La famiglia Bonifazio; racconto - 02

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II.

Erano passati sei anni da quella prima dimora in Brianza, quando nel
maggio 1820, il capitano Bonifazio ricomparve per la seconda volta
davanti la casa del suo vecchio commilitone.
Non era ancora guarito della profonda ferita ricevuta dai grandi occhi
di Maddalena, e stupiva che una così bella ragazza non si fosse ancora
maritata. Ma in quella solitudine!... egli pensava, è come un fiore
delle Alpi che sboccia, profuma l’aria d’intorno, e muore senza che
nessuno lo veda.
Le accoglienze furono cordialissime. Il colonnello e sua moglie lo
abbracciarono come un fratello.... Maddalena impallidì.
Bonifazio vide il pallore della fanciulla, sentì la mano di lei tremante
nella sua, lesse ne’ suoi grandi occhi un sentimento di tenera
affezione, della quale non si era accorto al primo incontro.
E come poteva avvedersene se non osava guardarla? non era lei che doveva
confessargli il suo amore! Era partito all’improvviso, ed era rimasto
sei anni senza ritornare in Brianza; anzi aveva paura di ritornarvi, e
non sarebbe tornato senza la politica.
La luce entrata per uno spiraglio non tardò a diffondersi. Venne a
sapere che non mancarono alla fanciulla ottimi partiti, ma essa aveva
respinto inesorabilmente ogni domanda di matrimonio. Si fece coraggio,
incominciò a guardarla negli occhi: essa non evitava quegli sguardi,
anzi vi corrispondeva con tale espressione che era il linguaggio
dell’anima, un linguaggio eloquente per il cuore del capitano.
Egli aveva 34 anni, otto anni di vita militare lo avevano reso robusto,
sei anni di vita rurale lo avevano ringiovanito. Ella ne aveva 25, era
un frutto maturo, conservato perfettamente dall’aria pura dei campi. La
sorte li riavvicinava, e tutto li spingeva ad amarsi, le affinità
naturali e domestiche, la riconoscenza, le memorie e le abitudini della
vita.
Le dichiarazioni furono franche, e soldatesche.
—Maddalena, le disse un giorno il capitano, l’immensa amicizia che sento
per vostro padre, è superata dall’amore che ho per voi; se vi degnate di
concedermi la vostra mano io sarò l’uomo più felice del mondo,—e così
dicendo le sporse la destra.
Essa depose, senza esitazione, la sua mano in quella del capitano
dicendogli:
—Per la vita!....
—Per la vita!... egli soggiunse, stringendosi al petto quella mano, e vi
depose un bacio rispettoso, come suggello della santa promessa.
Poi si presentò subito al colonnello, rigido, diritto, come quando
andava a presentare il rapporto nella vita militare, e gli disse:
—Mio colonnello, sono innamorato!
—Per la cinquantesima volta! gli rispose l’amico.
—Per la prima volta! mio colonnello.
Il vecchio soldato sorpreso da uno scoppio improvviso di risa, fece
un’aspirazione così rapida, che il fumo della pipa gli entrò in gola, lo
fece tossire, sputare, e bestemmiare con tanta violenza, che pareva
soffocarsi.
Quando tornò in calma, Bonifazio gli fece il solenne giuramento, che la
sua asserzione era la pura verità. Era verissimo che aveva conosciuto
molte donne, ma non ne aveva amata seriamente nessuna, o perchè nessuna
aveva saputo meritarlo, o perchè le continue marcie forzate non gli
lasciavano il tempo di dare l’importanza d’una passione ai suoi capricci
passeggieri. Se n’era persuaso nel 1814, quando s’era innamorato
seriamente per la prima volta, ma aveva amato in silenzio per sei anni
consecutivi, e finalmente si era risolto di parlare....
—Ci hai messo del tempo!... gli rispose il colonnello, hai perduto
l’abitudine della furia francese, hai contratto il contagio della flemma
tedesca....
—Non mi credevo degno della donna amata, non osavo alzare gli occhi fino
a lei....
—E adesso li hai alzati?....
—E adesso domando la sua mano....
Il colonnello lo guardava fisso, e cominciava a comprendere.
Allora il capitano riprendendo la sua posa militare soggiunse:
—Ho l’onore di domandare al colonnello Odone Palanzo la mano di sua
figlia Maddalena.
Il colonnello si gettò nelle braccia dell’amico, ridendo e piangendo, e
gli mancava la parola per la commozione.
Si recarono insieme dalla buona madre che accolse la domanda con vera
soddisfazione, e concertarono ogni cosa di comune accordo. E quando nei
giorni successivi, e negli intimi colloqui colla fidanzata, essa
confessò a Bonifazio che lo amava fino dal loro primo incontro, e lo
aspettava rassegnata, colla speranza di rivederlo, risoluta di non
volere che lui o nessuno, egli non sapeva darsi pace della sua
dabbenaggine, e del tempo perduto.
E scrisse una lettera al maestro Zecchini che cominciava con le seguenti
parole: «Faccio adesione piena ed intiera alla vostra prediletta teoria;
sì, l’uomo è un asino! e me ne sono accorto in questi giorni, studiando
la verità sopra me stesso.» Non si spiegava di più, passava ad altri
argomenti, raccomandava le sue coltivazioni, ma le ultime parole del
foglio confondevano il maestro, il quale restava sbalordito da questa
conclusione: «ho il piacere di annunziarvi che prendo moglie.»
Il povero Zecchini non sapeva che cosa pensare.
Intanto l’amore del capitano Bonifazio andava di pari passo colla
congiura. Al giorno godevano il sole di maggio sotto la pergola dei
gelsomini, e vagavano per le colline, soffermandosi ad ammirare i
lontani orizzonti, e il sorriso di primavera sulle rive dei laghi.
Alla sera il colonnello e il capitano uscivano insieme col pretesto
d’una lunga passeggiata militare, e invece si recavano ai convegni
notturni dei Carbonari, tenuti in luogo sicuro.

