocava a stento la gelosia, e il desiderio di
vendetta. La vista di quello scherno, la vergogna di parere ridicolo, il
furore della gelosia lo spinsero a svelare un atroce segreto che
chiudeva gelosamente nel seno. Trasse di tasca un coltello, fece
brillare davanti gli occhi di Pasquale quella lama lucente e accuminata,
e gli disse:
—Chiunque mi offenda deve pagare, con questa lama nel ventre, tanto chi
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