La famiglia Bonifazio; racconto - 03

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Appena ritornato dalla Brianza, il capitano Bonifazio invitò a pranzo il
maestro Zecchini per presentarlo alla sposa, come amico e vicino di
casa. Il maestro rimase colpito dalla bellezza lombarda della signora
Maddalena, e per esprimere la sua ammirazione in modo che gli pareva
molto appropriato, cominciò a raccontare a tutti i suoi amici e
conoscenti che la sposa del capitano aveva due occhi da carbonara. E
questa fu vera imprudenza, in un tempo, nel quale gli stessi mercanti di
carbone non avrebbero osato chiamarsi col loro nome.
Guai se il capitano lo avesse udito! ma il maestro contemplando quegli
occhi bruciava in silenzio, nascondeva le brace sotto la cenere, e
pensando al carattere vivace dell’amico celibe, aveva doppia paura
dell’amico ammogliato quantunque costui avesse dei pensieri molto più
gravi di quello di sospettare del maestro Zecchini.
Malgrado tutte le precauzioni passibili, il primo tempo di quel
matrimonio non poteva essere tranquillo e sereno, come sogliono essere
tutte le lune di miele. A certe suonate di campanello il capitano
lasciava trasparire un’involontaria apprensione, come al tempo degli
arresti, a certi rumori notturni egli si alzava dal letto e andava a
spiare attraverso le gelosie. La giovane sposa indovinava la causa di
quelle inquietudini, e ne divideva le ansietà.
Tale condizione di cose rendeva il capitano più bisbetico del solito, e
avendo ripreso le partite serali delle carte, ad ogni errore commesso il
maestro andava soggetto a dei rabuffi che lo intimidivano; la buona
signora si studiava di consolarlo dei modi bruschi del marito con
indulgenti sorrisi, e sguardi incoraggianti, e l’asino bruciava.
Dopo qualche tempo la partita di terziglio fu abbandonata pel tresette.
Il maestro pregato dal capitano aveva trovato un quarto giuocatore;
certo Giacomo Pigna, fittaiuolo del paese, un po’ rozzo, ma galantuomo,
laborioso ed allegro, e gran bevitore. Egli capitava ogni sera
fedelmente, anche attraverso la neve e le bufere, per fare la solita
partita. Gettava il suo tabarro e il cappellaccio a cencio sopra una
seggiola dell’anticamera, ed entrava intrepidamente nel salotto coi
capelli sulla fronte, l’occhio brillante, il naso violetto, i zigomi
accesi, un buon sorriso sulla bocca, il ventre proeminente, e gli
stivali sopra i calzoni. Il capitano gli dava la mano, che egli non
osava stringere che debolmente, per riguardosa modestia.
Prima di giuocare una carta si bagnava il pollice in bocca, e alla fine
d’ogni partita tirava fuori la scatola di tabacco colla Madonna sul
coperchio, ne offriva agli uomini, diceva le sue barzellette alla
signora, e tirava su pel naso la sua presa, con una profonda
aspirazione.
Il parco diventava sempre più rigoglioso, abbellito di nuove piantagioni
di alberi e di arbusti ornamentali, le macchie si arricchivano di fiori
elegantissimi, l’orto aveva degli erbaggi stupendi, e il cortile
sorvegliato dalla padrona di casa era popolato di numerosi pollami,
d’anitre, tacchini e colombi.
Un anno dopo le nozze un fortunato avvenimento allietò la famiglia, i
parenti e gli amici, la nascita d’un figlio maschio, al quale venne
imposto il nome di Gervasio. Due anni dopo ne nacque un altro, che fu
chiamato Stefano; e così la famiglia cresceva, e viveva abbastanza
felice, una vita tranquilla e regolare, come un paese senza storia.
I bambini vennero allevati all’aria aperta, con una semplice
vesticciuola, un cappello di paglia, e gli zoccoletti di legno:
giuocavano tutto il giorno sotto i boschetti e sull’erba, e correvano
incontro alla madre, colla bocca aperta, come i pulcini.
Ebbero i primi insegnamenti dal maestro Zecchini sempre innamorato
platonicamente della loro mamma, ed essa educava i loro cuori all’amore
di Dio, dei genitori e del prossimo, con elevati sentimenti. Il babbo li
voleva robusti e patriotti e li indirizzava per questa via. Divenuti
grandicelli frequentarono le scuole di Treviso, modificate
dall’insegnamento domestico. Il governo austriaco per assicurarsi dei
soggetti rispettosi faceva leggere e imparare a memoria nelle scuole il
libriccino intitolato _I doveri dei sudditi_.
