La famiglia Bonifazio; racconto - 13

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monogamo, dentro e fuori della legge.
Metilde non capiva niente di questi discorsi strampalati, e non aveva la
forza di domandare spiegazioni. Pallida, affranta nel suo letto ornato
di pizzi, volgeva lo sguardo alla cuna, ove riposava la bimba, e la
contemplava con affettuosa compiacenza.
Nel lungo puerperio non riusciva a riacquistare le forze, l’allattamento
la immagriva, il medico raccomandava ogni riguardo, e di risparmiarle la
benchè minima fatica, e il più semplice disagio.
Silvio era stato costretto dalla necessità a raddoppiare il lavoro per
non mancare dei mezzi necessari a far fronte a tante spese. Lavorava
allo studio ed in casa, trattava gli affari curiali, scriveva articoli,
faceva il brodo ristretto e la pappa, e gli mancava anche il riposo
della notte. Si coricava tardi, oppresso dalla stanchezza, ma dopo breve
tempo il pianto della bimba lo risvegliava. Udiva dapprima fra la veglia
e il sonno un lieve lamento, un piagnucolare sommesso, che a poco a poco
si trasmutava in un piagnisteo e diventava un belato rumoroso e continuo
che lo obbligava ad alzarsi. Andava a prendere la bambina, la portava
alla mamma che la allattava, poi la riponeva in cuna, si gettava in
letto e ritornava ad addormentarsi, ma poco dopo ricominciava la stessa
solfa. Si alzava sudato, la riportava in giro sul suo guanciale per la
camera fredda. La bimba aveva lo spasimo, gridava per molte ore
consecutive, a brevi intervalli; consultarono il medico il quale osservò
che la madre faceva poco latte, e trovò indispensabile di aggiungere il
poppatoio alla alimentazione insufficiente. Ed ecco l’avvocato,
giornalista, cuoco, diventato anche balia, incaricato di alimentare la
bimba col poppatoio; e passava gran parte della notte in veste da
camera, con un fazzoletto allacciato in testa, a cantare la ninna nanna
colla bambina sulle braccia.
Dopo lo spasimo e la fame vennero i vermi e la dentizione, e il buon
babbo somministrava lo sciropetto di cicoria, fregava le gingive della
bimba col dentaruolo di avorio; ma quelle tribolazioni di bambinaia e di
balia aggiunte alle fatiche del foro, alle elucubrazioni del
giornalismo, ed alle manipolazioni della cucina furono superiori alle
sue forze, non tardarono a riuscirgli insopportabili, e volendo egli
lottare con vani tentativi di resistenza, finirono per opprimerlo
completamente e gettarlo in letto con una grave malattia.
Meno male che Metilde cominciava a riaversi, si alzava dal letto, e
poteva occuparsi della bimba. Il medico ordinò che la Betta andasse a
dormire nella stanza della signora, e si cercasse qualche altra persona
per l’assistenza del malato, passato in altra camera.
La signora Emilia si dichiarava troppo sensibile, e poco pratica per
assistere gl’infermi; fece venire una donna provvisoria, e consigliò
Metilde di scrivere al signor Gervasio, pregandolo che mandasse la
nonna.
Ma per disgrazia di tutti, in quello stesso giorno era successo un
brutto accidente anche alla villa Bonifazio. La povera nonna era stata
colpita da un insulto apoplettico, e se le fossero mancati i pronti
soccorsi del medico, avrebbe dovuto soccombere. Portata in letto priva
dei sensi era alquanto rinvenuta dopo il salasso, ma la paralisi le
toglieva i movimenti e la favella. Borbottava delle parole confuse, e
non poteva muoversi senza aiuto. Maria chiamata in fretta accorse subito
al letto della povera paralitica, e non la abbandonava un momento. Papà
Gervasio per l’improvvisa afflizione sentiva aggravate le sue sofferenze
agli intestini, non si allontanava che per brevi istanti dalla camera
della madre, non era in caso di accorrere a Venezia, e non poteva
mandare nessuno in assistenza del figlio.
