La famiglia Bonifazio; racconto - 01

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LA FAMIGLIA
BONIFAZIO


RACCONTO
DI
ANTONIO CACCIANIGA


MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1886.

————

PROPRIETÀ LETTERARIA
_Riservati i diritti di traduzione._

Milano. Tip. Treves.

————


INDICE

· I.
· II.
· III.
· IV.
· V.
· VI.
· VII.
· VIII.
· IX.
· X.
· XI.
· XII.
· XIII.
· XIV.
· XV.
· XVI.
· XVII.
· XVIII.
· XIX.
· XX.

————


I.

Il capitano Bonifazio e il maestro Zecchini erano sempre insieme, ma non
andavano mai d’accordo. Il primo era un uomo d’azione e non da ciarle;
ligio alla disciplina militare si era abituato ad obbedire ciecamente;
il secondo avvezzo alla cattedra voleva sempre ragionare a diritto o a
torto, come faceva alla scuola. Egli la pretendeva a filosofo, e amava
la discussione; l’altro si schermiva girando la posizione con tattica;
come nelle evoluzioni militari.
Ogni giorno alla stessa ora andavano a fare la passeggiata per le strade
più remote e tortuose dei campi. Il capitano serio e silenzioso, il
maestro col sorriso sarcastico sulle labbra, coll’idea fissa nel
principio fondamentale d’una sua particolare filosofia, che soleva
riassumere in queste poche parole:—l’uomo è un asino. Egli difendeva
questa teoria a spada tratta ad ogni occasione, e colla storia alla
mano, cominciando a citare la condotta di Adamo nel paradiso terrestre,
e proseguendo coll’esame di tutte le vicende umane, dalla più remota
antichità fino ai nostri giorni.—Leggete la storia, egli ripeteva
sovente, non troverete che sommissioni di popoli intieri alle violenze
d’un solo individuo, o di pochi; non vedrete che guerre, stragi,
menzogne, utopie delle quali gli uomini furono vittime. I selvaggi hanno
un capo che li comanda; in tutte le antiche nazioni si trova la
schiavitù, questa degradazione dello stato umano; e perfino i popoli
moderni, i cittadini che si credono liberi, portano sulle spalle un tal
peso di obblighi e di tasse, che supera di gran lunga la soma del grano
portata dall’asino del mugnaio.
I potenti, i padroni, quelli che mettono il basto e la cavezza agli
altri, hanno mandato alla tortura la scienza, hanno arsa sul rogo la
ragione, hanno condannata al patibolo la giustizia e la verità. E quegli
stessi che si credono superiori e indipendenti dalle potenze della terra
sono schiavi delle loro passioni, sono vittime dell’amore e dell’odio,
dell’avidità o dell’orgoglio. L’uomo è un asino! nessuno eccettuato, e
non vi sarà mai possibile di provarmi il contrario.
Il capitano crollava le spalle, e gli rispondeva in francese:—_Mauvaise
plaisanterie!_... e poi traduceva:—Scherzi senza sugo! e rivolto al
maestro gli faceva le osservazioni seguenti:
—Voi avete sempre vissuto in questo villaggio, come un ragno nel buco;
io ho girato il mondo a tappe militari, ho vissuto nelle grandi
capitali, ho ammirato le meraviglie del genio umano, e la vostra assurda
teoria mi fa ridere di compassione.
—Voi mi parlate di eccezioni, le quali non fanno che confermare la
regola, gli rispondeva il maestro. L’uomo di genio è tanto raro quanto
l’uomo felice. Conoscete la storiella della camicia dell’uomo felice? Si
voleva trovare questa camicia, e pagarla a qualunque prezzo. Si andò a
cercarla in tutti i paesi della terra, la difficoltà pareva
insormontabile, quando finalmente si è trovato l’uomo felice.... ma era
senza camicia!...
—Voi uscite dall’argomento. Ritorniamo alla vostra assurda teoria. Io
non avrei che a snocciolarvi una lunga filza di genii per vedere se
avreste il coraggio di trattarli da asini; ma mi basterà citarvene uno