Il capitano faceva osservare ai suoi figli che la stessa natura ci
ispira l’amore della patria, che la patria non può essere felice senza
la libertà e la giustizia, e se non era giusto che un cittadino
comandasse in casa altrui, così non poteva esser giusto che un popolo
s’imponesse ad un’altra nazione. Ristabilita la vera base del diritto,
dimostrava che quei pretesi _doveri dei sudditi_ non erano altro che gli
_obblighi degli schiavi_, ed indicava la prudenza necessaria per
condursi alla scuola, eccitandoli a farsi uomini per vendicare la
patria.
E invece di limitare le loro conoscenze alle nozioni di storia imposte
dal programma austriaco, spiegava ai suoi figli la storia universale,
ove l’Austria faceva una figura secondaria e insignificante, e talvolta
odiosa; poi li voleva istrutti minutamente sulla storia d’Italia, dalla
più remota antichità fino ai nostri giorni, perchè imparassero a
conoscere i grandi avvenimenti, i fatti gloriosi che onorano il nome
della patria davanti al mondo, rilevando in pari tempo tutti gli errori,
tutti i torti, i vizii, i delitti che conducono i popoli alla schiavitù.
E si fermava con somma compiacenza a certi nomi, e spiegava le azioni
generose che li avevano resi immortali.
Li addestrava a tutti gli esercizii del corpo, alla scherma, al tiro a
segno, alla ginnastica.
—Verrà il giorno che potrete utilizzare tutte le vostre conoscenze e
tutte le vostre forze,—egli diceva loro;—impiegatele sempre a favore
della giustizia e della libertà, a vantaggio dei buoni contro i
malvagi,—e rivolto a sua moglie soggiungeva:—Questa è la migliore
congiura che possa riescire a liberarci dal governo straniero.
E scriveva ai parenti di Brianza i progressi dell’educazione dei figli,
i loro costumi intemerati, e gli animi audaci, ma onesti. È facile
immaginare come egli spiegasse la storia di Napoleone, davanti i
ritratti e i quadri di casa. Erano racconti che facevano venire la pelle
d’oca; ma a poco a poco lo spirito bellicoso li metteva in voglia di
menar le mani, sentivano vergogna di vedersi dominati dagli stranieri, e
ascoltavano a bocca aperta le geste di quei generali che rotta la spada
prendevano in mano un fucile e trascinavano i soldati contro la
mitraglia, mettevano in fuga il nemico colla baionetta, e restavano
illesi in mezzo alla mischia.
Gervasio, secondando il gusto dominante del padre si era dato con
passione all’agricoltura e al giardinaggio. Coltivava dei bei fiori, ne
faceva dei mazzi magnifici, e li presentava a sua madre nei giorni delle
feste natalizie ed onomastiche. Piantava degli alberi nelle occasioni
solenni, come modesti monumenti della vita domestica.
Stefano amava lo studio, leggeva molto, annotando le cose che gli
parevano degne d’essere rilette.
Il maestro Zecchini li amava come figliuoli, ringiovaniva giuocando con
loro; talvolta lo canzonavano per la sua teoria, ma con maniere
scherzose che non potevano offenderlo.
—Aspettate, e mi darete ragione col tempo,—egli diceva;—siete giovani
senza esperienza, e giudicate le bestie dal pelo. È un errore! bisogna
che la bestia sia morta per pronunziare un giudizio esatto delle sue
qualità. Ci sono degli animali di tutti i colori, ma senza la pelle
tutte le bestie sono eguali.
Giacomo Pigna aveva un figlio, Giuseppe, col quale i ragazzi andavano a
caccia, ora in montagna ed ora in palude, e così si esercitavano alle
marcie e al tiro, con grande soddisfazione del capitano.
Di tratto in tratto si facevano degli inviti alla villa, per mangiare
cogli amici il lepre o la selvaggina. In quelle occasioni il vecchio
Pigna alzava il gomito fuor di misura, e quando era brillo ne diceva
delle grosse, che facevano ridere la brigata. Allora il maestro guardava
gli amici strizzando un occhio, per dimostrare che l’occasione era
favorevole all’applicazione della sua teoria.