Queste desolanti notizie afflissero grandemente le due famiglie di
Venezia, che si trovavano in grave imbarazzo. La signora Emilia
affaccendata correva dalla sua casa a quella della figlia, si consultava
con tutti, ma non ascoltava nessuno, si lamentava sulla sua sorte,
gemeva per lo stato di debolezza di Metilde, le raccomandava la quiete e
il riposo, deplorava il colpo apoplettico che aveva colpito la signora
Bonifazio fuori di tempo, confondeva le cose, sgridava la Betta, voleva
insegnarle a fare il brodo per gli ammalati, lo lasciava cadere sul
fuoco e infettava la casa col fumo dell’unto bruciato, e concludeva con
un atto di accusa contro quel benedetto omo di suo genero, che non aveva
preveduto nulla, che colle sue imprudenze s’era guadagnato quella
malattia, che metteva in iscompiglio tutta la casa in un momento
importuno. Metilde cercava invano di giustificare il marito, il povero
diavolo si era troppo affaticato per assisterla, aveva preso freddo di
notte, e lavorava soverchiamente pei bisogni della famiglia...
—Tu taci, che non sai nulla, le rispondeva sua madre; gli uomini sono
testardi, e non sanno mai regolarsi, avrà mangiato troppo di quella sua
cucina pesante.... avrà fatto qualche disordine. Tutti i mariti, o quasi
tutti assistono le mogli puerpere; è il loro dovere; non ci mancherebbe
altro che si rifiutassero... nessuno si ammala per questo!...
—Povero Silvio! esclamava Metilde, adesso è inutile di cercare i motivi
del suo male; adesso è ammalato e non dobbiamo pensare ad altro che a
guarirlo. Il medico dice che quella donna non basta; se potesse bastare
almeno per la notte che io ci ho la bimba che non posso abbandonare,
farei il possibile anch’io per assisterlo durante il giorno.
—Sei matta! non sai proprio quello che dici. Non si conosce ancora la
sua malattia; pare che sarà tifo, una malattia contagiosa! Tu non devi
nemmeno entrare nella sua stanza, non devi esporti al pericolo, non hai
forze bastanti per resistere a tante fatiche, devi pensare prima di
tutto alla tua salute, è il tuo dovere di madre!...
—E così, chi assisterà mio marito!
—Un infermiere!... di qua non si scappa; costerà di sicuro del denaro,
ma il vecchio Gervasio pagherà; senza infermiere non è possibile di
andare avanti. Ne ho già parlato al medico... mi sono intesa con lui,
che ha promesso di trovarlo.

—Ah! povero Silvio, quando si vedrà assistito da un estraneo, come
resterà crudelmente colpito; si crederà abbandonato da tutti, e questa
amarezza potrebbe peggiorare il suo male.
—Non aver paura di questo, egli non conosce più chi gli sta intorno, non
risponde alle domande che con un gemito insignificante, forse non
capisce più nulla!...
Metilde piangeva, sua madre la sgridava, facendole osservare che le
lagrime in questi casi non servono a nulla, e rovinano gli occhi.
Il medico venne con l’infermiere, esaminò nuovamente il malato, e non
seppe dissimulare la sua inquietudine. Era giovane anche lui, amico di
Silvio, molto studioso, ma esercitava da poco tempo la professione, e ne
sentiva la grave responsabilità. Mostrò desiderio di consultarsi con un
medico provetto, e propose il celebre dottor Pellegrini. Le signore
acconsentirono subito, ed alla sera ebbe luogo il consulto.
Il dottor Pellegrini, dopo d’aver ascoltato una relazione del medico
curante, esaminò attentamente l’infermo e volle essere informato
esattamente delle condizioni fisiche dei parenti, perchè era convinto
che ogni individuo riceve coi germi della vita anche quelli della morte.
—Le buone e le cattive qualità del sangue, egli diceva, producono la
salute o le malattie, predispongono le azioni del galantuomo e del
birbone, le opere dell’uomo di genio e dell’imbecille. Cerchiamo dunque
prima di tutto, di conoscere le origini, di studiare negli ascendenti le
tendenze del nostro soggetto. È certo che l’ambiente, la professione, il
genere di vita, gli alimenti, le cure igieniche o i disordini,
esercitano la loro influenza, modificano le tendenze, le accelerano o le
ritardano secondo i casi. Ma tanto l’albero che l’uomo non possono dare
che ciò che hanno nel sugo vegetale e nel sangue. È certo che il
castagno non farà mai pesche; nè un prossimo parente dell’ultimo doge di
Venezia si metterà alla testa di mille uomini per liberare la Sicilia;
nè un letterato avrà le stesse malattie d’un cuoco!...
