La famiglia Bonifazio; racconto - 10

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Argo seguiva fedelmente la sua amica, e per starle più presso si fregava
agli abiti di Metilde, che pareva poco contenta della compagnia di quel
cane. Giunti al vigneto si ridestò l’attenzione di tutti, e
approfittando del cortese invito del padrone di casa, ciascuno si mise a
beccare i bei grappoli d’uva bianca e purpurea che brillavano al sole.
Così fu fatto anche davanti al frutteto, ma la signora Emilia non volle
che sua figlia mangiasse altre frutta, papà Gervasio le incoraggiò a
farne almeno una bella scelta fra le migliori, per portarle a Venezia.
Poi visitarono l’orto, fornito d’ogni varietà d’erbaggi, entrarono nelle
serre, ammirarono le aiuole all’aria aperta, e ne raccolsero tanti fiori
che le due ragazze ne erano cariche, e dovettero depositarli nel chiosco
del giardino. Poi saliti sopra una torricella che si chiamava il
belvedere, papà Gervasio fece vedere il panorama delle Alpi lontane, i
verdi colli sottoposti, il bosco Montello, e tutti i paeselli bianchi
disseminati nella vasta pianura. Additò anche i suoi poderi in blocco,
colle relative case coloniche sparse per la campagna intorno alla villa,
le praterie ove pascolavano i suoi armenti, e i campi coltivati a lunghi
filari di gelsi e di viti.
Frattanto erano giunti due altri invitati a pranzo che passeggiavano
sulla spianata davanti la casa. Quando la comitiva si avanzò, Silvio
fece le presentazioni.
—Il maestro Zecchini, Andrea Pigna.
Il giovane che non era avvezzo alle cerimonie cercava di nascondersi
dietro il maestro, il quale si avanzava con rispettose riverenze alle
signore, col cappello basso nella destra, e la sinistra appoggiata al
bastone, che lo aiutava a camminare.
Papà Gervasio gli strinse la mano, dicendo all’avvocato;

—È un vecchio amico di casa, che si ricorda ancora di Napoleone I; amico
fedele di mio padre, maestro di parecchie generazioni, pensionato dal
Comune.
—Senza mio merito, rispose modestamente il maestro.
Papà Gervasio volle condurre i suoi ospiti a visitare anche le stalle.
Egli amava tutte le bestie per istinto di bontà che gli rendeva cari
tutti gli esseri viventi, e poi come agricoltore, pei vantaggi che
ricavava da queste valorose alleate.
Il maestro faceva gli elogi delle mucche:
—Sono le più belle del paese, egli diceva all’avvocato, e ce ne sono
poche di migliori in tutta la provincia.
L’avvocato le guardava senza vederle, la signora Emilia si alzava
l’abito e le sottane fino a mezza gamba, e storceva il naso, perchè
l’odore della stalla le dava fastidio, Metilde si teneva dietro le
colonne perchè aveva paura di tutto, e diceva:
—Guai se una di quelle bestie rompesse la catena che le tiene legate!
Le mucche la guardavano con placidi sguardi, e alzavano il muso
ruminando tranquillamente. Maria rideva clamorosamente, entrava nelle
poste, accarezzava la Mira, che mostrava di conoscerla.
Il maestro asseriva che le bestie hanno spesso più sentimento degli
uomini, e molte buone qualità che scarseggiano nella vita sociale....
Per somma fortuna Pasquale venne ad annunziare che il pranzo era
servito, e così risparmiò la dissertazione del maestro, che dopo
l’elogio delle bestie, sarebbe indubbiamente finita col solito atto di
accusa dell’uomo.
La sala da pranzo era stata apparecchiata dalla nonna con quelle cure
che soddisfano la vista, e mettono gli ospiti in buone disposizioni. I
cristalli brillavano sulla lucida tovaglia fra i piatti fermi e
l’argenteria. Un bel vaso di fiori confondeva i suoi profumi colle
esalazioni delle pietanze. In principio non si udiva che l’acciottolio
dei piatti, tutti mangiavano in silenzio, ma la signora Emilia s’accorse
subito che Maria soffiava sul cucchiaio colmo, e mangiava la minestra
col pane. Una bottiglia di vino bianco lucido trasparente color
dell’ambra animò la conversazione che divenne sempre più animata e
briosa.