solo;—e così dicendo, il capitano Bonifazio si tolse la pipa dalla
bocca, si levò il cappello, alzò la testa, e sfolgorando il compagno
cogli occhi scintillanti, esclamò imperiosamente:—Ditemi se Napoleone il
grande fu un asino?...
Il maestro pareva esitante, il capitano alzò il bastone in atto di
minaccia, l’altro ebbe paura di quell’argomento perentorio e rispose in
fretta:
—È un’eccezione!... un’eccezione!
Il capitano si calmò, fecero qualche passo in silenzio, poi il maestro
tirandosi alquanto in disparte, soggiunse:
—Napoleone è un’eccezione!... tuttavia....
—Tuttavia?...
—Ma sì, tuttavia, dopo d’aver conquistata quasi intieramente l’Europa,
ha tutto perduto, ed è andato a morire prigioniero, sopra uno scoglio in
mezzo dell’oceano!
La bomba era slanciata, e andò a colpire la lingua del capitano che
restò morta sul colpo. Per salvare il resto dovette raccogliere tutte le
sue forze disperse, e quel giorno non parlarono più della teoria
prediletta del maestro.
Il capitano Bonifazio aveva militato sotto Napoleone, ed era uno dei
pochi reduci della catastrofe della Beresina. Testimonio dell’eroismo
degli Italiani nelle guerre del primo regno d’Italia non poteva
rassegnarsi alla dominazione austriaca, e viveva ritirato in campagna,
per non vedere i Tedeschi, ed anche per incontrare il meno che fosse
possibile i suoi compatriotti che disprezzava per la pecoraggine colla
quale subivano il giogo straniero.
Il maestro Zecchini era figlio d’un ricco signore, il quale dopo di aver
consumato quasi tutto l’avito censo, era morto lasciandolo povero, e con
una educazione incompleta, per cui fu costretto di fare il maestro
comunale per vivere. Dallo sfacello della sostanza paterna si era
salvata una fattoria, con pochi campi annessi, che divennero il
domicilio stabile del maestro, della cui modica rendita viveva, colla
giunta d’un misero stipendio.
Il capitano aveva ereditato dalla sua famiglia parecchie buone terre ed
una bella villa signorile, nello stesso villaggio del maestro, vicino a
Treviso, nella pianura lodata fino dai tempi antichi che ha per
orizzonte le cime nevose delle Alpi, e una verde cintura di colline
sparse di castelli, d’abazie a di villaggi.
Erano diventati entrambi agricoltori per forza; uno avrebbe preferito il
mestiere delle armi l’altro i piaceri della città, ma i casi della vita
li avevano costretti a rinunziare ai loro gusti e a ritirarsi in
campagna. L’amore dei campi venne più tardi, dopo la lunga consuetudine,
dopo le attrattive della natura e la necessità del lavoro. Il suolo
coltivato attira il coltivatore il quale vi si fissa, come l’albero
colle radici.
Il capitano visse i primi anni nella solitudine; dopo lo sbalordimento
delle guerre napoleoniche, dopo le prove ardimentose de’ suoi
commilitoni, dopo i gloriosi fatti d’armi che onorarono gl’Italiani in
varie parti d’Europa, egli si trovava sorpreso ed umiliato di dover
sopportare la dipendenza d’un popolo che giudicava inferiore, per meriti
militari e civili, ai suoi compatriotti; ridotti in schiavitù da
trattati diplomatici, non contratti da essi anzi contrari alla loro
volontà, e pur troppo tollerati, con colpevole indifferenza ed inerzia
nei momenti decisivi.
L’antica repubblica veneta degenerata nel lungo ozio e nella vita molle
e gaudente, aveva lasciato i caratteri fiacchi, e dopo le rapide prove
dei vari governi succeduti al suo dominio, i nobili e i preti
preferivano l’Austria: il grosso della popolazione restava indifferente,
mancava d’educazione politica e di energia. I pochi avanzi degli
eserciti napoleonici sentivano troppo tardi il dolore della patria
perduta, ed il bisogno dell’indipendenza nazionale.