Questa vita semplice e laboriosa, rallegrata da festicciuole di
famiglia, durò parecchi anni, senza che nessun avvenimento importante
venisse a turbarla. Le aspirazioni liberali crescevano nel silenzio, lo
spirito nazionale era coltivato dalle letture di buoni libri, ma lo si
teneva nascosto nell’intimità, come un’arma proibita. Il bisogno
d’indipendenza era penetrato anche nel popolo, e le condizioni d’Europa
lo favorivano. Nel giorno memorabile 22 marzo 1848, fu scosso il giogo
per la prima volta, con unanime slancio, nella Lombardia e nella
Venezia.
L’insurrezione di Milano fu irresistibile, gli Austriaci dovettero
ritirarsi nelle fortezze del quadrilatero; il resto del paese fu libero
per quella serie di fatti complessi che fecero cadere rapidamente il
dominio austriaco, con poco spargimento di sangue.
A Venezia pochi cittadini audaci, secondati dalla popolazione, ottennero
il medesimo risultato. Pareva una corrente elettrica che gettasse a
terra il governo sbalordito. Ma esso raccolse l’esercito e si
apparecchiò alla rivincita; mentre la nazione esaltata dalla facile
vittoria, priva d’esperienza e di senno politico si abbandonava alla
gioia del trionfo, e non pensava ai pericoli imminenti. Sorsero dovunque
i governi provvisori, incominciarono le pacifiche dimostrazioni, i
proclami ampollosi, seguiti da tutte le esitazioni della inesperienza.
Il capitano Bonifazio era soddisfatto della caduta del governo
straniero, ma desolato delle declamazioni che mantenevano il paese nelle
più pericolose illusioni.
—Armi, disciplina ed unità di comando ci vogliono, egli esclamava, non
vane ciarle, e mal fondate speranze. Gli Austriaci si concentrano per
organizzarsi, attenderanno dei rinforzi da Vienna, e un giorno usciranno
dalle fortezze, e riprenderanno il terreno perduto. Bisogna circondarli,
combatterli e vincerli. Bisogna abbandonare le questioni accademiche
sulla forma di governo più opportuna all’Italia, mentre il paese è
ancora occupato da un esercito agguerrito di stranieri tenaci alla
preda. Bisogna ripudiare la rettorica, è inutile scrivere degli
indirizzi umanitari ai fratelli Ungheresi, ai fratelli Boemi, ai
fratelli Croati, i quali non domanderebbero di meglio che tornarsene a
casa in santa pace, ma che la mano ferrea dell’Austria saprà conservare
sotto le armi, e slanciarli alla facile riconquista d’un popolo
disarmato.
Il maestro Zecchini che era stato pronto a metter fuori del balcone la
bandiera tricolore, ascoltava attentamente i discorsi del capitano
Bonifazio, li trovava molto ragionevoli, si pentiva dell’entusiasmo
dimostrato nei primi giorni, ed alla prima pioggia ritirò la bandiera
per non sciuparla, ma dopo tornato il sole finse di dimenticarla in un
angolo della casa; avrebbe voluto anche sopprimere la coccarda, ma chi
non la portava era creduto una spia, ed arrischiava la pelle. Egli prese
il suo partito; si mostrava taciturno coi sospetti, modesto coi timidi,
audace cogli esaltati, gridava cogli urloni, declamava coi barbassori, e
abbondava nel senso di tutti per vivere d’accordo con ciascheduno.
Il capitano Bonifazio si recò a Treviso coi figli per prendere le armi
contro il nemico.
Trovò il governo provvisorio composto di tredici persone (cattivo
numero!). Mancava il denaro, quantunque ci fossero due ministri di
_contabilità_ e _finanze_; mancavano le armi e i soldati, ma c’erano due
incaricati alla _milizia_ e un ministro di _diplomazia e guerra_, un
abate all’_istruzione pubblica_, un canonico al _culto_, un avvocato
alla _consulta_, due ingegneri alle _pubbliche costruzioni_, un avvocato
all’_amministrazione comunale_, un altro alla _Polizia_, e l’avvocato
Presidente del governo, per mettere in moto questa gran macchina
provinciale, e governare un popolo che non contava novantamila abitanti.
