La famiglia Bonifazio; racconto - 11

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Papà Gervasio che aveva approvato il piano di sua madre, diede ragione
anche al maestro che diceva tutto il contrario. La nonna si mise in
pensiero, e restò esitante. Si esaminò nuovamente la condizione delle
cose, si discusse a lungo senza intendersi; poi si risolse di ritardare
ogni decisione assoluta, per pensarci meglio, per osservare, vedere,
considerare, riflettere, e apparecchiare uno scioglimento plausibile al
caso delicato.
Intanto Andrea avvertito dal maestro degli ostacoli che si opponevano
alla sua felicità, si raccomandava caldamente a tutti perchè non
esitassero ad accettare l’assenso della ragazza, che avrebbe deciso
della sua vita, che oramai gli pareva impossibile senza di lei,
prometteva di fare dei miracoli per rendersi degno della sua fortuna, e
gettava fiamme dagli occhi, manifestando sentimenti di assoluta
sommissione e di devota riconoscenza.

—Ah! l’amore rende eloquenti anche gli asini, osservava il maestro
Zecchini; l’amore sarebbe la più bella cosa del mondo... se non
conducesse al matrimonio!...
—Sono discorsi da vecchio celibe, gli rispondeva la signora Maddalena,
voi non avete diritto di parlare di matrimonio, perchè non lo avete
provato....
—Ma ho provato l’amore!... esclamava il maestro, guardando in modo
singolare la vecchietta rubizza, mentre una scintilla fugace gli
brillava negli occhi resi opachi e cisposi dagli anni; tutte le rughe
del volto gli si animavano con contrazioni spasmodiche; alzava le
braccia in atto di disperazione, e poi le lasciava cadere d’un tratto,
come i pali del telegrafo rotti da un colpo di vento.
La nonna rideva con malizia, e gli diceva:
—Gli uomini sono matti, perfino nell’età del giudizio....
—No, sono asini fino all’estremo sospiro, gridava il maestro.
—E anche questo può darsi, essa conchiudeva... lo avete tanto ripetuto,
che me ne sono quasi convinta.
Poi i tre vecchi si raccolsero intorno al tavolo rotondo del salotto,
come i diplomatici a congresso, per discutere un arduo problema, assai
più scabroso di molti affari di Stato, l’eterna questione dell’amore e
del matrimonio.
—Dobbiamo permettere il matrimonio di Maria con Andrea, o sarà meglio
mandarlo a monte?... Essa non ama il futuro marito, eppure acconsente a
prenderlo; esso è cieco d’amore e accetta il sacrifizio, ad ogni costo!
Quali saranno le conseguenze d’una tale combinazione?
—Maria è semplice ed onesta, rispondeva la nonna, il dovere sarà la sua
guida, l’amore verrà col tempo.
—E se non venisse mai? domandava il maestro, che cosa succederà?
—Ma!... che cosa succederà? ripeteva Gervasio.
—Se andassero a vivere in città, osservava la nonna, in mezzo a tutte le
seduzioni e ai pericoli del mondo, bisognerebbe pensarci seriamente, ma
nella semplicità della vita campagnuola, colle abitudini massaie di
Maria, non c’è pericolo che succedano di quelle tragedie che fanno
rabbrividire gli spettatori in teatro!...
—Possono succedere delle commedie, disse il maestro, che facciano ridere
il pubblico a spese degli attori.
—Nelle mie lunghe notti insonni, continuò la nonna, ho pensato
lungamente a tutte queste difficoltà, che ci amareggiano la vita, e non
ho trovato altro termine possibile, che un matrimonio di ragione, che
metta Maria in uno stato conveniente alla sua condizione, ed alle sue
qualità; che le assicuri un’esistenza tranquilla ed agiata, e che ce la
conservi vicina. Se voi avete trovato un migliore espediente, tanto
meglio; mettetelo fuori, e vedremo.
Gervasio dichiarò che non trovava nulla meglio del matrimonio
progettato, e fissando gli occhi sul maestro, aspettava il responso
dell’oracolo.