A queste parole Metilde arrossì, e subiva nella coscienza una lotta fra
la vergogna e il rimorso. «Se parlo,—essa pensava,—faccio palese la mia
inettitudine come padrona di casa; se taccio arrischio la vita di mio
marito! Mio Dio! che devo fare?...» Le parve di trovare un espediente e
chiese al medico:
—Mi dica un poco, dottore, se un uomo solo facesse il letterato ed il
cuoco, quali sarebbero le sue malattie?

Il medico sorrise alquanto, e le rispose, con grande meraviglia di
Metilde.
—Ne ho conosciuti moltissimi anche di questi, un mio amico
improvvisatore, faceva una famosa cucina!... In questo caso, vede mia
cara signora, le opere letterarie diventano pasticci, e i pasticci
diventano poemi.... cioè sono composti dei più svariati ingredienti....
Ciò non vuol dire che riescano sempre deliziosi come l’Orlando Furioso;
anzi talvolta sono indigesti come qualche altro poema... che le auguro
di non leggere.
Allora Metilde si fece coraggio, e confessò:
—Devo avvertirla per sua norma, dottore, che mio marito si diverte a far
la cucina....
—Ah! bravissimo, disse il dottore, conosco anche qualche avvocato che sa
arrostire a meraviglia i suoi polli, e li fa mangiare in tutte le
salse....
—Forse il fuoco dei fornelli, avrà fatto male a mio marito?...
—Se fosse così, si consoli; questo fuoco non è micidiale come quello
delle battaglie, non domanda eroismo per affrontarlo, e si guarisce
facilmente da’ suoi effetti. Non abbia timore, ripareremo a tutti i
malanni. Il sangue dei Bonifazio è buono, la patria ha tutto l’interesse
di conservarlo.

E fatte le sue prescrizioni, prese commiato dalla signora, ed uscì
seguito dal suo collega.
Quando furono in istrada il dottore Pellegrini continuava a fare quelle
domande, che non dovevano udirsi dalla famiglia.
—Quali sono le condizioni morali dell’ammalato? ha dei pensieri gravi?
delle preoccupazioni attristanti?...
—Credo, gli rispondeva il collega, che abbia molti debiti....
—Lo purghi con perseveranza.... Ha forse dei patemi d’animo?
—Ha una suocera... vecchia elegante....
—Vi aggiunga del rabarbaro....
La malattia procedeva regolarmente, senza nuovi accidenti; ma pochi
giorni dopo cominciò ad ammalarsi anche la bambina, e il medico non
sapeva che ordinarle. L’ammalato se ne accorse per la confusione della
casa, sospettò che le mancassero i dovuti riguardi, e se ne lamentava
coll’infermiere, dicendo:
—La Betta non avrà la pazienza di cambiarla spesso, ed io credo che mia
moglie non se ne intenda; la mia malattia è una doppia disgrazia!...
Raccomandava al medico di esaminare il contenuto del poppatoio, che non
si fidasse della mala fede della domestica, e che insegnasse alla
signora tutte le cure necessarie, perchè non è stata mai avvezza ad
assistere malati. Così gli crescevano le inquietudini, anche per le
notizie poco soddisfacenti che venivano dalla villa, e quando avrebbe
dovuto star meglio la malattia si aggravava.



XVII.

Alla villa Bonifazio succedevano dei fatti importanti. La nonna non
aveva riacquistato nè il movimento, nè la favella, pareva che intendesse
ciò che le dicevano, dai movimenti della testa e degli occhi, ma non
poteva che borbottare poche parole incomplete e confuse. Papà Gervasio
era sempre sofferente, e malgrado l’assiduità di Maria si mostrava
desolato ogni qual volta essa era costretta di ritornare al domicilio
coniugale. Senza una donna di cuore in casa, con quell’egoista di
Pasquale, che veniva tollerato per la somma difficoltà di sostituirlo, e
di ammettere un nuovo domestico in momenti disgraziati, senza la
direzione della padrona di casa resa impotente dal malore, col figlio
ammalato a Venezia, che non poteva giovarlo in nessuna maniera, il
povero Gervasio si sentiva disperato, e prevedeva che il disordine
crescente e l’abbandono di tutti, avrebbero portato agli estremi le sue
disgrazie.

Il vecchio maestro Zecchini che si studiava di confortarlo ebbe una
buona idea.
