La famiglia Bonifazio; racconto - 06

Total number of words is 4326
Total number of unique words is 1863
33.3 of words are in the 2000 most common words
50.4 of words are in the 5000 most common words
58.1 of words are in the 8000 most common words
Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
atto militare che non aveva nome. Il colonnello invidiava la sorte del
genero suo commilitone, che era morto all’annunzio della fatale notizia,
e oramai non sperava più di veder realizzato il bel sogno della sua
vita, l’Italia indipendente dagli stranieri. Il vecchio soldato affranto
dall’età avanzata e dai disinganni vedeva tutto nero, e dopo tanti
tentativi falliti non aveva più fede nei suoi concittadini.
Ma Gervasio non credeva possibile la assurda confederazione progettata
coll’Austria e col Papa, e calmata l’esaltazione del primo momento,
partì per Milano per provvedere all’educazione del figlio in attesa
degli avvenimenti.
Milano liberata dagli Austriaci si mostrava soddisfatta e si accingeva a
trar partito dalla libertà, fidente nell’avvenire; e intanto si facevano
le annessioni.
Silvio si trovava in un nuovo mondo nel movimento elegante di Milano; e
quando passeggiava pel Corso si rammentava con pietà i semplici costumi
della Bretagna, i cappelli a larghe falde sulle lunghe chiome, i
panciotti rossi, le giacchette lunghe, le uose fino al ginocchio, e
ricordandosi il clima uggioso, le strade deserte piene di fango, i
campanili acuminati sul fondo grigio e nebbioso, era tutto lieto e
ambizioso della sua vera patria, e contemplava con viva soddisfazione le
candide gugliette del duomo che spiccano con tanta leggiadria sul fondo
azzurro del cielo lombardo.
Papà Gervasio e il suo Silvio passarono le vacanze d’autunno in Brianza,
in casa del nonno, bisnonno, il quale magro istecchito, rugoso, calvo,
ma sempre colla pipa in bocca non era più che l’ombra dell’antico
colonnello del primo Napoleone e del terribile Carbonaro del 1821. Però
di tratto in tratto agitava ancora le sue vecchie ossa, e sprigionava
qualche scintilla di quel fuoco che lo aveva riscaldato negli anni
vigorosi.
La politica era sempre il suo discorso prediletto, seguiva tutti gli
avvenimenti, li giudicava severamente, ma ricominciava a sperare,
prediceva al nipote l’avvenire, e diceva al giovinetto Silvio:
—Tu non avrai più da fare nè il soldato nè il cospiratore. La nostra
generazione compirà fra breve l’indipendenza, oramai i destini d’Italia
sono evidenti.
Fu nella casetta del nonno in Brianza che Gervasio conobbe personalmente
il cugino Alessandro, figlio di Aristide fratello del colonnello, che
era morto da qualche anno in Piemonte, ufficiale nell’esercito.
Alessandro aveva seguita la carriera del padre e dello zio, ed aveva
fatte le sue prime armi alla battaglia di Solferino, col grado di
tenente. Era un bravo giovane, col quale il cugino passava piacevolmente
qualche ora, ciarlando dei parenti, e delle faccende del giorno, e poi
ne scriveva a sua madre gli elogi. Silvio avrebbe potuto imparare dalla
conversazione del giovine ufficiale come si deve servire il paese, ma
preferiva giocare alle boccie coi birichini del villaggio.
Invece il giovane Alessandro dava retta allo zio, con rispettosa
deferenza, e così questi due individui, senza saperlo preludevano
entrambi alla futura generazione del regno, che si mostrò seria
nell’esercito; frivola, inquieta e malsana altrove.
Quando i suoi tre nipoti, Gervasio, Alessandro e Silvio gli stavano
intorno, il vecchio continuava le sue osservazioni, e i consigli, e
diceva:
—Per uscire dalla schiavitù, per infrangere le catene, come Spartaco, ci
voleva forza di muscoli, e audacia sfrontata, e non faceva male nemmeno
un po’ di pazzia. Bisognava arrischiare tutto! ma l’avvenire domanda più
forze morali che materiali, e la più seria assennatezza per consolidare
la conquista, e far uscire dalla libertà la potenza e la prosperità del
paese.