Il maestro, dopo le opposizioni, le difficoltà, i cavilli messi in
campo, non seppe formulare una proposta lodevole, nè trovare uno
scioglimento che fosse più plausibile del matrimonio, e confessando la
sua impotenza, conchiuse: che a questo mondo si fanno quasi sempre delle
cose mediocri, perchè non se ne trovano di migliori, e che talvolta i
risultati riescono contrari alle previsioni, che vi sono dei matrimoni
bene assortiti che finiscono male, e dei connubi improvvisati, senza
probabilità di buona riuscita, che diventano... non dirò buoni, ma
tollerabili.
E in tal maniera finiscono sovente molte ciarle delle pubbliche
assemblee, e dei congressi diplomatici, cioè l’impotenza di ottenere la
perfezione costringe per necessità ad accettare un partito qualunque,
messo in campo dalle circostanze imprescrittibili della vita.
Così venne risolto anche in quel consiglio di famiglia.
Il consenso dei parenti fu annunziato agli sposi; Andrea lo accolse con
un delirio d’amore, Maria con modesta bontà, che poteva sembrare anche
rassegnazione, se coloro che avevano combinato quel matrimonio non
avessero veduto più facilmente ciò che speravano di quello che era in
realtà.
In casa Pigna diedero subito mano agli apparecchi delle prossime nozze,
i quali furono assai più semplici di quelli di Venezia. Due mani d’acqua
di calce tanto alla stanza nuziale che alla cucina, si fecero
scardassare i materassi dell’immenso letto di matrimonio della famiglia,
riempiere di cartocci nuovi il saccone, rinnovare le penne della
coltrice, mettere due cortine bianche di cambrich ai balconi della
camera degli sposi, lustrare a nuovo i mobili, lavare i pavimenti e le
scale, ordinare la batteria di cucina, stagnare i rami e fregarli a
fondo, strofinare gli alari, la catena, la paletta, le molle; infatti un
bucato universale, un ripulimento memorabile, da poterlo citare
all’occasione, dicendo per esempio: quel mobile è stato ripulito
all’epoca del matrimonio di Andrea.

La polvere e le macchie dimenticate da una intiera generazione sparivano
davanti il rinnovamento della famiglia che doveva inaugurarsi colla più
scrupolosa nettezza.
In quanto alla partenza degli sposi nel giorno delle nozze era
disapprovata da tutti i parenti Pigna e del vicinato. Una cosa simile
non si era mai vista. Da padre in figlio tutti avevano celebrato il
giorno delle nozze con un banchetto ed un ballo, restando al proprio
villaggio, dove il corteggio accompagna la sposa alla casa nuziale. E
questa volta criticavano Andrea di cambiare le vecchie abitudini rurali,
perchè sposava una signora. Ma Maria aveva delle amiche che prendevano
la sua difesa, e facevano osservare alle pettegole malcontente e ai
ciarloni invidiosi, che se il viaggio di nozze non era un uso in casa
Pigna, era una vecchia abitudine in casa Bonifazio, e che una sposa come
Maria aveva diritto a dei riguardi.
Più tardi si venne a sapere che gli sposi non sarebbero andati
girovagando per gli alberghi, come si usa adesso con poca poesia, ma che
si recavano direttamente in Brianza dal cugino Alessandro, nella
famiglia della nonna, ove erano stati invitati; e tale determinazione fu
generalmente applaudita. E infatti era vero; quando ricevettero in
Brianza l’annunzio del prossimo matrimonio di Maria, i gentili cugini
offersero subito la loro casa agli sposi, domandando come un favore che
volessero passarvi i primi giorni delle nozze.
Questa cortese esibizione parve alla nonna un benefizio della
provvidenza, comunicò subito l’invito agli sposi, che venne accolto con
piacere, e così veniva a togliersi ogni attrito disgustoso fra i due
matrimoni che dovevano succedersi a pochi giorni di distanza.
La povera nonna aveva le lagrime agli occhi quando pensava che la sua
diletta Maria sarebbe andata ad abitare per qualche giorno in quella
casa così piena di memorie per lei, ove era nata, e aveva passata
l’infanzia e la prima gioventù, e narrava alla nipote la bellezza di
quei siti, il pittoresco delle colline e dei laghi, le delizie delle
prospettive e dei giardini, la pace e la solitudine di quella casetta
romita, quasi nascosta sotto gli alberi. Le raccomandava di visitare le
posizioni più ridenti, e di renderle conto delle sue impressioni. Ed era
felice che Maria passasse quei giorni di vita nuova dove essa aveva
conosciuto ed amato il capitano, e le raccontava la modestia di quel
soldato, la timidezza di colui che non aveva paura dei nemici armati,
dei Tedeschi e dei Cosacchi, e che non osava parlare ad una ragazza. E
le descriveva i due nonni come se fossero ancora vivi, e anche giovani,
perchè Maria ne aveva conosciuto uno solo, ed anche vecchio, quando essa
era bambina.
