La famiglia Bonifazio; racconto - 08

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_fondamenta nuove_, in fondo della città, e in quel deserto fumava un
sigaro da un soldo, e meditava sui destini dell’uomo.... senza soldi.

L’acqua turchina batteva le rive, s’increspava intorno alle isole, si
perdeva in un lontano orizzonte confuso col cielo. A diritta qualche
barca peschereccia colla vela riflessa nella laguna filava orzando verso
il mare; a sinistra i monti che fanno corona al territorio trivigiano,
con una leggiera tinta violetta sfumavano nell’azzurro. L’aria fresca
che batteva sul viso era pregna dei profumi iodiati delle alghe, e di
sapori salini.
Quella quiete, quella solitudine, quei sentori, quel prospetto che gli
ricordava gli sfondi pittoreschi del suo parco, trasportavano il
pensiero di Silvio alla casa paterna, alle cure serene, ai piaceri
semplici della vita domestica. Si ricordò di Maria con tenerezza e con
rimorso, pensò che in quel ritiro suo nonno giuocava la vita per
l’emancipazione della patria, lo zio era stato sacrificato allo stesso
intento, la zia era morta di dolore, suo padre era partito per la guerra
e per l’esilio, la nonna aveva passata l’esistenza nella solitudine fra
le ansie delle persecuzioni. Ah quei poveri vecchi non avevano mai
pensato alla necessità dei milioni, non aspiravano che all’indipendenza
del paese, e vivevano modesti e laboriosi sacrificando tutto a questo
santo dovere!...
Colla mente attristata e il cuore malcontento, con una burrasca di
pensieri nel cervello, ove i progetti fantastici, lottavano colle idee
sane, rivolse i passi verso l’interno della città. Camminava lentamente,
col cappello sugli occhi e il sigaro da un soldo fra i denti, senza
guardare in faccia la gente che incontrava per via, sempre pensieroso,
girando per un labirinto di calli strette, nell’ombra umida fra le case,
salendo e scendendo gli scalini verdognoli e smussati dei vecchi ponti,
senza guardare nelle gondole che passavano sotto col tonfo monotono dei
remi che rompevano il silenzio di quei poveri quartieri, e sparivano nei
canali tortuosi.
Dopo lunghi raggiri, giunse finalmente in calle larga San Marco, svoltò
per la merceria, e si trovò sotto l’arco della Torre dell’Orologio. Il
sole che gli battè sul viso tutto d’un tratto parve che lo destasse da
una specie di letargo. Alzò la testa, abbracciò collo sguardo il
prospetto della Piazzetta, il Palazzo ducale, le due colonne del leone e
di San Teodoro, la laguna, le barche, l’isoletta di San Giorgio, tutto
immerso in un lago di luce abbagliante.
Una soave armonia echeggiava sulla piazza, un cantico soave di voci
celestiali s’innalzava nell’aria, e dopo gli accenti variati d’un a solo
melodioso, prorompeva in un solenne rimbombo di tutti gli istrumenti,
che pareva un inno trionfale. Era l’ora della musica.
La piazza presentava l’aspetto d’una sala immensa, percorsa da una fila
di signore eleganti che passeggiavano fra un corteggio di ammiratori. Si
udiva un fruscio di seriche vesti, si vedevano tutti i colori che
brillavano al sole fra gli abiti scuri degli uomini. Si respirava
un’atmosfera artificiale mista di esalazioni confuse di tabacco e di
muschio.
Un cappellino capriccioso sopra una testa bionda, fece evaporare
immediatamente tutta la tristezza dal cervello di Silvio. Addio pensieri
malinconici, addio progetti di severa resipiscenza. Alla vista delle
signore Ruggeri il giovane praticante dello studio gettò in fretta il
mozzicone del sigaro da un soldo, si atteggiò al più grazioso sorriso,
abbassò rispettosamente il cappello fino al ginocchio, strinse la mano
all’avvocato, presentò i suoi complimenti alla signora Emilia, un
sorriso ed un’occhiata alla signorina Metilde, e si unì alla comitiva
che passeggiava su e giù dal fondo della piazza alla basilica, andando e
ritornando come tutti gli altri.