Il periodo eroico sarà fra breve finito, e comincierà l’epoca
dell’educazione e dell’istruzione, e allora saranno necessari i
caratteri probi e onesti. Al nostro tempo ci volevano dei rompicolli,
dei cospiratori, dei furbi, dei maneschi, bastava di avere del sangue
nelle vene. L’avvenire abbisogna d’uomini onesti e sapienti, di scienza
e lealtà. Le conquiste si fanno colle mani, e si consolidano col
cervello.
E mentre passavano gli anni nell’aspettativa, i vecchi cominciavano a
cedere il posto ai giovani. La nonna di Brianza morì di vecchiaia, il
colonnello la seguì da vicino. La povera Maddalena legata al suo posto
dalle cure domestiche, dall’affetto alla sua Maria, divisa dai genitori
dal governo straniero, non ebbe la consolazione di rivedere per l’ultima
volta i suoi cari vecchi, che passavano da questa vita senza malattie,
come lampade che si spengono per mancanza d’alimento.
Il testamento del colonnello fu l’equo complemento della sua vita.
Lasciò la casa e pochi campi d’intorno al nipote Alessandro: «colla
certezza che conserverà religiosamente le memorie e le tradizioni
domestiche, servendo fedelmente il paese in guerra ed in pace, come i
suoi padri, non chiedendo mai verun compenso per aver fatto il proprio
dovere.»
Tutto il resto della modesta sostanza spettava all’unica sua figlia
Maddalena Bonifazio, rappresentata dal figlio Gervasio nella
liquidazione ereditaria, che fu condotta a termine prontamente
dall’amichevole accordo dei due cugini.
Mentre avevano luogo questi piccoli avvenimenti di famiglia, un
avvenimento clamoroso sorprendeva il mondo. Mille Italiani condotti da
Garibaldi conquistavano il mezzogiorno d’Italia, e la patria andava
rompendo le barriere che la dividevano in varie parti contro natura; e
il famoso punto geografico di Metternich si andava allargando, affermava
la sua volontà, e proclamava altamente i suoi diritti.
La Massoneria si annetteva tutte le società segrete, riordinava le
loggie disperse, ed esercitava la sua potente influenza sul Parlamento,
che avendo dichiarato «Roma capitale d’Italia» attendeva il momento
opportuno per occuparla. E dopo ceduta Nizza e la Savoja, in compenso
dell’assistenza ricevuta dalla Francia, si trasportava anche la capitale
da Torino a Firenze fra le minaccie e le adesioni, le aspirazioni, le
proteste, e gli eccitamenti dei vari partiti che bollivano confusamente
nella gran fornace della rivoluzione nazionale, per fare l’Italia; come
si fondono i metalli di varie specie per ottenere il bronzo di Corinto,
per una statua immortale. L’Austria chiusa nel quadrilatero, come un
cane alla catena, non poteva più minacciare i vicini, e tutti pensavano
che il suo dominio era vicino alla fine. I giornali parlavano con
sicurezza dei futuri destini d’Italia, e il popolo manifestava i suoi
voti scrivendo col carbone sui muri:—Vogliamo Roma e Venezia—viva
Vittorio Emanuele—viva Garibaldi.
L’anno 1866 cominciava con preludi d’inalterabile tranquillità. Si
parlava di trattati secreti per la cessione del Veneto; Napoleone,
aprendo il Parlamento francese, il 22 gennaio, assicurava che tutto
prometteva la pace.
A Milano si celebrava ogni giorno qualche lieto avvenimento, e la
giovane generazione cresceva fra i piaceri e le feste. Era una vita
allegra piena di musiche, di feste, di bandiere e di entusiasmi. Silvio
frequentava di preferenza gli studenti più avanzati di lui, erano
giovinotti pieni di grilli, che facevano i critici letterari prima di
aver compiuti gli studi, e discutevano di politica andando alla scuola.
Il giovane Bonifazio si sentiva elettrizzato dai suoi compagni, sognava
avvenimenti felici per la patria e per sè stesso, si vedeva aperto
l’adito a tutte le soddisfazioni, e pensava che un giorno avrebbe preso
la sua parte nella vita pubblica, e sarebbe diventato senza fatica,
deputato, segretario generale e ministro. Prendeva una posa grave come
quella dei ritratti dei grandi personaggi, si guardava nello specchio
per vedere se l’aspetto corrispondeva alle sue idee, e si doleva
grandemente di non vedersi ancora spuntare i mustacchi. Si era scelto un
buon sarto, guidato dal consiglio dei colleghi più eleganti, e pensava
che un uomo mal vestito non avrebbe mai potuto raggiungere le altezze
ambite nelle sue fantasticaggini. Esigeva dal parrucchiere che la
scriminatura fosse netta e perfetta, dalla fronte fino al collo, perchè
l’acconciatura del capo rivelasse la finezza del cervello. Il bastonello
nella tasca del paletot, e il zigaro fra l’indice e il medio,
completavano il giovinotto precoce.