—Perchè non v’intendete coi Pigna, gli disse, per prendere in casa i
nipoti, e non fate padrona di casa la Maria!...
—Per riguardo verso mio figlio e la nuora, rispose Gervasio, che
potrebbero offendersi della preferenza....
—Non è una preferenza, è una necessità inevitabile. Vostro figlio e
vostra nuora non verranno mai più a stabilirsi in campagna; che cosa
farete voi solo e malescio con vostra madre resa impotente
dall’infermità? Non abbiate riguardi ed anzi per l’interesse stesso di
vostro figlio e della sua famiglia, chiamate Maria a dirigere la vostra
casa, e avrete, oltre la sua valente assistenza, anche l’aiuto e la
sorveglianza di suo marito.
Non fu difficile convincerlo, perchè questo era il suo stesso desiderio.
Ogni cosa fu prontamente combinata; i vecchi Pigna aderirono subito
perchè ci vedevano il loro interesse; la famiglia di Venezia non ebbe
motivo di sorprendersi d’un avvenimento suggerito dalla necessità a
vantaggio di tutti. I giovani sposi trasportarono prontamente i loro
arredi in casa dello zio e della nonna e vi presero stabile domicilio.

Andrea aveva prese le abitudini dei Bonifazio, e vi si era affezionato;
Maria che sentiva tanto bisogno di non abbandonare la nonna, era
lietissima di rientrare in casa della sua famiglia ove era nata, ove
aveva tante memorie e tanti amici, ove i bisogni del cuore, e tutte le
necessità della vita la rendevano indispensabile.
Essa riprese con bontà ed energia il suo antico dominio, e papà Gervasio
ne fu così lieto che gli parve anche di star meglio di salute, e si
propose di seguire i consigli del medico, ai quali non faceva più
attenzione per le afflizioni che gli amareggiavano l’esistenza.
Le sue sofferenze esigevano un esercizio moderato; l’immobilità gli
riusciva dannosa quanto l’esercizio violento. Non poteva camminare senza
incomodo, non poteva subire le scosse della vettura senza inconvenienti.
Si fidava benissimo di Falcone, cavallo onorato e tranquillo; ma era
ancora troppo brioso per lui, perchè restando lungamente in scuderia,
quando lo attaccavano al legno salutava l’aria aperta dei campi con
ripetuti nitriti, e faceva dei salti d’allegria.
Il medico lo aveva consigliato di acquistare un somarello e un
carrettino relativo, e di farsi trascinare senza scosse per le vie
battute. Aveva seguito il consiglio, e l’asinello seppe meritarsi
facilmente le simpatie di Maria, che gli aveva messo nome Martino.
Collocato in scuderia nella posta vicina al Falcone, i due animali si
facevano buona compagnia, si strinsero prontamente in amicizia, e
vennero ammessi alle stesse profende d’avena, alle stesse largizioni di
pane e di zucchero, ed alle carezze della mano affettuosa di Maria.
Quando uno dei due era tirato fuori dalla stalla, l’altro mandava dei
lamenti dolorosi, e continuava a dolersi durante l’assenza del compagno,
e al ritorno si udivano i reciproci saluti, gli allegri nitriti del
cavallo e i ragli ripetuti dell’asino.
Martino aveva imparato da Falcone a poggiare il muso sulle spalle della
signora, a frugarle le tasche colla bocca, a dimostrare in diversi modi
il piacere di vederla, e la riconoscenza dei doni ricevuti.
Maria ne faceva l’elogio al maestro Zecchini, lo conduceva in scuderia a
fare conoscenza col nuovo amico.
Papà Gervasio li seguiva insieme con Andrea, si lodava moltissimo
dell’onestà e della intelligenza dell’animale, che gli si rendeva così
utile, Pasquale voleva convincerli che il somaro era migliore del
cavallo; guai se egli tardava un momento a somministrare l’avena a
Falcone, appena trascorsa l’ora il cavallo si dimenava impaziente, e
batteva le zampe in segno di collera. Martino aspettava rassegnato, non
si lamentava mai, si contentava d’ogni cibo, ed anche in piccola
porzione.