Il maestro raccontava le sue paure al tempo dei Tedeschi, quando
cominciò a sospettare che il capitano Bonifazio appartenesse alla setta
dei Carbonari. Egli si trovava gravemente compromesso e sognava tutta la
notte sbirri, catene, sotterranei, e la forca!
Papà Bonifazio per eccitarlo a tenere allegri gli ospiti gli riempiva
continuamente il bicchiere. Un’immensa trota del Piave fu trovata
eccellente. Tutto era buono e servito in punto.
Andrea teneva gli occhi fissi costantemente sulle due ragazze, Silvio
fremente spandeva il vino sulla tovaglia.
Maria prese colle dita uno stinco di pollo e si mise a rosicchiarlo e a
succhiarlo con disinvoltura, tagliava le vivande a pezzettini, e parlava
colla bocca piena, teneva la forchetta colla destra, e il coltello colla
sinistra.
La signora Emilia faceva dei segni a Metilde per indicarle questi
scandali; Silvio se ne avvedeva e si sentiva umiliato.
Ma il malanno più grande si manifestò nei dialoghi, ai quali la povera
ragazza ebbe l’imprudenza di prender parte. Essa diceva con ingenuità
degli spropositi madornali, che provocavano dei sorrisi male dissimulati
dalle signore e dall’avvocato e facevano salire il rossore al volto
dell’infelice cugino.
Si parlava dei suicidi che si vanno moltiplicando, ed essa raccontò il
caso d’un giovane speziale che si era ucciso colla _strachinina_.

Il maestro sostenne che il suicidio è una viltà, che la morte non è un
eroismo che quando si va ad incontrarla per la patria... e Maria
soggiungeva:
—Come i mille che andarono in _Cicilia_!...
Si parlò di Venezia, del lido, dei bagni d’Abano....
—Che sono eccellenti, osservò Maria, per le _irruzioni_ alla pelle.
—E pei dolori reumatici, disse il maestro.
—Ma questi, continuò l’intrepida fanciulla, si possono guarire anche
coll’essenza di _Clementina_!
Quest’ultima essenza spinse l’avvocato ad un irresistibile scroscio di
risa, al quale fece eco la signora Emilia. Metilde arrossì. Silvio aveva
gli occhi fuori della testa. Per consolarsi delle continue sciocchezze
di sua cugina egli beveva senza misura, e fra il vino, gli spropositi e
le umiliazioni perdeva il cervello. La nonna dissimulava, papà Gervasio
nella sua bonarietà non capiva che una cosa sola, che gli ospiti stavano
allegri, ed egli era soddisfatto. Il maestro si rammentava i consigli
che aveva dati inutilmente per l’educazione della fanciulla, e deplorava
vivamente la brutta figura che essa faceva a quella prima prova.
L’arrosto delle lodole venne ad accrescere le sconvenienze di Maria.
Curvata sul piatto, lacerava gli uccelli colle dita, ne cavava le polpe
coi denti, poi ritirava le ossa dalla bocca sporca. Quando finì di
divorarli, si versò un bicchiere di vino ben colmo, e se lo bevette d’un
tratto lasciando il cristallo appannato dall’unto, e mettendo i gomiti
sulla tavola, si riposò, guardando tranquillamente d’intorno.
Le signore Ruggeri che avevano assistito a quello scandalo scambiando
dei sogghigni ironici, abbassarono gli occhi per non lasciar scorgere la
loro meraviglia. Alle frutta Maria sputava i noccioli sul piatto, e
scherzava così insulsamente che gli ospiti ridevano per pietà. Il solo
Andrea la trovava spiritosa, e s’innamorava sempre più di lei; mentre il
cugino si vergognava d’aver preso sul serio una scioccherella, e la
guardava con disprezzo.
Dopo il caffè tutti sentivano bisogno d’aria aperta, e uscirono in
giardino.
Giunto il momento della partenza, papà Gervasio riempì i cassetti del
calesse colle frutta raccolte alla mattina. Infiniti complimenti e
strette di mano si andavano avvicendando con reciproca insistenza, tutti
volevano ringraziare, nessuno voleva essere ringraziato. Quando le
signore si accomodarono in calesse, furono coperte di fiori, l’avvocato
e Silvio non trovavano il loro posto sotto quella valanga odorosa, ma
finalmente si collocarono alla meno peggio. Papà Gervasio, il maestro,
Andrea, la nonna e Maria circondavano la carrozza, reiterando i saluti e
le strette di mano.