Il babbo lo trovava un po’ troppo attillato, ma non osava contrariarlo,
vedendo che i suoi compagni di scuola gli rassomigliavano quasi tutti, e
non volendo che fosse meno degli altri. Ma non lo abbandonava mai;
passavano insieme la sera al caffè ed al teatro, col cugino Alessandro;
e il giovinotto doveva contentarsi di vedere il mondo alla superficie,
perchè l’oculatezza paterna gl’impediva di seguire i compagni nei loro
stravizi.
Nelle ore di scuola Gervasio restava solo, e allora egli andava a
passeggiare ai giardini, o visitava gli stabilimenti d’orticoltura,
pensando alle terre di famiglia, che un giorno sperava di coltivare a
suo modo, e faceva progetti di riduzioni, semine e piantagioni, per
quando sarebbe tornato a casa sua. E questo felice avvenimento non
poteva tardare.
A tutte le proposte di congressi o di cessioni, gli Italiani
rispondevano coll’accrescere e perfezionare l’armamento, e desiderosi di
compiere l’indipendenza e l’unità della patria, contrariavano
continuamente i segreti maneggi della politica, e i vani progetti della
diplomazia, diffidavano delle scaltre blandizie, e non trovavano
accettabile nessuna proposta, tranne quella della totale emancipazione
dagli stranieri.
Furono inutili le proposte d’un disarmo generale, inutili tutte le
promesse e le minaccie, perchè la nazione fremente ed ansiosa si agitava
per raggiungere il suo scopo finale, che oramai non avrebbe più
abbandonato.
Anche Vittorio Emanuele ambiva di terminare ogni agitazione colle armi
alla mano, ed apparecchiava l’esercito; Garibaldi invocava armi e
volontari; tutta la nazione voleva combattere. L’alleanza colla Prussia
rese possibile la guerra, che finalmente venne dichiarata con generale
contento il 20 giugno del 1866. In quel giorno tanto desiderato
scomparvero tutte le dissenzioni, tutte le discordie, tutti i partiti;
la nazione e il Parlamento furono unanimi. Il re annunziò che riprendeva
la spada per la libertà del popolo e l’onore del nome italiano, facendo
all’Europa questa solenne promessa: «L’Italia indipendente e sicura del
suo territorio diventerà un pegno d’ordine e di pace, e ritornerà
efficace strumento della civiltà universale.»
Dopo la battaglia di Custoza l’esercito italiano passava il Po, ed
occupava le provincie venete.
Il primo drappello giunse a Treviso il 15 luglio, data incancellabile
fra i ricordi più memorabili di questa città. La campana del Comune
annunziò l’avvicinarsi dei soldati liberatori, la bandiera tricolore
sventolava in ogni casa, le bande musicali suonavano l’inno nazionale,
la folla immensa acclamava la libertà, l’esercito, il re con tale
entusiasmo che pareva frenesia. Forse il capitano Bonifazio e i morti
per la patria scossi dall’aria elettrizzata di quel giorno, trasalirono
nelle tombe.



IX.

Pochi giorni dopo l’arrivo dei primi soldati italiani, si arrestava
davanti il cancello della villa Bonifazio una carrozza da viaggio dalla
quale scendevano inaspettati Gervasio e Silvio. Il telegrafo e la
ferrovia essendo stati riservati all’esercito, non fu possibile agli
esuli di annunziare la loro venuta. Le suonate di campanello e i latrati
di Argo fecero accorrere Pasquale. Aperti i cancelli entrarono in casa
commossi, si gettarono nelle braccia di Maddalena che se li strinse al
seno, Maria venne subito dal giardino, e finalmente tutti i superstiti
della famiglia si trovarono riuniti.