Il governo austriaco entrato come liberatore, si era fissato
stabilmente, passando dalle promesse alle minaccie, perseguitando e
condannando come un delitto di Stato l’amore di patria, ispirato dalla
natura e dalla storia.
Agli ufficiali delle guerre europee, lasciati in disparte, non rimaneva
altro partito che quello di consolarsi della schiavitù colla memoria dei
fatti compiuti, e colla lontana speranza di ritornare in campo, a tempo
propizio.
Erano rari superstiti di grandi avventure, ma bastavano a tener viva la
scintilla del patriottismo, a spargere le idee, ad apparecchiare le
forze necessarie a rivendicare i diritti conculcati della patria. E
intanto raccontavano quella storia di rapide e meravigliose conquiste,
così precipitosamente perdute, e ne raccoglievano le immagini con
religiosa devozione.
Tutte le pareti della casa del capitano Bonifazio, erano ornate di
gloriosi ricordi. Statue, busti, ritratti di Napoleone, in tutti i
costumi, dal costume adamitico scolpito da Canova, fino a quello col
manto e la corona; ce n’erano a piedi, a cavallo, e sul trono. Ma la
preferita era la statuetta di gesso, colla semplice divisa dei
cacciatori della guardia, col piccolo cappello senza galloni, cogli
stivali alla scudiera, le braccia incrociate sul petto, in atto
d’osservazione.
C’erano grandi e piccoli quadri delle battaglie più gloriose.
Montenotte, Lodi, Arcole, Rivoli, Marengo, Cairo, Austerlitz, Jena,
Wagram, Moskowa.
C’era una camera coi ritratti dei generali francesi che ebbero titoli
italiani. Massena duca di Rivoli, Augeran duca di Castiglione, Victor
duca di Belluno, Moncey duca di Conegliano, Savary duca di Rovigo,
Mortier duca di Treviso.
Pochi ritratti di generali italiani, perchè molti erano entrati
nell’esercito austriaco.
In apposita stanza aveva raccolto le tremende memorie della Russia. Un
quadro rappresentava l’incendio di Mosca; un altro una marcia di feriti
sulla neve, inseguiti dai Cosacchi; nel terzo si vedeva la presa di
Malo-Jeroslawetz eseguita dalla divisione Pino, sostenuta dai cacciatori
della Guardia reale italiana. Il quarto era il passaggio della Beresina.
Fra le vedute c’erano i ritratti, dei generali che più si distinsero in
Russia, Davout, Murat, Ney, il principe Eugenio, e qualche altro.
Nelle lunghe ore delle giornate piovose, il capitano Bonifazio faceva il
giro delle stanze, si arrestava davanti ai suoi quadri, riviveva in quel
passato, e nelle rare volte che era costretto di recarsi a Treviso pe’
suoi affari, si fermava per le strade dove passavano i soldati
austriaci, e guardava con pietà quei poveri Croati negri e segaligni, e
le faccie bonarie dei Boemi, e alzava le spalle pensando che Massena con
50,000 Francesi non esitava ad attaccare 80,000 Austriaci, comandati
dall’arciduca Carlo, e li vinceva a Caldiero; e nutriva un fastidioso
disprezzo pei suoi concittadini, che non si accorgevano nemmeno di
appartenere ad una nazione eroica, nella quale gli pareva che un uomo
con uno spiedo avrebbe infilzato come tanti polli quattro o cinque di
quei poveri diavolacci, ma invece bastavano due uomini e un caporale per
scortare a Vienna i furgoni delle svanziche, colle quali gli Italiani
del regno Lombardo-Veneto pagavano all’Austria il diritto di possedere i
propri campi e le case dove erano nati.
E il capitano Bonifazio tornava alla sua villa fosco annuvolato, e guai
a chi gli capitava fra i piedi.
Per soddisfare, almeno in parte, a quel bisogno che sentiva di attività
e di lavoro, vangava e potava, piantava alberi e arbusti, vigneti e
frutteti, disegnava viali, sconvolgeva la terra, seminava, trapiantava e
mieteva.