E pubblicavano, dice uno storico contemporaneo, «annunzi, disposizioni,
decreti, proclami, consigli a tenore delle circostanze, mostrandosi però
sempre sicuri nel buon esito dell’impresa.» (_Semenzi_).
La città era in festa, le case pavesate, le contrade illuminate,
l’entusiasmo dei cittadini si manifestava in mille forme diverse. E così
avvenne in ogni città e borgata del Lombardo-Veneto liberato dagli
stranieri. Ma le aberrazioni della gioia furono brevi, sufficienti però
a dimostrare all’Europa l’odio degli Italiani per il dominio straniero.
Provenienti da varie regioni d’Italia entravano in città le più bizzarre
milizie, in costumi pittoreschi: elmi romani e medioevali, pennacchi
napoleonici, durlindane dell’Orlando furioso, fiocchi, galloni, giacche
di tutte le parti del mondo, cappelli calabresi, romagnoli,
trasteverini, napolitani e siciliani.

Il capitano Bonifazio fu subito nominato istruttore e organizzatore
della milizia, i suoi figli si arruolarono nei volontari, i quali
ignoravano ancora il mestiere del soldato, quando furono mandati ad
affrontare i primi scontri dell’esercito austriaco che scendeva dal
Friuli, preceduto dei soliti Croati.
Giovani studenti trasformati repentinamente in artiglieri, operai
divenuti fantaccini in pochi giorni, resistettero intrepidamente al
primo fuoco, si batterono con coraggio, e sparsero il loro sangue per la
libertà.
I Tedeschi bombardarono Treviso, che dopo la coraggiosa resistenza
ottenne una delle capitolazioni più onorevoli delle guerre di
indipendenza. Quei giovani soldati uscirono dalla città cogli onori
militari, conservando le armi e i bagagli, con due pezzi di cannone,
regalati dal generale austriaco «in contrassegno della particolare sua
stima per la buona condotta durante il combattimento, e perizia nel
maneggio delle armi.» (_Capitolo III della Capitolazione_). «I sudditi
austriaci arruolati nelle truppe italiane, saranno considerati come
emigrati.»
Ed ecco che cominciava una nuova iliade di mali per gli Italiani, e la
nazione tornava ad essere invasa ed oppressa dalle forze preponderanti
degli invasori stranieri.
Mentre le milizie italiane uscivano dalla porta Santi quaranta (ora
Cavour), gli Austriaci entravano dalla porta di San Tommaso (ora
Mazzini).
Nella villa suburbana del capitano Bonifazio la povera Maddalena restava
sola a piangere la partenza del marito e dei figli, che non aveva potuto
abbracciare.
Il maestro Zecchini e Mosè cercavano invano di consolarla facendole
credere che sarebbero presto ritornati, ma il suo cuore di donna la
avvertiva che i suoi cari starebbero assenti lungamente, esposti a mille
pericoli; e al suo dolore di moglie e di madre si aggiungeva quello di
buona italiana, che vedeva la patria rioccupata dagli stranieri.
Quale solitudine, qual vuoto in quella casa, e in quel parco dopo la
partenza de’ suoi cari! Una parte della cavalleria austriaca aveva preso
alloggio nelle case di campagna intorno la città, le scuderie erano
piene dei cavalli nemici, e i soldati inquieti andavano e venivano con
volti arcigni e truce aspetto.
Ecco il santuario domestico invaso dagli stranieri, che non hanno nulla
di sacro nel paese conquistato. Si prendevano le frutta come fossero in
casa propria, calpestavano le colture, legavano agli alberi i cavalli
che coi denti rosicchiavano le corteccie.
Maddalena che conosceva la passione del marito e dei figli per quelle
belle piante, allevate con tante cure, piangeva disperata per non poter
arrestare quella devastazione.
Il maestro Zecchini trovò il modo di rendersi utile alla povera donna ed
agli amici assenti, andando a parlare ad un colonnello che cercava un
comodo alloggio in mezzo ai suoi soldati. Gli si presentò col cappello
in mano, in attitudine riverente, e gli disse:
—Se Vostra Eccellenza desidera un magnifico alloggio non ha che
comandarmi; io sono il maestro del villaggio, e non ho altro desiderio
che quello di servirla bene.
Il colonnello volle vedere, lo seguì, e fu soddisfattissimo; e quando fu
bene installato accolse con benevolenza un rispettoso reclamo che gli fu
fatto dal maestro in favore degli alberi del giardino.