La viva luce che illuminava la chiesa pareva che trasformasse i vetri
rotondi delle grandi arcate in tante medaglie d’argento, e le figure dei
mosaici, a colori smaglianti, nuotavano nel fondo d’oro, mentre le onde
armoniose della musica passavano sulla folla. Davanti a quei prospetti e
fra quelle melodie indistinte e confuse con altre voci, le parole umane
acquistano una espressione singolare, specialmente fra la gioventù e la
bellezza, fra le seduttrici e i sedotti. I suoni reboanti della musica
incoraggiano le audacie del dialogo e talvolta lo interrompono a
proposito, l’a solo sentimentale d’un soave istrumento serve a
meraviglia per accompagnare una frase gentile, e ne rialza il valore.
L’uomo può arrischiare una dimostrazione velata, meglio che in un
salotto, perchè la donna può fingere di non udirla, e i mariti, i babbi
e le mamme, assordati dalle trombe e dai tamburi, non l’odono di sicuro.



XI.

Tutto quell’inverno fu rallegrato dai più deliziosi passatempi. Le noie
della pratica curiale venivano lautamente compensate dai passeggi, dalle
conversazioni, dalle feste da ballo, dagli spettacoli dei migliori
teatri. Durante il giorno, nello studio dell’avvocato, Silvio imparava
come si guadagna il denaro a spese dei litiganti, ed ogni sera imparava
a spenderlo nella buona società. Il bisogno dei milioni, o almeno almeno
di qualche migliaia di lire, si faceva vivamente sentire. S’era fatto
degli amici che la pensavano come lui, non erano ricchi, perdevano al
giuoco, si divertivano, e tuttavia non mancavano di denaro. Dove diavolo
andavano a trovarlo? Si mise a studiarli a fondo, e a interrogarli:
—Avete trovato una miniera?...
—Sicuro, gli rispondevano, la miniera inesauribile delle umane miserie,
delle corbellerie, delle dabbenaggini, delle birbonate, e delle geste
quotidiane del genere umano!...
—Che cosa volete dire!... non capisco niente! parlatemi più schietto,
dove trovate il denaro per divertirvi?...
—Nella stampa! gli risposero, in questa lupa affamata, che divora ogni
giorno tutte le nostre ciarle, che consuma delle montagne di carta
manoscritta, ed è sempre insaziabile per quanto inghiotta, e domanda
continuamente dei nuovi alimenti, ed è costretta di pagarli. Noi siamo i
fornitori della sua cucina.
—Vorrei potervi imitare, ma non sono letterato, non so proprio nulla,
non ho mai avuto il tempo di studiare.
—Ma che letterati d’Egitto!... noi non siamo più sapienti di te. Slamo
del numero infinito dei corrispondenti, che mandano della materia
brutta... ma molto brutta a tutti i giornali del mondo. Non siamo capaci
di scriver bene, con ponderazione e misura, ma per improvvisare siamo
eccellenti. Chi scrive bene muore di fame, meno rare eccezioni. La
stampa paga sempre in ragione inversa del volume. Un grosso volume in
ottavo produce meno d’un modesto in sedicesimo il quale è meno pagato
d’un articolo. La letteratura mena direttamente al fallimento, il
giornalismo è più promettente, e può condurre alla ricchezza. Noi
mandiamo ogni giorno le notizie di Venezia alla capitale ed all’estero,
e ne ricaviamo qualche profitto. Il nostro uffizio di redazione è la
bottega di caffè, dove gettiamo sulla carta tutte le ciarle del giorno,
e senza nemmeno rileggere lo scritto lo portiamo alla posta. Non si
guadagnano tesori, ma con tre o quattro giornali quotidiani si vive.
Basta scrivere ogni giorno qualche novità....
—E quando non ce ne sono?
—Ce ne sono sempre!... È impossibile che Venezia non fornisca qualche
argomento alle nostre ciarle. Politica, amministrazione, belle arti,
teatri, tutto ci serve. Quando non si sa parlare a fondo di niente, si
può scrivere di tutto per sommi capi, degli articoletti divisi come le
strofe d’un sonetto. È un genere che piace. È poi affatto impossibile
che manchi un argomento piacevole alla cronaca del giorno, un
assassinio, un fallimento, un furto, un suicidio, è impossibile che una
buona ragazza non faccia uno scapuccio, e ci fornisca la materia per un
articoletto verista, è impossibile che un camino non prenda fuoco, che
la buon’anima d’uno spiantato non si getti in laguna, che un qualche
cassiere non fugga, che il diavolo non metta la coda in qualche sito
proibito. In caso disperato, anche senza essere letterati non siamo
tanto scemi da non saper inventare una storiella spiritosa, che diverta
il pubblico per qualche giorno. Diceva bene Balzac: «_pour le
journaliste, tout ce qui est probable est vrai_.» Noi non abbiamo
corrispondenze che con Roma e Milano, ma tu che sei nato in Francia, e
scrivi il francese meglio dell’italiano, tu potresti guadagnare
moltissimo mandando delle corrispondenze a Parigi.