Silvio slanciò un’occhiata sprezzante all’indirizzo di Maria, che voleva
significare:—ti ripudio;—e salutò Andrea con un sorriso strano,
accompagnato da un’alzata di spalle, che voleva dire:—prendila pure, che
te la cedo volentieri.
La signora Emilia partì dalla villa riportando la più ferma persuasione
dell’opulenza della famiglia Bonifazio. Aveva veduto una bella casa, con
tutti gli agi della vita, un parco principesco, e le campagne che aveva
osservate dal belvedere le parevano immense. E infatti il padrone di
casa non aveva trovato necessario d’indicarle i confini, nè di
avvertirla che il verme dell’ipoteca rosicchiava quelle colture, e
produceva gli effetti della filossera.



XIII.

Una volta si diceva che il ridicolo uccide, ma l’esperienza ci ha
insegnato che in certi casi il ridicolo rende immortali. E infatti si
conoscono dei ministri, che passeranno alla posterità piuttosto per le
caricature del _Pasquino_ che per le pagine della storia, la quale non
ha nulla da registrare sui meriti e sui profitti della loro autorità.
Ma nell’amore se il ridicolo non uccide, certo ferisce crudelmente, e un
uomo, che ha arrossito d’una donna amata, non vorrà più farla sua
moglie. Così almeno pensava Silvio riguardo a Maria, bella e buona
ragazza, ma tanto rozza da non poterla presentare nella buona società.
Il problema: Metilde o Maria? era dunque sciolto a tutto vantaggio della
prima, e oramai non mancava altro che di cavarne le conseguenze, e di
finire la commedia come quelle del Goldoni, con un bel matrimonio.

Il giovinotto vi si decise raddoppiando la sua assiduità nella famiglia
Ruggeri, e cogliendo ogni occasione favorevole per dimostrare la sua
crescente affezione verso Metilde. E queste occasioni non gli mancarono
a Venezia, ove tutto è sempre predisposto per le scene d’amore. Questa
città silenziosa presenta ad ogni passo degli spettacoli stupendi, che
predispongono la mente ed il cuore ai più teneri affetti. Le rive
solitarie sul mare infinito, un passeggio sotto gli alberi dei giardini
col panorama incantevole che sta dinanzi, una gita in gondola sulla
laguna in bonaccia, in un giorno sereno, quando il cielo azzurro si
riflette nelle acque tranquille; una serenata notturna sul gran canale,
quando l’eco lontano ripete mollemente le soavi melodie, e i fuochi di
bengala trasformano quei palazzi in un mondo fantastico; un chiaro di
luna sui marmi dei monumenti, una notte stellata davanti il molo quando
gli astri si riflettono con tremula luce nella laguna, e si confondono
colle strisce di luce oscillante riflessa dai fanali.
In quei momenti, in quei siti Silvio e Metilde s’intendevano con uno
sguardo, col tocco della punta d’un piede, e si sentivano beati d’essere
insieme, senza rompere un silenzio tanto eloquente alle loro sensazioni.

La signora Emilia vedeva con piacere i progressi di quella reciproca
inclinazione, ne prevedeva il fortunato scioglimento, e cominciava a
pensare al corredo. Per lei, a completare quella affezione, che verrà
consacrata dalla religione e dalla legge, giudicava indispensabile...
una mantiglia di velluto a pizzi di Brusselles per l’inverno, e un
cappellino, modello di Parigi, e intanto studiava i figurini dei
giornali di mode, e indicandone qualcuno a Metilde le diceva:
—Guarda questo come è grazioso e distinto. Se le cose si faranno presto,
ti andrebbe a meraviglia.
—Abbiamo tempo da pensarci, mammina.
—Ma infine, bisogna pure che si decida... mi pare che ci abbia pensato
abbastanza... non conviene prolungare troppo questo assiduo corteggio
senza una domanda formale... per riguardi verso il mondo... e anche
perchè è una vera schiavitù... e mi secca di starvi in guardia... tu
devi fargli comprendere le convenienze, e che si spieghi.
Quantunque ripugnasse a Metilde di uscire dall’ideale per entrare nei
discorsi concreti, tuttavia dovette obbedire alla mamma, e fece
comprendere all’innamorato la necessità di chiedere l’approvazione dei
genitori, per avere la licenza di presentarsi in casa, con un titolo che
giustificasse la sua assiduità, e rendesse legittima la loro affezione.