Il primo effetto del loro incontro furono le lagrime, lagrime di gioia e
di tenerezza, sgorgate dal rapido risveglio di tanti ricordi dolci e
luttuosi, sereni e strazianti, da tante speranze lungamente nutrite
invano, e alfine soddisfatte; lagrime miste ai baci e ai sorrisi. La
vecchia madre che abbracciava il solo figlio ancora vivo, ma
invecchiato, lontano da’ suoi occhi, per diciotto anni di assenza, che
vedeva per la prima volta il giovane nipote, il quale finalmente
conosceva la nonna; il figlio che leggeva sul volto rugoso e sui capelli
bianchi della madre tutte le angoscie sofferte, che trovava un vuoto
doloroso prodotto dalla morte del padre, del fratello, della cognata, e
d’un vecchio e fedele domestico; i due cugini che si vedevano per la
prima volta, tutte queste affezioni, queste gioie, questi dolori, queste
sorprese, confusi insieme si fondevano in una tenerezza che non aveva
altra espressione che il pianto.
A poco a poco vennero le confidenze, i racconti, le storie. Quante
domande, quanto desiderio di espansione dopo sì lunga separazione, così
grandi avvenimenti, così atroci dolori!
Quante carezze, quanti dialoghi, che gli stranieri avevano troncati, e
che la patria vendicata rendeva sacri e soavi nella intimità del
santuario domestico.
L’esule aspirava con sicurezza l’aria della sua casa, sentiva il noto
odore di quelle camere, riconosceva quei mobili, quei quadri come
antichi amici, amati fino dalla nascita; guardava d’intorno quelle
pareti che gli raccontavano coi loro quadri le prime impressioni
dell’infanzia, che gli rammentavano le gioie innocenti e le felicità
della vita giovanile, gli anniversari, le feste, le ricompense. Tutto
ciò era scomparso nell’esilio, si era dileguato nell’età matura, come
una nebbia che svanisse quando il sole è già alto sull’orizzonte.
La patria libera restituiva all’esule la sua casa, ma come una bandiera
dopo le battaglie, lacerata dalle palle nemiche.
Al di fuori la natura aveva continuato il suo lavoro. Gli alberi del
parco erano diventati giganti, avevano sorpassato il tetto della casa,
il loro vigore indicava chiaramente i lunghi anni trascorsi; gli
arboscelli piantati in gioventù, dolci ricordi di giorni felici, s’erano
fatti robusti, e portavano una bella chioma di rami rigogliosi.
Ma quale miscuglio trasandato e confuso di fronde! quale abbandono di
piante invadenti, quale arrufìo scapigliato di foglie e di fiori!
—Povera madre! esclamava Gervasio, ecco la storia delle burrasche della
tua vita, scritta dalla natura!
Tuttavia qualche angolo era conservato in buon ordine: l’ajuola dei
fiori coi quali si facevano i mazzi per gli onomastici e i natalizi era
ben coltivata e fiorita. La macchia dei crisantemi dove si tagliavano i
fiori autunnali per le ghirlande del giorno dei morti era in ottimo
stato; le tuberose predilette che profumavano la casa nel mese d’agosto
erano ancora al loro posto. L’olivo odoroso che imbalsamava l’aria era
cresciuto rigoglioso. Quel parco era proprio un libro scritto da una
potenza superiore, ed era sublime per chi sapeva leggerlo come Gervasio,
il quale si proponeva di rispettarlo come stava, in onoranza delle
tradizioni domestiche.
—Ecco il sedile sotto la sofora ove il mio povero padre veniva a fumare
la sua pipa; e mi pare di vederlo quando girava pei viali colla forbice
in mano, visitando le piante come si fa coi soldati in un giorno
d’ispezione; e nei tempi dolorosi quando camminava colle mani dietro la
schiena, la testa bassa meditabonda. Ogni angolo di questo parco
conserva le sue orme, la coltura del giardino era la sua occupazione
prediletta, egli amava la sua patria, la sua famiglia, e la bella
natura, non si curava del resto, trovava la solitudine migliore della
società, e qualche volta anche gli animali migliori degli uomini.
Appena si seppe nel villaggio il ritorno dell’esule, gli amici accorsero
ad abbracciarlo. Il più vecchio di tutti era il maestro Zecchini; esso
fu il primo a comparire, e stringendosi al seno Gervasio gli pareva di
rivedere un figliuolo. Parlava del povero capitano come d’un fratello
perduto, egli aveva dimenticato la loro discordia di opinioni, e non si
ricordava più che le varie vicende d’una lunga intimità.