A poco a poco si avvide d’aver fatto un parco magnifico, troppo
superiore alla sua modesta condizione, ma davanti allo stupendo
spettacolo della natura, dimenticava le umane miserie. E talvolta
combatteva la umiliante teorica del maestro Zecchini, per semplice
impulso della propria dignità; ma pensando al doloroso destino della
patria, non poteva in tutto dar torto al suo vicino di campagna, almeno
nel fondo dell’anima.
Allora diventava più indulgente pel povero maestro, sturava una
bottiglia di vino vecchio, e lo invitava a bere alla salute della
patria. Zecchini correva a chiudere l’uscio e le finestre, perchè
nessuno potesse udire la loro imprudenza. Il capitano si accorgeva della
paura del compagno, stralunava gli occhi, atteggiava tutti i suoi
lineamenti al più profondo disprezzo, ritornava bisbetico e dispettoso e
pensava fra sè: «tacere le proprie opinioni, nascondere come un delitto
i più naturali sentimenti, è una delle tristi necessità di chi è
costretto di vivere sotto il giogo» e tracannando in fretta il suo
bicchiere di vino, suonava il campanello.
Poco dopo compariva Mosè per fare la solita partita a terziglio col
padrone, e il vicino. Mosè fu uno degli ultimi coscritti di Napoleone,
aveva servito il capitano al reggimento, e continuava a servirlo
fedelmente dal tempo che deposte le armi, si erano ritirati in campagna.
Era il vero amico, e il più fido compagno del padrone, gli faceva da
segretario e da castaldo, da giardiniere e da cuoco. Passavano la sera
colle carte in mano per evitare le questioni estranee al giuoco; il
capitano diffidava del maestro, il maestro aveva paura del capitano; si
guardavano in cagnesco, e Mosè collocato fra loro rappresentava il
terreno neutro, e teneva in riguardo i due amici.... nemici.
Del resto non era possibile di indovinare il maestro Zecchini; nessuno
poteva dire con certezza se fosse buono o cattivo; nessuno aveva potuto
leggere nel fondo della sua anima. I furbi sono un prodotto della
schiavitù. Colle autorità superiori non mostrava che umiltà e riverenza,
cogli uomini indipendenti si lasciava sfuggire delle espressioni
liberali, col parroco era religioso, cogli increduli scettico, chi lo
diceva sciocco e chi sapiente: il fatto sta che non aveva mai fatto male
a nessuno, ed anzi in varie occasioni si era mostrato utile ai suoi
scolari e ai loro parenti, col consiglio e coll’opera.
Il capitano lo trovava nullo in politica, astuto in società, utile in
famiglia, pericoloso negli affari delicati, indispensabile per giocare
alle carte; e sapeva servirsene secondo i casi, perchè egli aveva una
tattica magistrale per utilizzare le varie attitudini, senza
compromettersi con nessuno.
Il maestro si prestava con premura a rendergli parecchi servigi, andava
a pagargli le prediali, lo rappresentava negli affari di ufficio,
chiamava alla Pretura gli affittuali che non pagavano il fitto, gli
faceva ottenere il passaporto quando ne aveva bisogno.
Ottenere il passaporto sotto il governo austriaco non era impresa troppo
facile. Nessuno aveva il diritto di viaggiare, nemmeno all’interno dello
Stato, senza che il governo ne conoscesse il motivo, e lo trovasse
plausibile. Per raggiungere l’intento giovava molto la prestazione d’un
amico che fosse in buona vista della polizia. In simili casi, e in varie
occasioni, l’amicizia di Zecchini riuscì utilissima al capitano, il
quale vivendo incognito, ed essendo rappresentato sovente da un
individuo giudicato come suddito sommesso e fedele, passava presso le
autorità per uomo inoffensivo, dal quale il governo nulla aveva a
temere.
E così il capitano Bonifazio congiurava senza pericoli, e senza
suscitare il minimo sospetto faceva parte d’una vendita di carbonari. La
sua corrispondenza politica non era mai affidata alla posta, e gli
arrivava sempre per mezzo di amici, o di messi speciali. Nel mese di
maggio del 1820 il capitano Bonifazio dovette recarsi in Polesine per
intelligenze con quei Carbonari, e poi a Milano per riferire ai capi
della setta lombarda. Domandò il passaporto pel regno Lombardo-Veneto