Silvio decise di partire per la campagna, per comunicare al padre le sue
intenzioni, e pregarlo di venire a Venezia a fare la domanda formale.
Partì, promettendo un pronto ritorno; e intanto le signore visitarono
alcuni negozi di mode, per informarsi delle ultime novità, prendere dei
campioni, vedere le stoffe, i cappellini da città e da viaggio, e tutto
quello che sarebbe indispensabile per una sposa elegante.
Nello stesso tempo il giovinotto annunziava al padre la sua scelta, che
veniva accolta con esitazioni e dubbiezze poco lusinghiere. Papà
Gervasio, colla sua innata bonarietà, gli fece considerare tutti gli
ostacoli che si frapponevano a quel matrimonio. Prima di tutto la
ragazza non si sarebbe mai rassegnata a vivere in campagna; e questo era
il sogno paterno, di raccogliere la famiglia d’intorno, di vivere e di
morire fra una corona di nipoti.
—Per ora no, gli rispose il figliuolo, per ora mi sarebbe impossibile di
obbligare Metilde a questa vita; ma io pure non intendo di rinunziare
immediatamente alla città. Col tempo vedremo di combinare ogni cosa,
intanto non voglio aver studiato per nulla, la professione e le
corrispondenze ai giornali mi assicurano dei guadagni che sarebbero
totalmente perduti, se io venissi ad oziare in campagna.
—Allora i tuoi proventi uniti alla dote ti basteranno per vivere?
—Questo non lo so, perchè ignoro l’importanza della dote. Se devo
giudicare dai grossi guadagni dello studio, l’avvocato deve essere
ricchissimo, ma non so come impieghi i suoi capitali, nè quanto profitto
ne ricavi. Deve avere le cassette piene di rendita pubblica, ma non dice
niente a nessuno, e forse nasconde i suoi tesori, per isfuggire
all’avidità dell’agente delle tasse.
Papà Gervasio sospirava, e diceva:
—Io avevo la speranza che tu avresti sposato una donna semplice; le
ricchezze non mi hanno mai fatto voglia, non le credo necessarie per
vivere felici. Una modesta agiatezza è più opportuna alla pace della
casa, e avrei voluto vederti qui, occupato dei tuoi affari, nel seno
d’una famiglia tranquilla, onesta, contenta....
—Questo potrà venire col tempo, gli rispondeva Silvio, passati i primi
anni in città, potrò in seguito persuadere la mia Metilde a ritirarci in
campagna. È così buona, ama tanto la bella natura! Quel giorno dello
scorso autunno, che siamo venuti in campagna, nella ferrovia da Mestre a
Treviso, essa guardava sempre fuori del finestrino, mi fece osservare
una misera capannetta affumicata fra i campi in un luogo deserto, e mi
disse:—due amanti sarebbero felici in quel sito!—Verrà un giorno che
sarà più contenta di questa casa.
—Intanto io divento vecchio, osservò Gervasio.
—Vecchio alla tua età! hai tempo da aspettare, e poi da vivere con noi
lungamente....
—Sono sempre sofferente, i miei benedetti intestini mi danno tante
molestie, guai al minimo disordine....
—Affari nervosi.... affari nervosi.... me lo ha detto il medico....
—Ah i medici!... non mi parlare dei medici. Si servono sempre dei
nervi.... dei loro malati, per dissimulare le verità affliggenti, e
consolare chi soffre col balsamo della speranza.
—Non occupiamoci di malinconie....
—In conclusione non posso negarti che questo matrimonio non è quello che
avrei desiderato per te e per noi tutti, ce n’era un altro migliore...
senza andarlo a cercare lontano....
—Caro papà, i matrimoni sono quasi sempre un avvenimento improvviso,
trascinato da circostanze imprevedibili e imprevedute, come i numeri del
lotto, e tanto pel matrimonio che per il lotto bisogna lasciare i
sogni....
—Non posso darti torto intieramente, e non intendo contrariare le tue
inclinazioni, nè importi una sposa. Dimmi dunque che cosa devo fare per
contentarti?
—Devi farmi il favore di venire a Venezia per domandare alla famiglia
Ruggeri la mano di Metilde per tuo figlio, mostrandoti anche soddisfatto
della mia scelta....
—Questo s’intende...
—Devi darmi una somma sufficiente al mio impianto, per comperare i
mobili, ecc. ecc., e aggiungere qualche cosa alla mia mesata....