Il vecchio precettore provò somma consolazione di riconoscere in Silvio
un giovinotto che aveva compiuti gli studi ginnasiali, e che si
destinava ad entrare in liceo.
—In natura l’uomo è un asino, egli ripeteva, ma l’educazione lo rende
capace di grandi cose.
Anche questa antica teoria del maestro risvegliava le più lontane
memorie giovanili nell’animo commosso di Gervasio, il quale ammirava la
fermezza del vecchio nel conservare i suoi convincimenti, e gli diceva:
—La lunga esperienza della vita, i grandi avvenimenti trascorsi non
hanno ancora modificato le vostre idee filosofiche riguardo all’uomo!...
—Anzi, tutto mi conferma in questo principio, ma so bene che la mia
teoria non verrà mai adottata nelle scuole come base filosofica, perchè
vi sarà perpetuo ostacolo, l’orgoglio umano.
Gervasio rideva come suo padre, e Silvio pensava: se fosse vero!... A
interrompere la discussione vennero i tre Pigna, il vecchio beone, il
babbo insignificante, e il giovane Andrea, l’amico di Maria.
La prima visita di Gervasio e di Silvio fu fatta al Cimitero, ove
portarono una ghirlanda sulla tomba del padre e del nonno. E quando
Treviso celebrò nella cattedrale solenni esequie ai martiri della
patria, tutta la famiglia Bonifazio assistette alla grandiosa cerimonia.
Maddalena e Maria presero posto fra le donne vestito a lutto, col capo
coperto da un velo nero, che occuparono sei file di banchi disposti ai
lati della grande navata per tutta la lunghezza della chiesa. Gervasio e
Silvio si collocarono in modo da veder bene le cerimonie e da udire il
discorso che venne pronunziato in onore dei morti. La cattedrale era
tutta parata di nero con bandiere nazionali e corone d’alloro, avvolte
in neri crespi. Un immenso catafalco sorgeva nel centro, con analoghe
iscrizioni, fra immenso numero di cerei, in mezzo a quattro grandi
piramidi composte di canne di fucili, baionette ed altre armi, dalle
quali pendevano degli scudi neri, intrecciati di fronde, coi nomi di
tutte le battaglie nazionali dal 1848 al 1866.
La messa funebre fu eseguita a grande orchestra, con degli a soli d’arpa
che parevano voci del cielo, e produssero un effetto meraviglioso mentre
suonavano le campane di tutte le chiese, si udivano le salve di
moschetteria che partivano dalle truppe raccolte in piazza, e i colpi di
cannone tirati a lunghi intervalli dalle mura.
All’orazione che rammentava i dolori e le speranze d’Italia, e al suono
dell’inno nazionale che chiuse la sacra funzione si sentiva nell’immensa
folla raccolta un fremito di commozione.
Dieci giorni dopo la festa funebre di Treviso ebbe luogo la cessione
ufficiale di Venezia al governo italiano.
Gervasio volle trovarsi presente anche a questo momento storico
memorabile, e partì per Venezia con suo figlio, per fargli vedere per la
prima volta la incantevole città, in così solenne occasione.
Quale spettacolo! quei soldati austriaci che partivano erano rientrati
dopo l’assedio fra lo squallore dei morti nella città bombardata, che
dopo un anno d’eroica difesa, non fu vinta che dal coléra e dalla fame.
Nella folla raccolta in piazza, che attendeva compatta la partenza degli
stranieri c’erano ancora dei vecchi che avevano vissuto sotto la
gloriosa repubblica, c’era molta gente che aveva veduto i patriotti del
21, salire sulla berlina eretta in piazzetta per condannarli alla morte,
c’erano molti cittadini che avevano sofferto nelle carceri e
nell’esilio. Quando la bandiera italiana fu issata sulle tre antenne di
Cipro, Candia e Morea, si udì un clamore che non era un grido
d’entusiasmo, nè un gemito di commozione, nè un urlo selvaggio, nè un
applauso di trionfo; era una voce strana, inaudita, unanime, di migliaia
di persone, una voce che fondeva in una sola espressione tutte quelle
passioni compresse, ed echeggiava ad un tratto nell’aria, come un grido
dell’umanità che si espandeva fino alle stelle. Questo grido della
liberazione d’un popolo, si poteva udirlo da tutti i pianeti che stanno
intorno alla terra.