I soldati coi cavalli ricevettero l’ordine di sgombrare immediatamente,
e di ritirarsi nelle adiacenze, con l’obbligo di mai più mettere i piedi
nel parco, e una sentinella fu collocata in sito opportuno colla
consegna di non lasciar passare alcuno, e di sorvegliare la proprietà.

Partito quell’ufficiale superiore ne venne un altro dello stesso grado,
e così di seguito. La tradizione conservò l’abitudine dell’alloggio
riservato, e così fu preservato dalla devastazione quel delizioso
soggiorno.
Ma intanto i proprietari vagavano raminghi per le terre d’Italia, invase
per ogni parte da eserciti nemici.
Milano ricadeva in mano dell’Austria, e tutto il sangue sparso dagli
Italiani in quei mesi di lotta e di ansietà non valse a liberarli dalla
invasione.
La sola Venezia resisteva eroicamente, e i Bonifazio si recarono colà,
per contribuire alla difesa.
Le vicende dell’assedio di Venezia sono forse la più bella pagina nella
storia della nostra emancipazione.
Questa gloriosa città, tradita ed oppressa, che si ridesta alla libertà,
dopo l’umiliazione del dominio straniero, che lacera e insanguinata si
difende contro un nemico potente, combatte valorosamente, intrepida fra
le rovine delle fortificazioni, che estenuata dalla fame, decimata dal
coléra e dalle bombe, decide di _resistere ad ogni costo_, offerse un
esempio di tale fermezza indomabile, che le guadagnò l’ammirazione del
mondo.

I Bonifazio furono fra quelli eroi che presero parte alla sortita di
Mestre, e che difesero Marghera fino che fu ridotta ad un mucchio di
rovine. Ma il vecchio soldato di Napoleone fu il solo che potè ritirarsi
incolume in città dopo di aver combattuto per tanti giorni in mezzo ad
un diluvio di palle.
Gervasio rimasto fra gli ultimi sulla breccia fu ferito alla mano destra
e Stefano ebbe una gamba traforata da una palla; e passarono gli ultimi
tempi dell’assedio all’ambulanza.
Finito l’ultimo pane nero, e l’ultima carica di cannone, Venezia dovette
cedere senza esser vinta.
Al momento della capitolazione i due fratelli erano ancora
convalescenti. Tennero consiglio col padre, il quale pensando alla
povera donna che non li aveva visti da più d’un anno, desiderava che
volessero tornare entrambi a casa con lui. Per Stefano non ci poteva
esser dubbio, poichè non era in caso di tenersi in piedi senza l’aiuto
d’un bastone, ma Gervasio storpiato alla mano destra si rifiutò
recisamente di ritornare a vivere sotto il governo austriaco, preferì di
condannarsi all’esilio. Il padre non volle insistere, nella speranza
d’un pronto risveglio della nazione e d’un ritorno alle armi.

La separazione fu dolorosa. Gervasio s’imbarcò in un bastimento
francese, e il vecchio soldato, sostenendo sotto il braccio il più
giovane dei suoi figli ferito, ritornò alla sua villa.
Povera Maddalena!... quando li vide entrare pallidi e magri, col suo
Stefano ferito, e senza Gervasio, fu costretta di sostenersi ad un
albero per non cadere; poi fatto animo e ripreso fiato si gettò nelle
braccia loro esclamando:
—Dove è Gervasio?...
—È partito.... risposero, ma speriamo di rivederlo fra poco....
—È morto! essa gridò con accento straziante, il mio povero Gervasio è
morto!... sarebbe qui di sicuro se non fosse morto!...
Non voleva persuadersi che fosse partito, che avesse preferito l’esilio
alla casa paterna, alle cure di sua madre!
—Ha preferito l’esilio all’umiliazione di vivere sotto il giogo dei
nostri nemici, come tanti altri suoi compagni, le disse il marito; ma le
cose non possono durare a questo modo,—e manifestando tutte le illusioni
di quel tempo, si studiava di provare l’impossibilità d’un lungo dominio
austriaco in Italia, perchè i popoli coraggiosi possono tutto quello che
vogliono; ma Maddalena non lo ascoltava più, baciava teneramente il suo
Stefano, lo interrogava ansiosamente sulla ferita che gl’impediva di
camminare, lo fece sedere in una poltrona, apportò dei ristori ai poveri
viaggiatori sfiniti dai lunghi patimenti, dalla fame, dalla fatica del
viaggio, in quello stato.