col pretesto di fare un viaggio agricolo, nel quale si proponeva lo
studio di alcune colture speciali, che facevano difetto nella provincia
di Treviso, come quelle del canape e dei prati a marcita. Il maestro
Zecchini fu chiamato alla Polizia per le necessarie informazioni. Egli
assicurò il commissario che il signor Bonifazio era un appassionato
agricoltore, che aveva già introdotto nella sua campagna delle
eccellenti migliorie, e che si disponeva a fare delle altre riforme, le
quali avrebbero senza dubbio aumentato il prodotto delle terre, e
servito di esempio ai vicini.
Il commissario assentiva col capo, e pensava: «migliorando le terre si
potranno accrescere le imposte! questo è un uomo utile all’Impero!» Poi
domandava conto del carattere, delle abitudini, delle relazioni del
petente; e il maestro rispondeva:
—È un po’ bisbetico, si occupa tutto il giorno della coltura dei campi,
del giardino, dell’orto; vive solo con un domestico, non riceve mai
nessuno, ha dell’ottimo vino, e fa un eccellente cucina; io solo come
vicino di campagna ho l’onore di frequentarlo, e di profittare de’ suoi
cortesi inviti.
«Chi mangia bene e beve meglio non fa l’umanitario, e non si occupa di
politica, pensava il commissario; un uomo civile che vive ritirato in
campagna non può essere che un misantropo.»
—Andate pure, egli disse al maestro, non occorre altro.
Il maestro curvò la schiena, che quasi toccava col naso lo scrittoio,
presentò all’impiegato superiore i più rispettosi ossequi, uscì dalla
stanza con ripetuti inchini, salutò gentilmente anche l’usciere, che
aveva un’aria da sbirro, poi scese le scale lentamente, col collo torto,
e un beato sorriso sulle labbra, pensando fra sè stesso: «l’uomo è un
asino, è un asino, è un asino!...»
E questo suo pensiero non proveniva dal benchè minimo sospetto sulle
intenzioni e la condotta del capitano, che anzi teneva per vero quanto
aveva asserito; ma vedendo che occorrevano tante cerimonie per ottenere
il permesso di circolare a proprie spese nel proprio paese, e che tali
cerimonie erano vane, perchè generalmente la polizia veniva ingannata
dalle domande, dai pretesti, e dalle informazioni, la sua teoria
prediletta gli tornava alla mente, e si compiaceva di poter dare
dell’asino al commissario nell’intimità del suo cuore.
Pochi giorni dopo, il capitano Bonifazio, col suo passaporto in piena
regola, partiva pel Polesine, visitava alcune fattorie rinomate,
procurando che l’I. R. Delegato Provinciale di Rovigo venisse a saperlo,
e poi senza che nessuno l’avesse visto entrava in una casa colonica,
nella campagna deserta, e s’intratteneva per un paio d’ore coi Carbonari
venuti apposta da Ferrara, per intendersi con lui sulle armi e le
munizioni da introdursi, per distruggere i governi dispotici, dare
all’Italia un governo costituzionale, o almeno unire in vincolo
federativo i varii governi italiani, tutti però aventi per basi
costituzione, libertà di stampa e di culto, parità di leggi, monete e
misure.
Predisposta accuratamente la prossima rivolta del Polesine, passava in
Lombardia, visitava i corsi d’acqua, i prati irrigatori e le marcite,
facendo parlare di lui come d’un veneto appassionato agricoltore; poi
scompariva per qualche ora, si abboccava coi patriotti malcontenti,
stringeva la mano ai Carbonari lombardi, comunicava le disposizioni
delle vendite del Veneto, e veniva informato degli accordi presi coi
fratelli del Piemonte.
Dopo quei ritrovi della setta, scriveva qualche lettera al maestro
Zecchini e la gettava alla posta colla certezza che sarebbe aperta dalla
Polizia la quale violava tutti i segreti. Egli si godeva a corbellare i
commissari e il governo, parlando di prati e di vacche svizzere, di
canape e di bachi da seta. Raccomandava all’amico le zucche e le patate,
e gli prometteva al ritorno le più utili informazioni sulla coltura
delle rape.
Dagli amici di Milano ebbe lettere di raccomandazione per qualche
coltivatore, e per qualche possidente austriacante della Brianza, sempre
collo scopo d’ingannare la vigilanza della polizia; e si recò a
visitarli, occupandosi di vigneti e di stalle, benedicendo i benefizii