Uno splendido sole illuminava le cupole moresche di San Marco, brillava
sull’oro dei mosaici, e sulle invetriate rotonde della basilica, e
rifletteva nella calma laguna l’azzurro del cielo. Si udivano per l’aria
le più soavi melodie, non si vedevano che volti ridenti, che espressioni
d’anime soddisfatte.
Sono memorie indelebili che valgono cent’anni di vita, rinforzano le
membra infiacchite dei vecchi, infondono vigore alla gioventù, fanno
obliare le amarezze, le umiliazioni, i dolori del servaggio.
Gervasio dimenticava i lunghi anni d’esilio, e conduceva il suo Silvio a
visitare Venezia, colla devozione d’un pellegrino cristiano in Terra
Santa. Gli faceva ammirare i monumenti, le opere d’arte, le chiese, i
palazzi, i canali, e fino le casupole, e gli spiegava la storia locale.
Gli mostrava quel popolo buono, ameno, bizzarro, quei ruvidi pescatori
figli del mare, quelle donnette goldoniane, quelle gondole uniformi,
quelle voci di venditori ambulanti che cantavano l’annunzio della loro
merce, vantando i bei cavoli, le belle frutta, i canestrini del pesce
fresco e delle ostriche.
Ogni pietra di Venezia è degna d’osservazione, è una memoria famosa o
una pennellata pittoresca; la tinta ardita di una insigne tavolozza.
Ogni monumento, ogni palazzo vi ricorda un’epoca diversa, un’arte
stupenda, dei nomi illustri di magistrati, di conquistatori o di
artisti. Ogni prospetto presenta un quadro ammirabile e singolare, sia
un tempio di marmo e di mosaici, sia un gruppo di case vecchie,
scalcinate, o l’angolo d’un canale tortuoso coll’acqua verde nell’ombra,
e i camini del tetto illuminati dal sole sul fondo turchino del cielo.
Le calli più misere, i rii più sporchi, l’erba sulle screpolature dei
marmi, o nelle giunture dei mattoni corrosi, le macchie d’umidità, e i
licheni sulle colonne, sembrano tutti capricci fantastici d’un genio
strambo, che si divertì a intingere il pennello in tutti i colori della
tavolozza.
La bicocca a canto al palazzo, gli stracci e gli sbrendoli che si
mettono ad asciugare in fianco ai marmi preziosi, il pergolato di vite
intorno alla Madonna dei Traghetti, coi gondolieri devoti che la
adornano di fiori, vi accendono il fanaletto, e siedono bestemmiando ai
piedi dell’altarino, sono tutte bizzarrie veneziane che armonizzano coi
suoi prospetti, coi suoi odori, col lusso dei suoi edifizii e le rovine
delle vecchie abitazioni. Tutto è bello a Venezia!... anche il brutto,
ed anzi è preferito dagli artisti nazionali, i quali hanno una vera
ripugnanza per le copie dei monumenti più insigni, che abbandonano agli
artisti stranieri, riservandosi la riproduzione delle case rotte, delle
catapecchie e dei canali tortuosi, che fanno ammirare dal mondo intiero.
Chi desidera una copia della facciata o dell’interno di San Marco, una
veduta della piazza, o della chiesa della Salute, deve ricorrere agli
artisti d’altre nazioni che accettano la commissione lavorando
pazientemente dei lunghi mesi davanti il loro modello, colla più
minuziosa esattezza. L’artista veneziano non si presta a queste opere
monotone, regolari, ed eterne, meravigliose di pazienza e di esattezza;
egli vuole le linee interrotte, i colori smaglianti, le pennellate
franche, la tavolozza svariata, il prospetto capriccioso e fantastico.
Silvio divenne entusiasta di Venezia, colla guida del padre imparò ad
ammirarla fino negli angoli più remoti, ignoti ai volgari, ma adorati da
coloro che sanno scorgere le bellezze più misteriose di questa
incantevole sirena.
Un giorno s’incontrarono col cugino Alessandro che era divenuto
capitano, e passarono insieme alcune ore girando per la città. Il buon
lombardo si lamentava delle viottole anguste, deplorava le esalazioni
dei canali, e l’incomodo dei ponti. Gervasio meravigliato gli osservò:
—Tu non ami Venezia!...