Ma quelli erano tempi terribili e pericolosi, le congiure dei Carbonari
avevano ritardato il loro matrimonio; tanto suo padre che il fidanzato
dovevano tenersi pronti a fuggire in caso di pericolo, per salvarsi
dalla prigione e dalla forca.
Andrea si andava civilizzando, si faceva vestire a Treviso da un sarto
migliore di quello del villaggio, aveva imparato a pettinarsi, si
metteva la cravatta con qualche attenzione, e pareva quasi un giovinotto
della città.
Il maestro gli dava qualche buon libro, e gli diceva:
—Per non parere un asino non basta cambiar la pelle, bisogna anche
camminare con due gambe. L’uomo sta ritto perchè alza la testa; impara
da Argo a stare in piedi e a farti amare da Maria; Argo è pieno di
cortesie per la sua amica, e sa meritarsi la sua affezione. Cerca
d’istruirti se non vuoi far ridere la gente quando apri la bocca. Se non
impari qualche cosa farai una pessima figura nella famiglia di Brianza.
Tuo nonno era un ubbriacone, ma pieno di buon senso; tuo padre sa fare
il suo interesse, ma è un galantuomo; tu sei un bestione, ed hai bisogno
di nascondere quella ruvida scorza che ti rende scabroso.
Andrea non se ne aveva a male; conosceva le maniere del maestro,
rispettava la sua vecchiaia, e non avrebbe mai osato di contraddire
colui che aveva mostrato di proteggerlo, e gli dava dei buoni consigli.



XIV.

In quei giorni papà Gervasio fu invitato a recarsi a Venezia per la
firma del contratto di matrimonio di Silvio, e partì subito insieme al
maestro Zecchini, che ambì l’onore di servire da testimonio, e furono
accolti con ogni cortesia dalla famiglia Ruggeri.
L’avvocato annunziò la determinazione che aveva presa di conservare
Silvio nel suo studio, come socio cointeressato in qualche parte degli
affari. E questa era una rendita assicurata che rappresentava la dote.
Alla morte dei genitori, Metilde figlia unica, restava la sola erede di
tutta la loro sostanza. Per ora non potevano dare di più, per non
privarsi delle loro abitudini; avevano però provveduto un ricco corredo
che avrebbe reso inutile ogni altra spesa per molti anni. In
corrispondenza di questi vantaggi, il futuro sposo prometteva un congruo
assegnamento alla moglie, in caso di bisogno. Papà Gervasio e il maestro
Zecchini restarono con un palmo di naso. Questo contratto era un vero
disinganno, perchè in effetto la sposa non portava in dote che un
corredo, il quale costituisce una pretesa proporzionale alla sua
importanza. L’utile dello studio, limitato ad alcuni affari soltanto,
non rappresentava altro che la giusta retribuzione al lavoro del marito.
In quanto alla futura eredità essa poteva avverarsi a benefizio dei
discendenti, in un tempo assai remoto, ed anche ridursi a nulla.
Ma la domanda era stata fatta senza condizioni, tutte le apparenze
lasciavano supporre una bella dote; si erano ingannati, ma la
delicatezza e la dignità non permettevano osservazioni, e il contratto
fu firmato in silenzio, dagli sposi, dai genitori e dai testimoni con
tutta la solennità d’un atto gravissimo che decide la sorte d’una
famiglia.
I Bonifazio e Zecchini, dopo i convenevoli complimenti fra gli sposi e i
congiunti, uscirono dallo studio in mezzo alle profonde riverenze dei
commessi e degli scritturali che spalancavano le porte, e si
allontanarono gravemente dalla casa, camminando silenziosi e pieni di
dignità, perchè si sentivano osservati; ma appena svoltato l’angolo
della strada e fatti pochi passi in sito sicuro, si fermarono tutti tre
nello stesso momento, guardarono d’intorno se nessuno li ascoltava, e
fissandosi in volto cogli occhi spalancati, ciascheduno espresse in
poche parole le sue impressioni:
—Rimango trasecolato! esclamò papà Gervasio.