Silvio afferrò subito questa idea luminosa, scrisse un gran numero di
lettere promettendo qualche cosa di nuovo e di interessante su Venezia,
inesauribile argomento di osservazioni e di studi, che gli venivano in
mente, ispirati dall’amore che suo padre gli aveva comunicato per questa
città singolare. Portò le sue lettere alla posta pieno di illusioni, ma
il giorno seguente dopo maturo esame, perdette ogni speranza di buona
riuscita, e perplesso fra questi due estremi aspettò il risultato della
sua prova.
In quel tempo giunse alla villa Bonifazio l’annunzio del prossimo
matrimonio del cugino Alessandro, che aveva lasciato il servizio
nell’esercito per prender moglie, e invitava a nozze i cugini.
«L’esempio della vostra vita tranquilla mi ha spinto a questo passo,
egli scriveva, e l’esperienza del mondo mi ha persuaso che se vi sono
dei giorni felici non si possono raggiungere che nella intimità della
vita domestica, e nella pace della campagna. La casetta ereditata dallo
zio mi facilita l’intento. La mia Enrichetta sarà come la Maddalena
un’ottima moglie, e una brava padrona di casa. Venite dunque ad
assistere al mio matrimonio, e la vostra cara presenza sarà il migliore
augurio che io possa desiderare per l’avvenire.»
Papà Gervasio soffriva troppo degli intestini per fare quel viaggio,
Maddalena, come al solito, non voleva lasciare un solo giorno la sua
Maria; scrissero dunque a Silvio di partire per la Brianza per
rappresentare la famiglia alle nozze del cugino. Ma Silvio, che non
voleva allontanarsi da Matilde in carnovale, prese il pretesto di affari
urgentissimi dell’avvocato che non gli permettevano di assentarsi, si
scusò col padre e col cugino, e non si mosse da Venezia, aspettando
ansiosamente le risposte dei giornali. I primi riscontri gli vennero
dalle provincie. Lo ringraziavano della sua ottima idea, accettavano la
sua corrispondenza con sommo piacere, dolenti soltanto di non poterlo
ricompensare che con una copia del giornale, il quale viveva della
carità di qualche benemerito del partito, che però non bastava a
salvarlo dai debiti, da cui era minacciata continuamente la sua
esistenza.
Un giornale di Parigi domandava un saggio degli scritti proposti, e se
fosse riuscita la prova avrebbe accettato un articolo alla settimana,
convenientemente retribuito.
Un giornale di Roma accettava la corrispondenza senza prove, e
assicurava un assegno mensile. Dagli altri nessuna risposta; le domande
di corrispondenza erano state gettate nel cesto.
Questo risultato gli parve inferiore alle prime speranze, ma di gran
lunga migliore di quel fiasco completo, minacciatogli da troppa paura.
Si accinse al lavoro, e non gli mancarono gli argomenti. Cominciò a
parlare di feste e di spettacoli, intrecciando le relazioni del presente
colle memorie del passato. Cercò di scoprire antiche origini d’usi
sociali, mise le fabbriche antiche a paragone delle moderne, la basilica
di San Marco colla stazione della ferrovia, i marmi antichi col gesso
dei nostri giorni, il Ponte di Rialto coi ponti di ferro, che cancellano
i palazzi del Canal Grande, come si cancella un conto sbagliato sopra un
registro. Osservò nei ritratti dei musei e nelle medaglie le fisonomie
degli antichi veneziani, e andò a cercarne le traccie nel popolo, e a
forza di studi comparativi giunse a stabilire un sistema inverso di
quello di Darwin, per dimostrare la degenerazione della razza veneziana.