—Anzi mi piace moltissimo, ma.....
—Ma non la comprendi. Tu guardi Venezia con occhio profano; tu non la
vedi!... Ciò che mi dava la nostalgia nell’esilio non erano i suoi
monumenti, ma il suo odore, la sua voce, i suoi colori, le esalazioni
che tu disprezzi!...
Silvio che aveva amata Venezia prima di conoscerla, per le descrizioni
che gli vennero fatte fino dalla infanzia, dopo d’averla veduta la
ammirava alla maniera patema, e mostrava il desiderio di abitarla per
qualche tempo.

Il buon padre gli promise di contentarlo.
—Adesso, gli disse, devi pensare agli studi del liceo, ma quando avrai
compiuto il corso legale, ed ottenuta la laurea, verrai a far la pratica
di avvocato a Venezia.
Silvio era beato, ma il capitano Alessandro non poteva comprenderlo;
egli preferiva le ampie strade di Torino, e le lunghe passeggiate in
campagna.
Lo invitarono alla villa ove avrebbe potuto soddisfare i suoi gusti di
cacciatore, ove sua cugina Maddalena desiderava vivamente di vederlo.
Egli promise che avrebbe chiesto una licenza di qualche giorno, e con
questa bella promessa il padre ed il figlio ritornarono a casa.
Maria aspettava ansiosamente il cugino Silvio per metterlo al corrente
delle abitudini di famiglia.
—Ti procurerò delle belle conoscenze, gli disse, ti metterò a parte di
alcuni miei segreti che ti saranno utilissimi,—e precedendolo
allegramente entrò nel parco, invitandolo a seguirla.
Giunti ad un boschetto fitto di rami arruffati, che lasciavano verso
terra una stretta apertura:
—Abbassa la testa, gli disse, ed entriamo.
—Dove si va? le chiese Silvio, che temeva di scompigliarsi i capelli ben
pettinati.

—Hai paura? gli disse Maria, guardandolo cogli occhi ridenti, e
prorompendo in uno scroscio di risa argentine.
—Dove mi conduci? le domandò Silvio.
—Nel mio nido prediletto, essa gli rispose, vieni e sarai contento.
—E che cosa faremo nel tuo nido?
—Oh bella! quello che si fa in tutti i nidi....
Silvio la guardava fissamente, esitava ancora, non capiva, gli seccava
molto di cacciarsi dentro quell’arruffio di rami intrecciati.
—Ma infine, che cosa faremo nel tuo nido.....
—E tu non sai quello che si fa dentro ai nidi?... Si mangia, si canta,
si dorme, andiamo non aver paura, vieni con me;—e così dicendo si mise
in ginocchio, abbassò la testa, e scomparve. E si udiva ancora la sua
voce, che gli gridava dall’interno:—Vieni avanti. Silvio non voleva
contrariarla, si rassegnò, si mise in ginocchio, abbassò la testa, ed
entrò.
Se l’ingresso era angusto il nido era comodo, e vi si stava benissimo
tanto seduti che sdraiati. Era fatto come un casotto da uccellanda. I
rami legati coi vimini formavano delle fitte pareti che non lasciavano
penetrare il sole. Il sentore della terra e delle foglie fermentate,
facevano esalare un profumo boschereccio.

Silvio guardando d’intorno con aria sospettosa le disse:
—Dimmi un po’ non ci sono delle biscie qui sotto?
—Ma no di certo, essa gli rispose ridendo, sta pur tranquillo. Le biscie
stanno sotto terra o cercano il sole, io non ne ho mai vedute da questa
parte.
—E che cosa facciamo qui?
—Adesso te lo dirò, abbi un po’ di pazienza.
Allora cominciò a frugarsi in tasca, ne trasse due pomi, ne offrì uno al
cugino, e si mise subito a sbocconcellare l’altro con grande appetito.
Silvio la ringraziò e tirato fuori il temperino voleva tagliarle il
frutto.
—Non ne ho bisogno, essa gli disse, e spalancando la bocca, metteva in
lavoro i bei denti bianchi che tagliavano meglio del temperino.
Silvio pelò il pomo, ne tagliò quattro spicchi, ne infilò uno nella lama
e glielo offerse. Essa che aveva divorato il suo pomo, gradì anche
l’altra parte e se la mangiò tranquillamente. Poi rifrugò nelle tasche,
e tirò fuori un cartoccio di biscottini, e si misero a sgranocchiarli.