Uscendo dalla scuderia Andrea confermò i detti di Pasquale e ne fece i
commenti; egli asserì che il cocchiere rubava la avena, e preferiva il
somaro, perchè la povera bestia non si lamentava d’esserne intieramente
privata, quando a Falcone era obbligato di darne almeno una parte per
farlo tacere. Pasquale va in furia, disse Andrea, per questa esigenza
del cavallo, bestemmia, e lo bastona. L’ho veduto io coi miei occhi.
Alcuni giorni dopo questa visita alla scuderia papà Gervasio si trovò in
salotto col maestro Zecchini che stava seduto sulla poltrona in aspetto
malinconico, silenzioso, cogli occhi bassi, rispondendo appena alle
interrogazioni con parole tronche e recise. Si mostrò sorpreso di quei
laconismi, e gli domandò se qualche afflizione lo rendeva così triste e
pensieroso.
—Sicuro, ho una grande afflizione, gli rispose il maestro, e si può
averne per motivi meno gravi del mio. Che cosa pensereste voi se
un’opinione sostenuta in tutto il corso della vita, e costantemente
confermata dalla esperienza, cominciasse a mostrarvisi erronea nell’età
più avanzata?

—Avete dunque da deplorare un simile disinganno?
—Pur troppo!... pur troppo!... Voi sapete benissimo che ho ripetuto
sempre la stessa cosa, per un lungo corso di anni, ho sempre detto che
l’uomo è un asino!
—Ebbene?...
—Ebbene, ho gran paura d’aver calunniato l’asino!...
—Ma come vi vengono questi scrupoli?
—Dall’attenta osservazione. Ho fatto un esatto studio comparativo fra il
vostro domestico e il vostro somaro, e mi risulta che Martino è
superiore a Pasquale in tutti i punti. L’asino è buono e Pasquale è
crudele: l’asino è sobrio e Pasquale è un ghiottone; l’asino è paziente
e Pasquale è violento; l’asino è onesto e Pasquale è un briccone;
l’asino è pacifico e Pasquale è un accattabrighe; l’asino è utile e
Pasquale è dannoso, l’asino è riconoscente e Pasquale è un ingrato....
—Queste sono tutte verità indiscutibili!
—Dunque la mia teoria è stata un errore! che ha ingannato una lunga
esistenza....
—Consolatevi, forse la vostra teoria non è sbagliata quanto può sembrare
a prima vista. Voi conoscete la legge delle compensazioni. Applicate
questa legge al vostro caso; se vi sono degli uomini che si possono
mettere senza scrupoli al di sotto degli asini, ve ne sono di quelli che
bisogna metterli molto al di sopra, molto più in alto, ed è forse per
questo che si chiamano uomini superiori! Ebbene le due eccezioni si
compensano fra loro; e resta la grande maggioranza del genere umano, che
dà perfettamente ragione alla vostra teoria.
La loro conversazione fu interrotta da un rumore della stanza vicina.
Poco dopo Pasquale spalancò la porta che metteva al piano superiore, e
videro entrare Andrea e Maria che portavano in un seggiolone la nonna
paralitica. Il medico aveva ordinato di farla alzare dal letto, di
vestirla, di trasportarla al pian terreno, ove l’aria balsamica del
giardino, le avrebbe fatto del bene. E infatti essa guardava attorno con
sguardo curioso, e meno triste. Pareva che la povera donna sorgesse dal
sepolcro, tanto era pallida e magra, e che ritornando fra suoi diletti,
rivedesse con piacere i cari volti del figlio, dei nipoti, dell’amico, e
quelle pareti che le raccontavano una lunga storia di ansie e di dolori,
di affanni, di lagrime, temperate appena da qualche raggio fuggitivo di
gioia, da qualche bel giorno sereno fra le burrasche della vita.
Tutti le furono intorno con congratulazioni ed auguri. Essa ascoltava e
mostrava di comprendere, ma non poteva rispondere che con un sorriso ed
una lagrima, muoveva anche le labbra, ma la parola usciva confusa e
incomprensibile. La mano paralitica era sostenuta da un fazzoletto
assicurato alla spalla, l’altra che poteva muoversi la teneva appoggiata
affettuosamente sulla testa di Maria, come una santa benedizione che
invocasse il cielo per lei.
—Povera donna! esclamava Gervasio, asciugandosi una lagrima col dorso
della mano, tanta operosità, tanta vita, ridotte in questo stato!...