L’epoca del carnovale si prestava allo scherzo, ed alla scoperta dei
discendenti degli antichi. Annunziò che il proprietario d’un caffè della
piazza portava tutti i lineamenti d’un doge, che il gobbo che lustrava
le scarpe scendeva sicuramente da un inquisitore di Stato, dipinto da
Paolo Veronese. Il mercante di caramelli doveva essere un nipote del
Cardinal Bembo, una fioraia che correva pei caffè era l’esatta
riproduzione della Zulietta dipinta da Rousseau «in vestito di
confidenza.»
I famosi navigatori rispettati in tutti i mari del mondo erano
tralignati nei gondolieri che non facevano che il giro dei canali,
minacciandosi da lontano. I discendenti del _maggior Consiglio_ andavano
in maschera da pagliacci, un erede di Marco Polo era vestito da
Pantalone, e un pronipote di Gasparo Gozzi indossava l’abito appezzato
dell’Arlecchino, i _Signori di notte_ suonavano nelle orchestre dei
teatri, e i _Savi_ erano diventati matti.
In ogni relazione introduceva degli aneddoti piccanti, e delle biografie
piene di brio. Le sue corrispondenze facevano ridere, e questo fu un
vero successo, per la stagione di carnevale. Quando venne la quaresima,
volle che i suoi lettori facessero un poco di penitenza, e allora andò a
spolverare gli antichi documenti degli archivi, e le pergamene tarlate,
e si mise a parlare di storia. I suoi lettori si addormentavano col
giornale in mano negli angoli dei caffè. Egli comprese subito che aveva
trovato la chiave del vero corrispondente, e che disponeva a suo talento
dell’animo dei lettori del giorno.
Venne pregato di mandare anche delle notizie politiche, e fu l’inventore
d’un nuovo genere di corrispondenze che ottenne un vero successo nel
giornalismo, e fu prontamente imitato da vari periodici. Ecco in che
cosa consisteva la sua invenzione.
Egli raccoglieva le notizie di vari giornali francesi, sapeva ornarle
d’una veste nuova, e le mandava a Roma, d’accordo col giornale, come
corrispondenze di Parigi. E a Parigi mandava corrispondenze da Roma,
eseguite sullo stesso stampo, coll’aggiunta di vari fatterelli curiosi
raccolti da qualche deputato in vacanza, da persone che ritornavano da
Roma, e da un signore che parlava ad alta voce in uno stanzino del caffè
Florian, e che era sempre bene informato delle cose pubbliche, meglio
del Questore e del Prefetto.
In breve tempo Silvio divenne un vero _reporter_ di mestiere, curioso
indagatore di novità, domandava conferenze e colloqui con personaggi
illustri che giungevano a Venezia, commetteva le più audaci
indiscrezioni, e le sue lettere acquistavano un credito, che gli veniva
largamente retribuito. E così passò il primo anno di pratica, e
l’inverno successivo, immerso nel lavoro, leggendo tutto, e studiandosi
di perfezionare la forma letteraria per rendere più gradevoli i suoi
scritti. Le ore della sera, prima del teatro, erano tutte dedicate alla
famiglia dell’avvocato, a conversare con Metilde, ad ascoltare la musica
delle sue parole, e del suo pianoforte, ad ammirare la sua grazia e la
sua coltura. E non volle mai saperne di lasciare Venezia un solo giorno,
giustificandosi colla famiglia col pretesto dei lavori legali che non
gli lasciavano un’ora di libertà.
Papà Gervasio, non potendo ottenere che suo figlio andasse a passare
qualche giorno in campagna, gli faceva delle sorprese, recandosi a
Venezia, ma per poche ore, con un viglietto di andata e ritorno.
Arrivava colla prima corsa, entrava tutto ansante, carico di cestelle e
di sporte, nella camera del figlio, che dormiva ancora.
Gli dava un bacio e poi si metteva a sciogliere gl’involti, e sciorinava
gli oggetti sul tavolo e sul cassettone, e metteva in mostra le frutta
della stagione, e quelle che aveva saputo conservare. In primavera erano
fragoloni più grandi delle noci, d’estate ciliege grosse come prugne,
prugne grosse come persici, persici grossi come melagrani. D’autunno
peri profumati meravigliosi, pomi d’ogni forma e d’ogni colore dal
piccolo Appio dolce al _rainette_ grigio del Canadà. Tirando fuori i
fragoloni, papà Gervasio diceva:
—Guarda _Mac-Mahon_, è una delle più grandi varietà! guarda la _Regina
Vittoria_, è delle più saporite.