Silvio cominciava a prender piacere a quella merendina, a quell’ombra, a
quella quiete, quando si udirono dei passi sulle foglie secche del
viale, e poi tutto d’un tratto, Argo ansante balzò come una bomba nel
nido, e colle sue goffe carezze apportò il disordine, la confusione, e
lo scompiglio. Contento d’aver trovato la sua amica, si mise a
esprimerne la gioia leccandole il viso, saltando, scodinzolando e
You have read 1 text from Italian literature.
Next - La famiglia Bonifazio; racconto - 07
  • Parts
  • La famiglia Bonifazio; racconto - 01
    Total number of words is 4197
    Total number of unique words is 1759
    37.2 of words are in the 2000 most common words
    52.8 of words are in the 5000 most common words
    61.1 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • La famiglia Bonifazio; racconto - 02
    Total number of words is 4309
    Total number of unique words is 1733
    36.9 of words are in the 2000 most common words
    51.8 of words are in the 5000 most common words
    59.7 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • La famiglia Bonifazio; racconto - 03
    Total number of words is 4273
    Total number of unique words is 1826
    35.2 of words are in the 2000 most common words
    50.8 of words are in the 5000 most common words
    59.8 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • La famiglia Bonifazio; racconto - 04
    Total number of words is 4380
    Total number of unique words is 1718
    36.0 of words are in the 2000 most common words
    51.7 of words are in the 5000 most common words
    60.3 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • La famiglia Bonifazio; racconto - 05
    Total number of words is 4401
    Total number of unique words is 1756
    35.9 of words are in the 2000 most common words
    53.2 of words are in the 5000 most common words
    61.8 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • La famiglia Bonifazio; racconto - 06
    Total number of words is 4326
    Total number of unique words is 1863
    33.3 of words are in the 2000 most common words
    50.4 of words are in the 5000 most common words
    58.1 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • La famiglia Bonifazio; racconto - 07
    Total number of words is 4417
    Total number of unique words is 1847
    33.2 of words are in the 2000 most common words
    47.8 of words are in the 5000 most common words
    55.8 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • La famiglia Bonifazio; racconto - 08
    Total number of words is 4394
    Total number of unique words is 1839
    34.0 of words are in the 2000 most common words
    50.1 of words are in the 5000 most common words
    58.7 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • La famiglia Bonifazio; racconto - 09
    Total number of words is 4347
    Total number of unique words is 1808
    32.1 of words are in the 2000 most common words
    46.0 of words are in the 5000 most common words
    55.3 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • La famiglia Bonifazio; racconto - 10
    Total number of words is 4376
    Total number of unique words is 1806
    33.0 of words are in the 2000 most common words
    49.5 of words are in the 5000 most common words
    57.7 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • La famiglia Bonifazio; racconto - 11
    Total number of words is 4420
    Total number of unique words is 1728
    35.2 of words are in the 2000 most common words
    52.0 of words are in the 5000 most common words
    61.1 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • La famiglia Bonifazio; racconto - 12
    Total number of words is 4411
    Total number of unique words is 1762
    34.2 of words are in the 2000 most common words
    50.6 of words are in the 5000 most common words
    58.8 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • La famiglia Bonifazio; racconto - 13
    Total number of words is 4368
    Total number of unique words is 1662
    36.5 of words are in the 2000 most common words
    51.9 of words are in the 5000 most common words
    60.8 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • La famiglia Bonifazio; racconto - 14
    Total number of words is 4383
    Total number of unique words is 1743
    33.0 of words are in the 2000 most common words
    49.3 of words are in the 5000 most common words
    58.2 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • La famiglia Bonifazio; racconto - 15
    Total number of words is 4341
    Total number of unique words is 1738
    36.8 of words are in the 2000 most common words
    50.8 of words are in the 5000 most common words
    58.9 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • La famiglia Bonifazio; racconto - 16
    Total number of words is 4415
    Total number of unique words is 1623
    35.1 of words are in the 2000 most common words
    51.4 of words are in the 5000 most common words
    60.9 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • La famiglia Bonifazio; racconto - 17
    Total number of words is 2692
    Total number of unique words is 1155
    41.1 of words are in the 2000 most common words
    55.7 of words are in the 5000 most common words
    63.4 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.