—Non hai fatto dunque nessuna economia, coi compensi dei giornali?
—Non ho il becco d’un quattrino!...
—Io pure ho le tasche vuote. Pare che la terra sia esaurita dopo tanti
secoli di fecondità, e le meteore ci perseguitano con desolante
persistenza. Brine, grandini, siccità, siamo ridotti agli sgoccioli; i
coloni non sono più in caso di pagare il fitto, e mancano del necessario
per vivere, le imposte sono esorbitanti, il possidente deve consegnare
all’esattore tutte le sue rendite, e resta colle mani piene di
mosche.... non posso offrirti che queste pel tuo matrimonio.

—Dunque ti opponi alla mia domanda?...
—No, ma ti domando alla mia volta come si fa?
—Se non abbiamo denaro abbiamo dei campi. Non potresti contrarre un
mutuo?
—Sarà il terzo in pochi anni. Ci costerà il sette per cento con ipoteca,
e la terra ci dà appena il tre, siamo dunque sull’orlo del precipizio!
—Verranno giorni migliori, io saprò farmi una posizione, pagherò tutti i
debiti, toglierò tutte le ipoteche....
—Che il cielo te la mandi buona, intanto camminiamo a gran passi verso
la rovina!...
Anche la nonna trovava che la signorina Metilde era un poco pretenziosa,
avrebbe forse una bella dote, ma con molte esigenze. Tuttavia la buona
vecchia benediceva gli sposi, augurava ogni bene, e prometteva di
pregare ogni giorno per loro, come faceva per tutti.
Maria, con fiero cipiglio, presentò al cugino le sue congratulazioni,
perchè sposava una gran signora, degna di lui, si studiava di
dissimulare la stizza che la mordeva, ma tradiva lo sforzo coll’ironia
del linguaggio, e le troppo affettate dimostrazioni d’indifferenza.
Quando credeva di non essere veduta, accarezzando Argo con tenera
sollecitudine, una lagrimetta le spuntava sul ciglio, e le scorreva
sulle guancie; ma appena udiva rumore si ricomponeva, e continuava a
mostrarsi tutta intenta alle solite occupazioni di casa.
Papà Gervasio andò a Venezia a fare la domanda formale e fu ricevuto dai
Ruggeri con mille cortesie. Fecero un bel pranzo di famiglia, e alla
sera ebbe luogo la presentazione dei fidanzati agli amici, con
profusione di rinfreschi, dolci, sorbetti e vini squisiti.
Qualche giorno dopo papà Gervasio trovava anche il denaro e lo portava
al figliuolo per le spese d’impianto, e venne fissata l’epoca precisa
per la firma del contratto e le nozze.
La signora Emilia e la figlia si misero in traccia dell’appartamento
girando tutto il giorno per Venezia, salendo tutte le scale delle case
dove c’erano locali d’appigionarsi.
Silvio le pregava d’evitare le calli ristrette, e raccomandava un
prospetto pittoresco ed aperto, che si vedesse la laguna ed il sole.
La signora Emilia fingeva di volerlo contentare, ma non dava retta alle
sue ciarle. Essa voleva che l’appartamento della figlia fosse vicino
alla sua casa, e poco lontano dalla piazza.
Pensava che l’idea di voler vedere la laguna era una vera mania senza
costrutto, di quelle ubbie ridicole di giovinotto egoista che non pensa
alla moglie, la quale restando molto in casa, deve preferire un sito
frequentato, per godere il passaggio della gente, che distrae dai
pensieri tristi nelle ore d’ozio, e nei giorni piovosi quando non si può
uscire per le visite o pel passeggio. In quanto al sole non bisognava
pensarci nemmeno per due motivi, prima per non salire sotto ai tetti, e
poi perchè all’estate sarebbe troppo caldo, e nelle camere oscure si sta
più freschi, e le donne ci guadagnano un maggiore prestigio; l’ombra è
favorevole alla tinta del volto, nasconde i piccoli disordini, come il
velo, e rialza l’aspetto della persona nell’ambiente misterioso. Metilde
tentava di secondare i desideri del fidanzato, si sarebbe sacrificata
volentieri per soddisfarlo, ma la signora Emilia era irremovibile nelle
sue opinioni, e le imponeva con fermezza.