Mettendo in riga le pera e i pomi li voltava sempre dalla parte più
colorita, li puliva colla palma della mano, li lucidava colla manica del
vestito e li nominava:
—Gnocco di Milano!—Generale Totleblen—Cardinale—Butirro Napoleone!
Tutti di casa caricavano il povero papà Gervasio per spedire qualche
dono al figliuol prodigo. D’inverno Maria gli mandava delle eccellenti
conserve di frutta, in primavera le più belle varietà di rose, d’autunno
delle uve moscate color d’oro. La nonna prodigava le calze, le mutande,
i corpetti di lana, eseguiti colle sue mani, intrecciando infiniti
pensieri e qualche lagrima all’eterna catena della maglia.
Silvio si vestiva ammirando e ciarlando, ringraziava e domandava conto
di tutti. Allora il papà gli raccontava le sue piccole sofferenze
intestinali senza gravità, poi passava a narrargli i grandi avvenimenti
della villa.—Mumut era scomparso improvvisamente di casa, Maria
disperata lo fece cercare invano per molti giorni; è facile immaginarsi
le sue angustie, i suoi sospetti su certa gente alla quale non ripugna
il gatto in umido, purchè sia grasso. Non era possibile di ritrovarlo.
Finalmente il maestro Zecchini lo vide accovacciato pacificamente in
cima al muricciolo dell’orto della vicina masseria. Una passione
sfrenata per una gatta dell’affittuale lo teneva schiavo in quel sito,
immemore delle cure costanti di tua cugina, con ingratitudine colpevole.
Venne portato a casa che non era più riconoscibile, magro consunto dalla
passione, spelato per le lotte sostenute coi rivali. Ora si è abbastanza
rifatto, ma conserva una morbosa malinconia che gli impedisce di
ritornare alla sua naturale pinguedine. Ma adesso viene il più bello,
ascolta anche questa. Pasquale incaricato di fare le più minute indagini
per rinvenirlo, mancava ogni giorno di casa per lunghe ore, trascurando
il servizio, ma abbiamo scoperto che invece di mettersi alla ricerca del
gatto, egli andava a dormire sul fieno.
—Non mi sorprendo, disse Silvio, la malafede e la poltroneria sono del
numero dei suoi difetti.
Quando Silvio era pronto facevano un giretto per la piazza, andavano a
respirare una boccata d’aria salina sul ponte della Paglia, tornavano
alle Procuratie, e passavano al _Cavalletto_, ove Gervasio faceva una
colazione di pesce fresco, in compagnia di suo figlio.
Dopo colazione ritornavano all’alloggio di Silvio, facevano una scelta
delle cose migliori portate dalla campagna, e andavano a presentarle
alla famiglia dell’avvocato.
La signora Emilia riceveva papà Gervasio con cordiali dimostrazioni di
amicizia, gradiva moltissimo quelle frutta, ne faceva mille elogi,
diceva di non averne mai vedute di eguali; e si riconfermava sempre più
nell’idea della ricchezza dei Bonifazio, che potevano vantare simili
prodotti.
Papà Gervasio gongolava agli elogi delle sue colture, e rispondeva che,
in fatto, quelle frutta non si trovano in commercio, sono cose da
dilettanti; e invitava la signora a visitare la sua villa, e a passarvi
alcuni giorni colla sua famiglia, senza complimenti.
—Mille grazie del cortese invito; una volta o l’altra ne profitteremo,
prometteva la signora.
—Sarà un vero piacere, e un grande onore per la nostra casa.
La bella Metilde ammirava i fiori, li disponeva artisticamente nei vasi
del salotto, cacciava i suoi dentini d’avorio nei fragoloni, gustava un
po’ di tutto, e proclamava con tanta grazia le delizie di quelle frutta,
che papà Gervasio le avrebbe dato un bacio assai volontieri, e sentiva
il sapore di quei prodotti meglio che se li avesse mangiati.
Capitava l’avvocato, ed erano nuove meraviglie, chiamavano anche i
giovani dello studio ad ammirare quei prodotti della terra promessa.
Dopo le lodi delle frutta venivano fuori gli elogi del figlio. Tutti ne
dicevano un gran bene, meno la signorina Metilde, che lo pensava più
degli altri, ma taceva per convenienza di ragazza bene educata.