—Quale insigne asinità! disse Zecchini.
—È stata una solenne corbellatura! conchiuse Silvio.
Il maestro pareva esitante fra l’afflizione di vedere gli amici delusi,
e la soddisfazione per il nuovo trionfo della sua teoria. Il padre
accusava il figlio di soverchia leggerezza, e il figlio tentava di
giustificarsi col lusso della famiglia Ruggeri.
—Il lusso non è sempre prova di ricchezza, gli rispondeva il padre, può
essere anche effetto di ambizione, di disordine, di sregolatezza.
—Fumo negli occhi, soggiungeva il maestro, per abbagliare i babbei.
Alle sei in punto, ci fu gran pranzo di famiglia in casa Ruggeri, ed
alla sera un pomposo ricevimento per festeggiare i promessi sposi.
Poteva dirsi una vera festa mascherata, perchè ciascuno s’era formato
una fisonomia apposta per dissimulare i propri pensieri. L’avvocato
affettava la più ingenua bonarietà, la signora Emilia rappresentava
perfettamente la tenerezza materna in lotta fra la consolazione per il
collocamento della figlia, e il dolore di perderla. Papà Gervasio
simulava il volto dell’uomo completamente soddisfatto, sorridente,
contento della sua sorte; il maestro Zecchini li guardava tutti
sott’occhio, e sentiva in fondo della coscienza di essere il più
grand’uomo di quella società, il più profondo, il più giusto, il più
sincero di tutti.
Silvio fissava gli occhi negli occhi di Metilde, la vedeva bella come un
angelo, e pensava che se la dote era svanita come il fumo, gli restava
l’arrosto.
Ci furono brindisi agli sposi e ai parenti, e allegria costante, che
proprio non pareva un banchetto di corbellatori corbellati. Eppure era
così; la sposa creduta ricca era senza dote; lo sposo creduto un gran
signore, aveva una piccola sostanza coperta di debiti.
In quello stesso giorno venne fissata l’epoca precisa del matrimonio, e
al mattino seguente papà Gervasio e il maestro Zecchini ritornavano a
casa a comunicare alla signora Maddalena le varie impressioni ricevute
nella famiglia Ruggeri, prendendo poi il savio partito di dissimulare
con dignità l’amara sorpresa, e di rassegnarsi al destino.
I due matrimoni vennero celebrati al tempo stabilito. Prima quello di
Maria con Andrea, che partirono subito per la Brianza; e pochi giorni
dopo quello di Metilde con Silvio, che si recarono in Isvizzera a fare
il loro viaggio di nozze.
Dopo d’aver vagato per monti e per valli, ritornarono contenti del loro
pellegrinaggio, e come avevano promesso si ritirarono alla villa
Bonifazio, per vivere qualche giorno tranquilli in famiglia, prima di
stabilirsi a Venezia.
Papà Gervasio e la nonna ebbero le più delicate attenzioni per la sposa,
Silvio la faceva passeggiare pel parco, e la conduceva a visitare le
case coloniche e i campi. Egli si fermava davanti gli spazii aperti del
giardino, le mostrava le Alpi lontane, il bosco Montello, e quella linea
oscura sul monte di Serravalle con alcune macchie d’intorno che indicano
la foresta del Cansiglio. Essa guardava sbadatamente come suo padre, e
tirava avanti. La nonna la consigliava a uscire di buon mattino per
respirare l’aria salubre del Piave; ma essa non voleva bagnarsi gli
stivalini alla guazza; le dispiacevano le stradicciuole rurali perchè i
sassi le ammaccavano i piedi, e nelle strade più battute c’era troppa
polvere e si sporcava l’abito. Detestava l’odore delle stalle, e il fumo
delle cucine dei contadini. Era dunque un po’ difficile di passare le
giornate, che le riuscivano lunghe. Leggeva qualche pagina sbadigliando,
si doleva di non avere il pianoforte, e trovava la campagna monotona.
Quando passeggiava sotto il portico delle adiacenze, Falcone nitriva
invano per chiederle il pane che Maria gli portava sempre, e che gli
mancava. Non voleva essere seguita da Argo, perchè quel grosso cagnaccio
le faceva paura, e la povera bestia andava in giro colle orecchie
penzoloni e la coda bassa, cercando invano la sua amica lontana;
mangiava poco, con segni evidenti di profonda malinconia, non andava a
coricarsi che sul tappeto davanti al tavolino di lavoro, dove Maria
appoggiava i piedi, e guardava attorno cogli occhi tristi, interrogando
alla sua maniera la gente di casa.