Appena saputo il loro ritorno accorse anche il maestro Zecchini, e non
finiva mai d’interrogarli sui più minuti particolari del memorabile
assedio; si mostrò desolato per tante sventure, e voleva sostenere che
bisognava rassegnarsi al destino, che era finita per sempre, che sarebbe
assolutamente impossibile di vincere la potenza austriaca. Il capitano
lasciò andare un pugno così violento sul tavolo che fece saltare i
piatti e i bicchieri, e così incominciarono nuovamente le diatribe fra i
due vecchi amici, che dopo l’assenza ritornavano a vivere insieme,
sempre inseparabili, e sempre discordi.
Intanto il Gervasio navigava verso la Francia, e pochi giorni dopo
sbarcava a Marsiglia coi molti esiliati di Venezia, i quali si
dispersero in vari paesi.
Egli partì per Parigi colla speranza di trovare un’occupazione per non
vivere a carico della famiglia. Ma in quel tempo la capitale francese
rigurgitava di emigrati d’ogni parte d’Europa; le varie rivoluzioni del
quarant’otto vi avevano gettato i loro naufraghi, che cercavano un
rifugio. Tutte le passioni umane, e i diversi partiti politici si
concentravano nel cervello del mondo; la vita era una lotta di forze
contrarie che si agitavano convulse fra gli amari disinganni del
passato, e le più esagerate illusioni dell’avvenire.
Ad un’anima mite e senza ambizioni, come quella di Gervasio, la vita
tumultuosa rendeva più doloroso l’esilio. Dopo lunga aspettativa gli
venne offerta una cattedra di lingua italiana in Bretagna. Non esitò ad
accettarla perchè sentiva anche il bisogno di quella pace campestre
nella quale era stato allevato, e che gli mancava affatto nel movimento
turbinoso della moderna babilonia.
Ma il clima umido e triste della Bretagna accresceva la sua malinconia,
e la vita solitaria gli faceva sentire doppiamente tutte le amarezze
della nostalgìa. Non vide mai sorgere quel sole opaco dietro le nebbie,
senza che il suo pensiero non lo trasportasse alla casa paterna; e la
vedeva da lontano, illuminata dallo splendido sole d’Italia, e gli
pareva di udire lo stormir delle fronde dei suoi boschetti, il pigolìo
dei passeri al crepuscolo, credeva di respirare l’olezzo di quelle
piante, e sentiva l’aria pura dei monti e del Piave, che gli sbatteva il
viso, quando appariva il balcone della sua cameretta così piena di
ricordi. La modesta stanza di Bretagna non aveva nulla che sorridesse
alla memoria dell’emigrato; e i prospetti, l’aria, gli accenti, le
esalazioni, tutto gli rammentava l’isolamento, e la lontananza della
patria.
I giorni delle feste solenni erano i più dolorosi. Tutti si
raccoglievano lietamente alla mensa di famiglia, il povero emigrato
viveva solo, colla memoria delle affettuose cure materne, delle
abitudini domestiche del padre e del fratello, e della perduta compagnia
degli amici.
Bisognava cercare degli altri derelitti per fare insieme società.
Conobbe allora i Ravelli, emigrati lombardi. La famigliuola si componeva
del padre vedovo, del figlio Battistino, che fu ferito al Tonale
difendendo quel passo alpino coi volontari, e di sua sorella Angelina,
una buona ragazza di diciotto anni. Scambiavano fra loro le amarezze e i
conforti comuni, dividevano i timori e le speranze, e quelle eterne
illusioni degli esuli, sempre distrutte dagli avvenimenti, e sempre
rinascenti dalle stesse rovine. Ogni primavera speravano il ritorno in
patria per il prossimo autunno, ogni autunno per la ventura primavera;
ma ogni volta che si credevano vicini al porto, una burrasca inaspettata
li rigettava in alto mare. Tornato il cielo sereno, esaminavano
l’orizzonte, e ad ogni nuvoletta lontana pronosticavano l’uragano che
doveva sconvolgere l’Europa, far trionfare la libertà, e restituirli al
loro paese; ma un venticello importuno rasserenava il cielo. Si
lamentavano della indifferenza di tutte le nazioni per ciò che violava i
loro diritti e il loro onore, vedevano in ogni piccolo alterco
diplomatico un’offesa sanguinosa che rendeva indispensabile la guerra,
aspettavano ansiosamente la dichiarazione desiderata; ma la pace si
andava consolidando a loro dispetto, e l’esilio temporaneo diventava
domicilio stabile degli emigrati. E così passavano gli anni, e intanto
l’amicizia e l’amore fiorivano anche sulla terra straniera.