—Se possiamo conservarla così, rispose Maria, tenerla con noi,
consolarla ed assisterla, non abbiamo diritto di lamentarci. Quando
penso che potevamo perderla per sempre, ringrazio Iddio di avercela
conservata, anche in questo stato.
Pasquale che era uscito, ritornò poco dopo con una lettera.
Metilde teneva informata esattamente la famiglia, sulla salute dei suoi
ammalati che andavano migliorando. La febbre e le sofferenze di Silvio
erano assai più miti, egli domandava continuamente della sua famiglia
lontana. Chiamava suo padre, la nonna, Maria, e li pregava di scrivere.
La piccola Camilla ricominciava a zampettare, e rideva quando le
facevano il bausette, ma talvolta la sua faccina si alterava tutto ad un
tratto, e le uscivano dagli occhi dei lucciconi che mostravano le sue
sofferenze. Saranno i vermi, il medico non sa che cosa ordinarle, ma ci
dice di sperar bene. «Questa parola _sperare_, che dovrebbe consolarmi,
mi fa paura, scriveva Metilde; ogni speranza ammette un dubbio, che nel
mio caso è spaventoso. La povera bimba è molto esile, delicata, i suoi
lamenti che non posso tradurre nè intendere mi mettono alla
disperazione. Ah! se potessi indovinare che cosa domanda! le darei
l’anima mia. Sento che se dovessi perderla non avrei più la forza di
vivere. Se Maria potesse darmi un consiglio, aspetto ansiosamente le sue
lettere.»
Maria cercava di risponderle il meno male che fosse possibile, ma questa
corrispondenza le riusciva un poco imbarazzante. Tuttavia, avvezza a
molti sacrifizi non osava rifiutarsi al più grande di tutti. Stava al
tavolo delle ore intiere per mettere insieme una pagina tutta piena di
strambotti; cancellava, tornava a provare, sostituiva uno sproposito ad
un altro, poi ricopiava varie volte, e finiva sospirando, tutta rossa in
viso, e colle dita sporche d’inchiostro.
Quando Metilde leggeva queste lettere a suo marito cercava di
dissimulare, per quanto le era possibile, la soddisfazione che provava
della inferiorità della cugina, ma un certo sorriso sarcastico svelava i
suoi pensieri e attristava Silvio.
Papà Gervasio scriveva più raramente, per sollevare Maria, si limitava a
far coraggio a’ suoi figli, dava le notizie precise della famiglia, e
basta.
Quando c’erano buone nuove, Metilde scriveva con brio, e pareva che il
suo buon umore, pieno di grazia, si spandesse per la casa, come una
consolazione soave. Quando il marito o la bimba peggioravano, le sue
espressioni prendevano un senso così doloroso che stringevano il cuore.
Aveva delle frasi nuove, originali, tutte sue, che riuscivano balsami o
frecce, secondo i casi.
Quando leggevano quelle lettere, tutti stavano attenti ad ammirarle, e
papà Gervasio esclamava:
—Scrive come una fata! si vede che ha ricevuto una educazione letteraria
perfetta!...
—Peccato, osservava il maestro, ma proprio peccato che non sappia
cuocere due uova al burro!...
Un giorno Metilde ricevette una lettera di Maria con tali errori,
sconcordanze, ed equivoci burleschi, che leggendola a suo marito, senza
essersi apparecchiata, non le fu possibile di frenare uno scoppio di
risa argentine che parvero colpire l’ammalato come tante laminette
taglienti. Essa lo vide sconvolto, si pentì subito della sua imprudenza,
gliene fece mille scuse colle lagrime agli occhi, ma fu peggio di tutto.
Egli chiuse in sè stesso quella dolorosa impressione, ma sulla sera fu
ripreso dai brividi della febbre con acute sofferenze d’intestini.
Il medico alla cura, fortemente impressionato dalla impreveduta
recrudescenza della malattia, volle udire nuovamente l’opinione del
dottore Pellegrini, il quale comparve per la seconda volta al letto
dell’infermo.
Il medico alla cura chiese alla signora che cosa aveva mangiato suo
marito.
—Un semplice brodo con un tuorlo d’uovo, essa rispose.
—Nemmeno se fosse stato un uovo di serpente! esclamò il medico, e volle
sapere che cosa avesse bevuto.
—La solita acqua di limone allungata.
—Ha preso aria? Hanno aperte le finestre!
—Mai! mai, mai....