Anche i colombi svolazzavano inquieti per la corte, cercando colei che
mancava. Il solo Mumut continuava impassibile nelle sue abitudini,
andava alla caccia dei sorci nel fienile e sui tetti, aspettava
immobile, delle ore intiere, davanti il monticello d’una talpa, per
spiare un movimento della terra e dare l’assalto alla tana; alla sera si
arrampicava sugli alberi per abbrancare qualche povero uccelletto che
andava a dormire, e all’ora della colazione e del pranzo non mancava mai
dal balcone della cucina dove la nonna gli portava i residui della
mensa.

Silvio cercava invano di distrarre la sua sposa, conducendola in
carrozza sulle rive del Sile o della Piave; essa preferiva recarsi a
Treviso per mettere in mostra i cappellini e i vestiti, e fare invidia
alle provinciali colla sua eleganza. Nei giorni piovosi trovava la
campagna insopportabile, e non poteva comprendere come si potesse
restarvi l’inverno senza morire di noia. Il tedio della solitudine la
rendeva acre e mordace; si burlava collo sposo della dabbenaggine dei
contadini, della goffaggine degli amici di casa, canzonava la semplicità
dei Pigna, e non poteva soffrire le sentenze del maestro Zecchini.
Silvio procurava di abbonirla, la pregava di non farsi sentire da suo
padre e dalla nonna, lasciando che quei poveri vecchi conservassero le
loro illusioni: la avvertiva che Pasquale aveva il difetto di ascoltare
dietro gli usci, e la supplicava d’esser prudente.
Essa non si consolava della solitudine della campagna che parlando di
Venezia, e pensando ai piaceri che la aspettavano, ed alla libertà che
avrebbe goduta nella sua nuova condizione di donna maritata.
La nonna osservava, indovinava, taceva, e cercava di dissimulare la
tristezza che provava per la lontananza di Maria, la quale aveva
lasciato in casa un gran vuoto, che non trovava compensi cogli altri
sposi.
Le lettere di Brianza erano le sole consolazioni che la facessero
pazientare. Maria si trovava benissimo coi cugini; Alessandro conduceva
Andrea alla caccia, l’Enrichetta si accordava perfettamente coi gusti di
Maria. Fecero delle gite a Milano e sul Lago di Como, e passavano in
casa dei giorni lieti, apparecchiando dei buoni piatti ai cacciatori che
ritornavano stanchi ed affamati. Qualche volta andavano tutti insieme a
fare delle escursioni mattutine sui colli, apportando delle provvigioni
per far colazione sull’erba, in qualche sito pittoresco, ove
meriggiavano in pace sotto gli alberi.
Enrichetta aveva una bella collezione di conigli, tenuti in gabbie di
ferro, coi migliori sistemi d’allevamento. Maria se ne invaghì, gliene
promisero parecchie coppie a sua scelta, le insegnarono le cure
necessarie alla buona riuscita. Essa andava spesso a visitarli, carica
d’erbe, di foglie di cavolo e di carote; adorava i piccini, non poteva
risolversi a quali dovesse dare la preferenza. Il più bello di tutti le
pareva il coniglio d’Angora, pel candore del lungo pelo, simile a quello
dei cagnolini maltesi, cogli occhi rossi come bragie, affabilissimo,
affettuoso coi figli, che appena nati parevano tante pallottole di penne
di cigno. Il cenerino di Fiandra, con quel pelo _petit gris_ era una
meraviglia, pareva un bel manicotto da signora; ma anche l’argentino era
stupendo, un pelo nero di lavagna colla punta bianca! e quello di
Normandia? e l’enorme Ariete con quelle orecchione lunghe? veri
portenti!...
—Te ne daremo quanti ne vuoi, le dicevano i buoni cugini, e colle
relative cassette pel trasporto in ferrovia, e oltre il piacere che
avrai, sarai anche benemerita della classe rurale, introducendo nel tuo
villaggio l’allevamento di questi animali che sono un cibo eccellente, e
danno una buona rendita per la vendita delle pelli.