della pace, che si godevano a merito del regime paterno dei buoni
Tedeschi. Prese alloggio in un grande albergo, assunse delle
informazioni che lo fecero conoscere per esperto agricoltore.
Poi lasciando gran parte del suo bagaglio all’albergo, e raccomandando
all’albergatore le sue preziose sementi di bietole, cavoli e carote,
annunziò una gita nei dintorni per visitare le colture, e partì solo e
pedestre, munito d’una semplice valigietta alla mano. Prese la direzione
opposta a quella che intendeva di seguire, e girando per certi viottoli
deserti, assicurandosi che nessuno lo vedeva, trovò la sua strada, che
lo condusse in un angolo romito delle colline, ove sorgeva una modesta
casa di campagna quasi nascosta dai tigli, dai platani, e dalle robinie.
Abitava in quella dimora un suo antico commilitone, un valoroso
colonnello degli eserciti napoleonici, un fiero soldato, un ardente
patriotta, che non aveva mai potuto comprendere come gl’Italiani si
fossero rassegnati a subire l’umiliazione d’un governo straniero.
Acerrimo nemico dell’Austria, egli congiurava come capo carbonaro contro
l’aborrito governo, ma sapeva operare con tale avvedutezza che non
comprometteva mai nessuno, apparecchiava le riunioni, dirigeva la
congiura con sommo accorgimento, e metteva tanta astuzia nel gabbare i
sospetti del governo, nello sviare le ricerche della polizia,
nell’abbindolare le commissioni speciali, che il suo grande maestro, il
generale Napoleone, non avrebbe impiegata tanta avvedutezza
nell’apparecchiare il piano d’una battaglia.
Odone Palanzo era un antico cospiratore, ancora giovinetto si era acceso
di entusiasmo al primo raggio della nascente libertà. La portentosa
discesa del San Bernardo, compiuta dall’esercito francese condotto dal
generale Buonaparte, la sua improvvisa comparsa in Italia, la battaglia
di Marengo che liberava il Piemonte e la Lombardia dagli Austriaci,
esaltarono lo spirito liberale del giovane italiano, il quale detestava
il regime debilitante del governo straniero che conservava sotto il
giogo una popolazione rassegnata, e non curante della sua sorte nè
dell’onore del paese.
Egli non rifiniva di ammirare e celebrare l’eroica difesa di Genova, il
carattere e le prodezze dei vincitori dei Tedeschi, l’impassibilità di
Massena durante l’assedio, la fermezza di Lannes sul campo di battaglia,
la carica di cavalleria di Kellermann, la risoluzione fortunata di
Desaix. E quando tre giorni dopo di quella famosa battaglia Buonaparte
entrava in Milano sul far della sera, il giovane lombardo si trovava fra
quella folla plaudente che gettava fiori nella carrozza del primo
Console, che procedeva lentamente nelle strade accalcate e illuminate a
giorno.
Allora si arruolò come semplice soldato, quantunque avesse moglie e una
bambina, fece il giro d’Europa, guadagnò i suoi gradi ad uno ad uno, da
caporale a colonnello, fu ferito in varie battaglie, e non depose le
armi che dopo l’ultima campagna di Russia, dove ridotto all’estrema
miseria, lacero, esausto dalla fame, e quasi cieco, sarebbe morto sulla
neve se non avesse incontrato il capitano Bonifazio che lo sostenne, lo
guidò, lo nutrì di crusca bollita e di carne di cavallo; e attraverso a
mille pericoli poterono entrambi ripassare la Beresina, dopo le più
strane venture. Giunti in Polonia come due fantasmi da far paura a
vederli, fecero una lunga dimora negli ospitali, fino che ristabiliti in
salute, ritornarono a Parigi, e ripresero servigio fino alla caduta di
Napoleone.
Rimandati in patria, il capitano Bonifazio accompagnò l’amico alla
casetta di Brianza, dove il colonnello lo presentò alla famiglia come il
suo salvatore.
La moglie era un’ottima donna; e la figlia Maddalena, una bella ragazza,
con due grandi occhi che ne rivelavano la bontà, era stata allevata
dalla madre alle cure domestiche e rurali. Entrambe vivevano
modestamente colle rendite di alcune terre che stavano intorno
all’abitazione. Vedevano poca gente, e assai di rado il loro capo di
casa, il quale di tratto in tratto compariva all’improvviso, si fermava