La signora Emilia parlava di Silvio come del più caro amico di casa, e
il più fedele; l’avvocato mostrava di stimarlo un giovinotto di slancio,
di spirito pronto, e che da qualche tempo s’era anche messo a studiare.

Gervasio usciva da quella casa consolato, Silvio lo accompagnava alla
ferrovia, e mentre la gondola li trasportava attraverso i canali, il
padre mostrava al figlio la sua soddisfazione, e largheggiava di
promesse e consigli.
—Continua a condurti bene, gli diceva, studia, lavora, e procura di fare
delle economie, perchè gli anni sono sempre più cattivi, e cerca di
contentare l’avvocato e le signore.
Una volta, ritornato da una delle sue gite, beato degli elogi che
l’avvocato aveva fatti a suo figlio, papà Gervasio andava ripetendo al
maestro Zecchini, e gli osservava:
—Dovete convenire che la vostra teoria pessimista non è applicabile a
mio figlio, e fregandosi le mani aggiungeva: non tutti gli uomini sono
asini, caro maestro.
—Dipende.... gli rispondeva seriamente l’amico.
—Come dipende?... da che cosa dipende?...
—Dipende dal punto di vista dal quale partono le osservazioni....
—Come sarebbe a dire?
—Ogni cosa ha la sua luce e le sue ombre. Voi vedete vostro figlio dalla
parte della luce, e vi presenta un bell’aspetto; se lo guardaste
dall’altra parte, forse l’effetto sarebbe diverso.

—Ciò vuol dire in poche parole che non credete ai meriti di mio figlio.
—Parlo in generale. Credo poco a tutte le apparenze. La società impone
ad ogni uomo una veste morale che nasconde la sua natura. Per conoscere
a fondo un individuo bisogna esaminarlo come si fa coi coscritti.
—E come si spoglia un uomo dalla sua veste morale?
—È molto difficile, se non impossibile. L’unico partito per giudicare un
uomo con probabilità di giustizia, è quello di aspettare che sia morto.
Allora sulla tavola anatomica si spoglia il cadavere, si può fargli la
sezione, si scoprono tutte le macchie e tutti i malanni nascosti. Sapete
che pochissimi uomini muoiono di morte naturale, la maggior parte
perisce per qualche.... asinaggine. Dunque aspettiamo a giudicare gli
uomini dopo la morte.
—Caro maestro, conchiuse Gervasio, desidero di potervi giudicare più
tardi che sia possibile.
—Grazie tante, caro Gervasio.
Nella primavera del secondo anno Silvio ricevette una lettera della
nonna, la quale gli annunziava che suo padre era a letto da qualche
giorno, essendosi aggravate le sue sofferenze intestinali.

Corse subito alla villa. La malattia non presentava alcun pericolo, ma
vedendo che la sua visita era riuscita molto gradita a suo padre, egli
decise di fermarsi qualche giorno in famiglia.
La campagna gli pareva un altro mondo dopo il soggiorno prolungato di
Venezia. Dai palazzi di marmo che si specchiano nell’acqua agli alberi
del parco, dalla laguna solcata di barche ai campi arati dai buoi,
dall’orizzonte infinito della marina al prospetto dei monti, la scena
era intieramente cambiata, e tutto si presentava ai suoi sguardi con
proporzioni diverse, e con aspetto modificato da quello d’altro tempo. È
il solito effetto dei confronti. Chi visita Parigi per la prima volta
resta sorpreso dell’ampiezza e del movimento delle strade, della
larghezza della Senna, e dei ponti. Ma se ritorna a Parigi da Londra la
città gli sembra più piccola e meno popolosa; le strade diritte, i
parchi grandiosi, i bastimenti che passano sotto i ponti del Tamigi,
diminuiscono le proporzioni dei _boulevards_ e fanno gran torto alla
Senna. Tornando da Venezia dopo un lungo soggiorno e fermandosi in una
città di terraferma si subisce lo stesso effetto, tanto quella città
singolare non somiglia a nessun altro paese.

Silvio trovava la sua casa più piccola, le stanze più basse e anguste, i
mobili vecchi e di cattivo gusto, le battaglie di Napoleone ridicole, i
ritratti dell’imperatore e dei suoi generali manierati come tante teste
di legno, il parco troppo trascurato.
E la bella Maria?... oh povera Maria, quale sorpresa!...