Maria batteva le mani come una bambina, gettava uno sguardo
interrogativo su Andrea, temendo che facesse opposizione, o trovasse
qualche ostacolo; ma egli che l’adorava non aveva altro intento che
quello di contentarla in tutto, e vederla felice, e avrebbe portato i
conigli sulle spalle per farle piacere. Egli era beato, mangiava per
quattro, e il capitano gli riempiva continuamente il bicchiere d’un
certo vinetto frizzante di Montevecchia che sdrucciolava giù per la gola
con una facilità sorprendente.

Al dopo pranzo le donne lavoravano all’uncinetto, Andrea si gettava in
una poltrona, e si addormentava immediatamente d’un sonno profondo.
Quando russava troppo forte, Maria lo urtava col piede, ma invano allora
si alzava per far rumore, gli dava delle scosse, e accusava il cugino di
farlo bere un po’ troppo. Alessandro la pregava che lo lasciasse dormire
in santa pace, e si metteva a fumare, raccontando alle due donne certi
aneddoti del bisnonno di Maria che la interessavano assai e provavano la
ferrea tempra del colonnello.
Quell’uomo coraggioso sapeva dirigere con suprema destrezza le più
pericolose macchinazioni dei Carbonari; la polizia sentiva una mano
potente che la stringeva da ogni parte, ma non poteva afferrarla. Seduto
nella vecchia poltrona di cordovano, colla sua pipa di schiuma in bocca,
in veste da camera e in pantofole, egli studiava il modo di far
traballare il trono dell’imperatore, e ci riusciva, senza perdere la
testa nè la libertà. Era audace, ma scaltro; la polizia, e le
commissioni speciali si dibattevano nelle reti che egli aveva tese,
facevano qualche vittima che non sapeva schivarsi, ma il caporione
sfuggiva sempre ai loro conati, ed alla loro rabbia che si sfogava colle
barbare condanne degli innocenti.

La nonna scriveva lettere sopra lettere per sollecitare il ritorno della
sua Maria, e al fine fu necessario di compiacerla, fissando il giorno
della partenza, e dandole avviso dell’arrivo.
Quando giunse a villa Bonifazio questa notizia, Silvio ne fu fortemente
colpito. Egli non si sentiva ancora abbastanza forte da affrontare la
cugina, per la quale gli restava nel profondo del cuore come un ricordo
di gioventù pieno di tenerezza.
Annunziò a Metilde il suo desiderio di ritornare a Venezia, parendogli
che fosse tempo di prender possesso del loro appartamento, e di
riprendere le abitudini di lavoro e di studio. Metilde non domandava
meglio, accolse il desiderio del marito colla più sincera soddisfazione,
quella vita di campagna le pareva davvero insopportabile, ma pel dovuto
riguardo allo sposo ed ai parenti, non diceva la metà del male che ne
pensava, e si studiava di dissimulare l’immenso tedio che la opprimeva.
Quando fu sicura d’andarsene, le parve più facile di manifestare il
dispiacere di lasciare i parenti del marito, così buoni per lei, e non
mancò di mostrarsi afflitta di lasciare la villa, e vivamente
riconoscente di tante cortesie ricevute.
Partirono due giorni prima dell’arrivo degli altri sposi, e furono
accolti alla stazione di Venezia dai Ruggeri che erano andati ad
aspettarli per condurseli a pranzo in casa, dove trovarono una ragazza,
pronta a servirli, che li attendeva, provveduta a tempo dalla signora
Emilia, la quale l’aveva già messa alla prova, ed istruita sulla
condotta che doveva tenere.
La Betta era piaciuta alla signora Emilia pel suo aspetto di cameriera
che faceva buona figura. Sapeva cucire e stirare la biancheria, e si
adattava anche ad ogni più basso servizio.
—E per la cucina? domandò Silvio.
—Oh Dio, rispose la suocera, sulla cucina non è troppo esperta ma per
mettere un pezzo di manzo in una pentola con dell’acqua e del sale tutti
sanno farlo, e una minestra di riso non domanda studio. Col tempo e la
pazienza potrà imparare anche il resto....
—Il resto!? pensò Silvio fra sè, il resto in questo caso vuol dir tutto.
—Capisco che non sa niente, ma al peggiore dei casi la metteremo alla
porta, e ne prenderemo un’altra.