Intanto il dottor Pellegrini taceva. Seduto in fianco al letto colla
mano al polso dell’ammalato, cogli occhi intenti nel volto di lui, lo
andava guardando con profonda attenzione, come volesse scrutarne i
pensieri. Quando il medico alla cura ebbe finito il suo esame, il medico
consulente cominciò colla interrogazione seguente:
—Chi è venuto oggi a trovarlo?...
—Nessuno affatto... rispose Metilde.
—La signora, o la domestica gli avranno data qualche notizia?...
—Gli ho letto una lettera della famiglia
—Ah!... fece il dottor Pellegrini, poi rivolto al collega gli disse:
Ecco il motore!... ecco l’agente! e rivolto alla signora gli domandò:
—Erano forse notizie attristanti?...
—Tutt’altro.... erano buone notizie.... tutti stanno un po’ meglio.
—Allora ha sorriso per la gioia, o ha pianto di consolazione?
—Non ha nè riso nè pianto.
—Chi scriveva quella lettera?
—Nostra cugina....
—Una cugina.... nubile?... maritata?...
—Maritata, maritata, rispose Metilde con un po’ di dispetto, tanto la
seccavano quelle interrogazioni indiscrete.
—Vedo che la signora mi trova troppo curioso, osservò il dottore; ella
crede certamente inutili le mie domande. Ebbene, io voglio giustificarmi
perchè parlo con persona che intende. Ella deve dunque sapere, cara
signora, che ogni uomo obbedisce come uno schiavo ad un complesso di
leggi che non conosce. Molte ispirazioni elevate, molti sentimenti
generosi non sono che effetti d’un alimento o d’una bevanda, e così pure
molti dolori intestinali sono prodotti da un’impressione morale. Se
nessun cibo e nessuna bevanda hanno fatto male a suo marito, bisogna
cercarne la causa nel cervello o nel cuore, perchè questi organi sono
strettamente legati agli intestini, come il telegrafo di Venezia è
legato a quello di Roma. Tutte le parti del nostro corpo corrispondono
fra loro, e comunicano cogli agenti esterni non solo colla bocca, ma
ancora cogli occhi e colle orecchie, quello che si vede e che si sente
può produrre gli stessi effetti di quello che si mangia; una lettura può
agire come un veleno; un paesaggio come un calmante. La collera, il
disinganno, l’invidia alterano il fegato, i debiti fanno dolere la
testa, la paura agisce sulla vescica e sugli intestini.... Ella vede
dunque chiaramente che è stata quella lettera, che avendo trovato suo
marito in uno stato di profonda debolezza, ha prodotto gli effetti
dolorosi che ora dobbiamo risanare.
A queste parole, Silvio si scosse dal letargo nel quale lo aveva gettato
la febbre, e disse:
—È verissimo quello che dice il dottore, l’inasprimento delle mie
sofferenze è una conseguenza di quella lettera; essa mi ha fortemente
contrariato ed afflitto.
—Ecco trovata la causa, conchiuse il dottor Pellegrini, adesso tocca a
noi a modificarne gli effetti, e a riparare i danni prodotti.
Metilde in piedi davanti il letto guardava il marito con occhio torvo,
mentre il dottor Pellegrini scriveva una ricetta, parlando sotto voce
col collega, che mostrava di approvarlo col movimento del capo.
Il giorno seguente toccò alla piccola Camilla d’essere molto sofferente.
Il medico la trovò aggravatissima. La madre afflitta ed inquieta era
poco fiduciosa nel dottore, ma non voleva nemmeno consultare quel famoso
Pellegrini che cominciava a diventarle antipatico. Pregò sua madre di
mandarle il loro vecchio medico di casa, che non faceva tante domande
suggestive, che ordinava ai bimbi dei biscottini, ed agli adulti quei
beveroni di fieno filtrato, i quali contenendo tutte le erbe medicinali
conosciute, dovevano giovare a tutte le malattie. Ma il povero vecchio
era morto da qualche tempo, senza lasciare degli allievi. La piccola
ammalata peggiorava, il giovane medico consigliò la signora di chiamare
ancora il Pellegrini, e nell’interesse della bambina dovette rassegnarsi
al nuovo consulto.

Quando udì il campanello che annunziava la visita all’ora fissata, la
signora agitata da diverse sensazioni andò ad incontrare i medici in
anticamera; li ricevette con un certo sussiego, e quando furono davanti
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