alquanti giorni, e spariva. Scriveva poche lettere e laconiche, sempre
da nuovi paesi, da varie parti d’Europa. Il colonnello aveva un fratello
più giovane, che si fece parimenti soldato, e questi alla caduta di
Napoleone prese servizio nel piccolo esercito piemontese.
Quando furono di ritorno dalla Francia invasa dagli stranieri di varie
regioni, il colonnello volle che il capitano si riposasse alcuni giorni
nella sua casa, dove si godeva una pace serena, in quel paradiso della
Brianza. Quel silenzio, quella solitudine sotto gli alberi, producevano
l’effetto d’un delizioso calmante negli animi ardenti di quei soldati
avezzi a tanti frastuoni e a tante stragi. A poco a poco il loro spirito
esaltato dalle lotte si raddolciva, il loro sangue rallentava il suo
corso, il loro cuore si apriva a nuove aspirazioni verso la tranquilla
felicità della pace domestica. Finalmente il colonnello sentiva il
bisogno di riposo, in quel nido fortunato, fra il sorriso sereno d’una
buona moglie, e la fiorente gioventù d’una diletta figliuola.
Il capitano Bonifazio che aveva perduto tutti i suoi parenti, si
arrestava ben volentieri in quel ridente soggiorno, prima di rientrare
nella solitudine e nell’isolamento che lo attendevano nella sua casa
deserta.
Gli occhi profondi di Maddalena lo colpivano vivamente, la sua voce gli
penetrava nell’animo, i suoi lineamenti gli lasciavano nel cuore una
indelebile impressione, ma egli non osava guardarla che di soppiatto,
quando era sicuro di non esser veduto da lei; quella soave fanciulla gli
pareva cosa divina, e si giudicava troppo ruvido soldato per credersi
degno di meritare il suo affetto.
I due commilitoni passavano alcune ore seduti sopra un banco rustico del
giardino, colla pipa in bocca, rammentando le loro geste, e quando
passava Maddalena, Bonifazio si alzava in piedi, ritirava in fretta la
pipa, e faceva il saluto militare come davanti un generale.
Alla sera quando si ritirava nella sua camera, invece di andare a letto
a dormire si sdraiava sul canapè, pensava lungamente alla Maddalena, ne
faceva il paragone colle altre donne che aveva incontrate nei vari stati
d’Europa, e la trovava più bella, più interessante e più adorabile di
tutte. Era stato piuttosto libertino, intraprendente, audacissimo col
bel sesso, e poteva vantarsi di ardite conquiste tanto sui campi di
battaglia che nelle alcove; ma quelle erano donne, e questa era un
angelo, ed egli si trovava ospite da un amico, del quale gli era sacra
ogni cosa, e più di tutto la famiglia.
Così passavano i giorni, e Bonifazio si lasciava vivere in pace, in una
specie di allucinazione, e di ebbrezza felice, e chi sa quando avrebbe
pensato di andarsene allorchè la lettera d’un avvocato di Treviso lo
chiamò al suo paese per affari urgenti.
Il colonnello non voleva lasciarlo partire, le signore lo pregavano di
non abbandonarle, e gli parve perfino di scorgere una lagrima che
brillava come un diamante nei grandi occhi di Maddalena; ma la lettera
era pressante, e poi sentiva anche il bisogno di fuggire da quell’amore
soffocato che quasi quasi gli pareva un insulto alla casa dell’ospite e
dell’amico; e partì.
L’ultima parola del colonnello fu questa:—Siamo intesi, _facite judicium
et justitiam_.... e l’altro rispose:
—_Pubblice felicitatis incrementum_....
Erano parole del diploma guelfo dei Carbonari.
Pochi giorni prima si erano abboccati coi fratelli della setta, in un
sito deserto, e avevano giurato nuovamente di liberare la patria dal
giogo straniero, o di morire.
Nel viaggio di ritorno si arrestò a Brescia, Verona, Vicenza, Padova;
fece una scappata a Rovigo e a Venezia, e in tutte queste provincie
s’incontrava coi federati, faceva dei proseliti, formava nuovi centri
carbonari, allargava le diramazioni nei principali villaggi, e stringeva
i nodi d’un’ampia rete che doveva serrare nelle sue maglie l’aquila a
due teste.
Poi rientrò tranquillamente nella casa paterna, solo e disarmato, ma
profondamente convinto che presto o tardi ma di certo, l’Italia sarebbe
unita, libera e indipendente.


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