Dopo pranzo mandarono la Betta ad aprire l’appartamento e ad aspettare i
padroni. Più tardi la signora Emilia volle accompagnarli, per far vedere
tutto quello che aveva operato per mettere in assetto ogni stanza con
perfetto buon gusto.
E infatti trovarono tutto in buon ordine. Dall’anticamera si entrava in
una sala destinata alla conversazione, con belle tappezzerie e specchi
alle pareti, e tappeto sul pavimento. Tutti gli arredi erano di perfetto
buon gusto. Il pianoforte occupava il posto opportuno, il canapè, i
divani, le seggiole formavano un semicerchio che aveva nel centro un
tavolo elegante, con vasi di fiori, album, e strenne. Agli angoli
stavano dei tavolini da giuoco, e degli scaffali da collocarvi degli
oggetti d’arte.
Seguivano due belle camere da letto, una per gli sposi, l’altra pei
parenti e gli ospiti. Un salottino per Metilde, un gabinetto di studio
per Silvio, una bella stanza da pranzo presso alla cucina, e poi degli
altri locali per la domestica, e per sbarazzare la casa. Le famose
tendine erano state collocate nella sala di ricevimento e nello studio;
la camera da letto e il salottino avevano quelle acquistate dalla
signora Emilia, con colori favorevoli al viso, ma con disegni assurdi.
Metilde fu contentissima della nuova dimora, e Silvio dovette mostrarsi
riconoscente verso la suocera che si era data tanti disturbi per
ordinare i mobili, e dirigere gli operai che avevano messo ogni cosa al
suo posto.
Al mattino seguente apersero i bauli, Metilde e la Betta furono occupate
tutto il giorno a riempiere gli armadi e i cassettoni, coll’assistenza
di Silvio che piantava chiodi, si martellava le dita, bestemmiava fra i
denti, e si protestava beato.
Poi fecero i loro conti su quello che potevano spendere, cercando di
proporzionare le spese alle rendite per avere una norma, e ciascuno
prese le sue abitudini. Silvio si recava ogni mattina allo studio
Ruggeri, e si occupava d’affari legali sotto la direzione dello suocero,
e nelle ore libere continuava a scrivere nei giornali. Metilde attendeva
sua madre o andava a trovarla, uscivano insieme quasi ogni giorno,
facevano delle visite e delle spese imprevedute, e tanto delle prime che
delle seconde ce n’erano sempre. La Betta si occupava a mettere in
ordine l’appartamento, spazzettava gli abiti della padrona, stirava la
biancheria, metteva la carne al fuoco, poi andava alla finestra a veder
passare la gente o a fare delle lunghe conversazioni coi garzoni delle
botteghe, informandosi esattamente di tutti i pettegolezzi della calle.
Verso le cinque pranzavano, Silvio contemplava sua moglie da vero
innamorato, la trovava sempre più bella, e non si accorgeva che la
minestra era scipita, il manzo duro e poco cotto, ma Metilde chiamava la
Betta e se ne lamentava, questa accusava il beccaio, e protestava d’aver
soffiato tutto il giorno nel fuoco. Il primo giorno avevano ancora fame
dopo finito il pranzo.
—Non c’è altro?... domandò Metilde al marito, e questi alla Betta:
—Non c’è altro?...
—Non mi hanno ordinato di più, rispose la domestica.
Allora la mandarono a prendere un piatto dal trattore vicino, del
presciutto dal pizzicagnolo, e delle frutta dal fruttivendolo.
—Si vede proprio, osservò Silvio, che il conto preventivo bisogna farlo
dopo il pranzo. Non ci sono piani economici possibili, fino che non si
ha mangiato il bisogno.
Metilde rideva, e gli dava ragione. Così presero l’abitudine di non
cuocere in casa che la minestra ed il lesso, acquistando gli altri
piatti qua e là, dal pizzicagnolo o dal trattore, per non consumare
troppa legna, e non far perdere il tempo alla serva. Ma l’accessorio
costava il doppio del principale.
Il cielo provvederà! pensava il marito, e la moglie non se ne occupava.

Uscendo dallo studio dell’avvocato, Silvio girava per le strade
occhiando le ghiottonerie esposte nelle vetrine, faceva qualche acquisto
che nascondeva nel fazzoletto, e così portava a casa il complemento del
pranzo; talvolta mandava la Betta a comperare il pesce fritto, o qualche
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