Come pettinava goffamente quei capelli abbondanti! come vestiva senza
garbo!... e quelle mani rosse e quei piedi così grandi e mal calzati, e
quell’aspetto impacciato, e quella voce ingrata, e quei movimenti
sguaiati, e quelle espressioni volgari!...
Essa accolse il cugino con una lagrima nel sorriso, la bocca affettuosa,
gli occhi ridenti, ogni lineamento del suo viso indicava una gioia mista
di commozione trepidante.
—Dopo tanto tempo!... e forse per così poco!...
E lo osservava con muta sorpresa perchè le pareva più serio, più
elegante, più disinvolto, e non osava interrogarlo, ma pure tradiva la
curiosità collo sguardo.
La nonna era invecchiata assai, bianca, deperita, s’incurvava sempre più
sotto il peso degli anni, le scemavano le forze.
Maria, la sua brava allieva, faceva tutto da vera padrona di casa. Papà
Gervasio vedendo che sua madre non era più in caso di sostenere la
fatica, non voleva essere assistito che dalla nipote, era la sua cara
suora di carità, e gli faceva anche da segretario, da cuoca, e da
cassiera. Ed essa dalla mattina per tempo fino a notte inoltrata, saliva
e scendeva rapidamente le scale, sempre d’ottimo umore e di buona
volontà. Col suo mazzo di chiavi appeso alla cintura del grembiale
bianco di bucato, correva qua e là, a somministrare l’occorrente a
tutti, a dare gli ordini, ad eseguire colle sue mani le cose più
delicate; il brodo ristretto pel povero ammalato, le minestrine leggiere
per la nonna.
Tutti la invocavano da ogni parte, chi domandava la panna per fare il
butirro, chi voleva la crusca per le mucche, chi l’avena pel cavallo. Un
affittuale veniva a fare un pagamento, un altro a domandare una
sovvenzione, essa riceveva, pagava, notava, dava delle disposizioni
opportune, e dei buoni consigli.
Gli ammalati mandavano a chiedere un decotto, i poveri la supplicavano
d’un soccorso, ed essa soddisfaceva tutti con bontà, e aveva sempre in
saccoccia un crostino per Falcone, un pezzetto di zucchero per Argo,
qualche seme di popone pei canarini. Uomini e bestie tutti le volevano
bene.
La nonna e Silvio in fianco al letto del malato gli facevano compagnia,
e il giovinotto osservava attentamente le delicate attenzioni di Maria
per suo padre, il quale lodava la nipote per tutte le sue buone qualità.
—Se tu sapessi come è buona, la mia Maria, gli diceva il padre, come è
brava, previdente, solerte, peccato che non abbia avuto una bella
educazione.... la poveretta sa appena leggere e scrivere, e fare un
conto, ma non ha più un minuto di tempo per coltivarsi....
—Ne sa più di quanto basta per diventare un’ottima madre di famiglia,
brontolava la nonna, e per rendere felice l’uomo che sarà suo marito.
Osservandola minutamente, nei momenti che essa non poteva vederlo,
Silvio si persuadeva che Maria era belloccia, buona, intelligente,
operosa, ma non poteva dissimularsi che era incompleta, le mancava
l’istruzione indispensabile a chi deve vivere in società, e quell’arte
elegante che insegna alla donna a far valere i suoi pregi, o a
nascondere e sostituire le sue mancanze, mercè gli indumenti esterni, e
le cure speciali della persona. Una bella statua mal vestita fa più
triste figura d’una marionetta uscita dalle mani esperte d’una modista
eccellente; e qualche volta una prima impressione è decisiva per
l’esistenza.
È vero che quando ad un rapido sguardo succede un esame più
coscienzioso, si finisce a discernere le apparenze dalla realtà, e il
commercio della vita scopre tutti i segreti, e rivela tanto i vizii
dissimulati che i pregi nascosti fra i quali primeggiano quelli
dell’anima. E infatti era impossibile di vivere lungamente accanto a
Maria senza volerle bene, e senza trovarla bella, perchè la bontà
s’irradia sul volto e lo abbellisce meglio dell’arte più raffinata.
Gli occhi ridenti e soavi di Maria penetravano insensibilmente nel cuore
di Silvio già predisposto da quella simpatia che era nata nella intimità
degli anni giovanili, e che si ridestava nelle abitudini della
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