Gervasio divenne intimo di casa Ravelli, fu il compagno inseparabile di
Battistino, e non tardò a sentire per l’Angelina una profonda simpatia
che a poco a poco si trasformò in reciproca affezione.
Allora la primavera di Bretagna parve più bella ai giovani innamorati,
che aprendo l’animo ai sentimenti e ai pensieri concordi, si creavano
una nuova patria sul suolo straniero, la patria dell’amore, e così
trovavano più ridenti quelle verdi campagne, più vaghi i fiori, meno
fosco l’orizzonte, meno pallido il sole, e le notti azzurre e brillanti
di stelle più belle delle notti italiane.
Vivere insieme per amarsi sempre, e dimenticare tutto il resto, questa
divenne l’unica aspirazione dei loro cuori.
Dopo uno scambio di lettere colle rispettive famiglie in Italia, furono
fidanzati; pochi mesi dopo si celebrò il matrimonio, e la terra di
Bretagna parve un paradiso terrestre ai due sposi, nell’ebbrezza
dell’amore soddisfatto.
Passati dieci mesi venne alla luce un bel maschio, che per comune
consenso dei due nonni fu battezzato col nome di Silvio, in segno di
simpatia verso l’amico carbonaro, che fu prigioniero allo Spielberg, e
di protesta contro il dominio straniero.
Pareva che la felicità sorridesse pienamente alla nuova famiglia, quando
una febbre insidiosa assalì la puerpera, e mise subito in dubbio ogni
speranza. I sintomi più minacciosi si succedettero con terribile
rapidità, e la malattia finì in pochi giorni con un lutto spaventoso.
L’infelicissimo marito perdette la sua diletta compagna nel primo anno
di matrimonio, il neonato perdette la madre nel primo mese di vita.
Sotto il colpo inaspettato dell’improvvisa sventura, lontano dai cari
parenti, fra il suocero e il cognato al pari di lui disperati, Gervasio
risentì tutto il peso dell’esilio e dell’isolamento.
La donna morta fu portata al cimitero colla sua candida veste di sposa;
il bambino fu messo a balia; i Ravelli affranti dal dolore abbandonarono
il paese, il povero esule rimase solo, fra una culla e una tomba, a
piangere la sua cara compagna scomparsa;—solo senza patria, e senza
famiglia!...



V.

Anche la famiglia Bonifazio si sentì colpita crudelmente dalla sventura
del figlio. Alle lagrime dell’esule corrisposero da lontano le lagrime
dei parenti, privi del conforto di stringere fra le loro braccia
affettuose il povero orfanello e il padre desolato.
Così l’esilio colpisce sempre da due parti; tanto chi resta, che chi si
allontana soffre egualmente, senza il sollievo del reciproco conforto,
senza l’amara consolazione di piangere assieme.
Stefano guarito dalla sua ferita, andava spesso a Treviso, ove aveva
molti amici. Un bel giorno girovagando per le strade della città, fu
colpito dall’aspetto di una di quelle ragazze del popolo, tanto famose
in tutto il Veneto per la rara bellezza dei lineamenti, per l’abbondanza
dei capelli, la grazia della persona e l’eleganza del vestito. Si
direbbero nate in mezzo al lusso d’uno splendido appartamento, e invece
non sono che una curiosa aristocrazia della classe operaia, le
contessine del popolo. Dove abbiano imparato a darsi quell’aspetto
disinvolto, ed alzare quegli sguardi alteri di principesse, nessuno lo
sa. Escono dalle povere catapecchie ove abitano, come da un palazzo
signorile, scendono maestosamente dalle loro scalette di legno, come se
fossero gli scalini del trono, raccogliendo, colla piccola mano coperta
di guanti, e con flessuosa destrezza, gli svolazzi della veste, per
lasciar vedere la elegante calzatura a talloni, portando con certa
alterigia la testina graziosamente pettinata, e adorna d’un velo nero
puntato con grandi spilloni. Camminano con franca andatura, portando
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