L’appartamento venne appigionato senza consultare lo sposo, la signora
Emilia si giustificò dicendogli che non c’era tempo di mezzo per
avvertirlo; un’altra famiglia, innamorata del locale, attendeva alla
porta impaziente per impadronirsene se non avessero subito chiuso il
contratto. Non bisognava lasciarselo sfuggire, perchè non ce n’erano di
migliori, e conveniva per varie ragioni.
Silvio corse a vedere il suo nido futuro, e ne uscì mortificato.
Era oscuro, con un prospetto di case opprimenti a breve distanza, era
rumoroso e frequentatissimo, ed aveva dirimpetto le botteghe più
antipatiche. Un salumiere, con una frangia di salsiccie sulla porta, che
esponeva in vetrina una testa di maiale con un limone fra i denti, in
mezzo a due colonne di formaggio; e un beccaio che metteva in mostra la
sua merce sanguinolenta, dei pezzi di carne floscia, coi muscoli
scorticati, delle testine pallide di vitello cogli occhi stravolti dalla
morte, degli agnellini cogli occhi fuori dal cranio sanguinoso col
ventre aperto, dei cuori, dei fegati, dei polmoni appesi ai ganci, come
trofei d’un massacro.
Si lagnò alquanto con Metilde, che gli diede ragione, ma non aveva osato
contrariare la mamma. Osservò sommessamente alla futura suocera che il
salumiere e il beccaio gli facevano orrore; ma essa lo confutò
trionfalmente, burlandosi di lui che mangiava con molto appetito ciò che
gli faceva ribrezzo. Secondo lei erano idee strane, debolezze, e
pregiudizii ridicoli.
Che cosa poteva fare? non c’era più rimedio, dovette rassegnarsi,
riservandosi la scelta delle tendine destinate a nascondere quel
nauseante spettacolo. Egli aveva paura che la signora Emilia gli
mettesse davanti agli occhi qualche altra scena turpe o affliggente,
come se ne vedono tante, dipinte sulle tendine, Otello che uccide
Desdemona, Giuditta che taglia la testa ad Oloferne, o il sotterraneo
delle tombe con la morte di Giulietta e Romeo.
Comperò due vedute della Svizzera: il castello di Chillon sul lago di
Ginevra e un _châlet_ sulle rive d’un torrente, fiancheggiato d’abeti,
con un fondo di montagne nevose, e due bei parchi con fiori e fontane
sul davanti, e dei viali tortuosi che si perdevano nei boschi. Ma la
signora Emilia lo criticò acerbamente, canzonandolo per la sua ingenuità
puerile, dicendogli che non poteva fare una scelta peggiore, e cercava
di persuaderlo che nessuno voleva di quelle tende, pel motivo delle
tinte verdi che smaccano il colore della pelle, e fanno gran torto al
viso delle donne.
Era inutile lottare con quella signora, che sapeva difendersi meglio del
marito avvocato; era più prudente capitolare alla prima, e lasciarla
libera di fare alto e basso a suo piacimento. Così fu convenuto, ed essa
si occupò dei mobili, delle tappezzerie, e di tutti gli arredi
necessari, colla sola condizione di conservare le quattro tendine.
Dopo questo patto, Silvio dichiarato inabile a simili imprese, venne
escluso da ogni ingerenza nelle faccende domestiche, ed egli si
consolava col giornalismo dando dei consigli alle grandi potenze
d’Europa, sulla politica del giorno, e sosteneva delle polemiche coi
giornali avversi, intorno alle sorti del mondo.
Intanto alla villa Bonifazio si pensava al modo di riparare alla perdita
delle speranze che si erano concepite sopra un matrimonio possibile fra
i due cugini, che avrebbe tenuto unito il patrimonio domestico. Si
chiamò anche il maestro Zecchini, per udire un suo parere, e fissare la
condotta da tenersi per l’avvenire.
Era evidente per tutti che Andrea aspirava alla mano di Maria, e giacchè
Silvio vi rinunziava, bisognava occuparsene.
—Che cosa ne pensava il maestro?
Egli rispondeva: Tocca a Maria la decisione, essa si è trovata fra due
asini, e credo che preferisce quello che fugge a quest’altro che si
lascerà mettere la cavezza, ma prima di tutto bisogna consultarla. Fino
al giorno che ho conosciuto la veneziana ho creduto che Silvio amasse
Maria, dopo quel giorno ho mutato parere. Forse nè l’una nè l’altra gli
conveniva intieramente, ma piuttosto la prima che la seconda; ed è
appunto per questo che la sposa, perchè l’uomo, o per meglio dire la
bestia, si attiene sempre al peggiore partito. In quanto all’asino
numero due, di merito assai inferiore al numero uno, è forse più
conveniente alla ragazza, per la semplicità delle idee e dei costumi;
entrambi sono privi d’istruzione, ma tutti due laboriosi; essa è più
intelligente, egli è più ricco di lei, con minori apparenze. Ci sono
dunque delle compensazioni delle quali si deve tener conto; e se Maria
fosse contenta, l’asino scelto per marito andrebbe alle stelle, tanto è
innamorato di lei, che mi pesa sullo stomaco da un pezzo, per le
continue dichiarazioni d’amore colle quali mi perseguita, mancandogli il
coraggio di farle direttamente, ed ostinandosi a voler prendermi per
mezzano, malgrado le mie continue ripulse. Signor maestro, io non sono
degno di quella ragazza, egli mi ripete con insistente cocciutaggine, ma
se mi prendesse farei il possibile per contentarla in tutto e per tutto,
e potrei dirmi l’uomo più felice del mondo.
La nonna fu incaricata di scandagliarla. Maria rispose subito colle
lagrime, e con un sdegnoso rifiuto. Si vedeva chiaramente che era
innamorata di Silvio, che non poteva consolarsi del suo abbandono, e che
la stessa notizia del matrimonio non era bastante a farglielo
dimenticare. L’amarezza del disinganno chiuso dentro di sè la soffocava;
piangendo in seno della nonna trovò qualche sollievo. Essa non
insistette, la accarezzò con vera affezione, l’aveva già abituata fino
dalla prima infanzia alla rassegnazione ed al coraggio. La confortò con
ogni maniera d’argomenti, e a poco a poco la persuase che il cugino era
irremissibilmente perduto per lei; lo zio Gervasio doveva recarsi a
Venezia fra qualche giorno per firmare il contratto di matrimonio di suo
figlio colla signora Metilde Ruggeri. Non bisognava pensarci più, per
dovere d’onestà, ed anche per dignità personale. «Chi non mi vuole non
mi merita, è un detto volgare, ma tu puoi dirlo con ragione, perchè sei
migliore di lui.»
Di tratto in tratto le diceva bene di Andrea, della sua semplicità, dei
suoi gusti modesti, del suo amore per le faccende rurali, della sua vita
onesta, perchè era un vero galantuomo. Eccitava il suo amor proprio
offeso dalla condotta di Silvio, le mostrava l’umiliazione di restare
donzella, condannata ad assistere alle feste che si sarebbero fatte agli
sposi. Quest’ultimo argomento parve che la colpisse più di tutti.

—Se acconsenti di sposare Andrea, conchiuse la nonna, il tuo matrimonio
potrà farsi prima dell’altro, e quando gli sposi di Venezia verranno qui
tu sarai già partita, e potrai restare assente per tutto il tempo che
essi si fermeranno in campagna. Tu avrai anche il vantaggio di non
lasciare il paese ove sei nata, di non abbandonare la tua povera nonna,
perchè saremo vicine di casa.
Dopo lunghe esitazioni, e persistenti ripugnanze, finalmente si lasciò
persuadere, e consentì di sposare Andrea, ma sempre piangendo, e ad una
condizione soltanto, cioè che il suo matrimonio si farebbe prima
dell’altro, e che per tutto quel tempo che Silvio e Metilde resterebbero
alla villa, essa sarebbe assente dal paese.
La nonna fu contenta, lo zio Gervasio fu soddisfatto, e Andrea
nell’entusiasmo; gli pareva proprio di toccare il cielo colle dita. Il
solo maestro Zecchini tentennava la testa, con evidente malcontento.
Avvezzi alle sue continue obbiezioni non furono sorpresi dei dubbi,
degli ostacoli, dei cavilli che avrebbe tirati fuori anche in questa
circostanza, e lo pregarono di spiegarsi francamente.
—Ecco quello che penso, egli rispose, questo è un matrimonio per
dispetto, è una vendetta di Maria, è una scappatoia che non potete
approvare senza pericoli. Non mi aspettavo un matrimonio d’amore, ma di
ragione; invece capisco che si apparecchia un precipizio. Chi può
prevedere le funeste conseguenze d’un’imprudenza? chi può assumerne la
responsabilità?...
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