Era stato scelto a tale scopo un casolare incendiato nella campagna
deserta, vicino a un bosco. I contadini rimasti senza tetto si erano
rifuggiati altrove. Dietro alcune macchie di alberi i giovani
apprendenti stavano in sentinella per dare il segnale convenuto in caso
di bisogno, ai capi che si raccoglievano fra le rovine, al lume delle
stelle. Ciascuno portava un nome romano, Sallustio, Orazio, Livio,
Nerone, e molti di loro non si conoscevano che con questo nome. La
parola di passo era: _libertà vendicata_. Colà il deputato veneto dei
_cavalieri guelfi_ combinava gli accordi coi _federali lombardi_, i
quali corrispondevano coi capi dirigenti degli _Adelfi_ del Piemonte. La
_Costituzione latina_ era il loro statuto, che conteneva il piano
fissato per effettuare una rivolta armata. Fra gli ufficiali del
disperso esercito italiano i Carbonari si contavano a migliaia. Il
colonnello si teneva in corrispondenza segreta con suo fratello
Aristide, che annodava le relazioni della setta di Lombardia colle
società segrete di Torino.
La rivoluzione piemontese doveva scoppiare nei primi mesi del 1821,
d’accordo coi Napoletani e i Lombardi.
Esauriti gli argomenti da trattarsi i congiurati fissavano la notte pel
successivo ritrovo, poi uscivano dal nascondiglio alla spicciolata.

Il colonnello e il capitano ritornavano a casa fumando la pipa, parlando
delle glorie passate, delle presenti vergogne, e dell’immensa sventura
di vivere senza patria.
All’alba il capitano era alla finestra a respirare l’aria mattutina e le
soavi esalazioni dei campi. Poi passava delle ore deliziose conversando
colla promessa sposa, e ammirando la perizia che dimostrava nel
disimpegno delle faccende domestiche.
L’amore e l’amicizia gli avrebbero fatto dimenticare la sua casa, e i
suoi affari, se la politica non lo avesse costretto alla partenza, per
apportare nel Veneto le decisioni prese dalle assemblee dei Carbonari, e
provvedere con ogni sollecitudine ai prossimi avvenimenti.
Furono presto d’accordo nel fissare il tempo delle nozze. Le donne
chiesero sei mesi per apparecchiare il corredo, gli uomini assentirono
volontieri, colla tacita speranza che fra sei mesi l’Italia sarebbe
libera dal dominio straniero, e che per allora, la nuova famiglia
italiana avrebbe una patria.
La separazione fu dolorosa, abbracci e lagrime da ambe le parti, ma
l’addio fu raddolcito dalla promessa d’una assidua corrispondenza
epistolare, e dal ritorno nel novembre per celebrare le nozze.
Il viaggiatore non distolse gli occhi da quella casa diletta che
all’ultima svolta lontana della strada, e vide ancora un fazzoletto
bianco che sventolava fra quel gruppo d’alberi, dove aveva lasciato il
suo cuore. Rientrò all’albergo di Brianza raccontando le meraviglie
vedute nelle sue gite agricole, nominò tutti i paesi, meno quello dove
aveva soggiornato, e partì per Milano carico di sementi. Di là colle
solite fermatine perfettamente dissimulate, e colle relative conferenze
segrete coi principali centri carbonari, si diresse a piccole giornate
verso il Veneto.
Il maestro Zecchini e il fedele Mosè lo aspettavano con curiosa ansietà.
Forse ritornava colla sposa! Era vero che non aveva dato alcuna
disposizione in proposito, ma la casa era in ordine, e il parco era
degno di ricevere qualunque signora. Mosè non voleva credere a questo
precipizio, ma il maestro Zecchini non si sorprendeva di niente, anzi si
aspettava ogni bizzarria da quell’originale, che gli aveva annunziato il
suo matrimonio con tanto laconismo.
Finalmente giunse una lettera che fissava il giorno preciso del ritorno,
e siccome il capitano era esatto come un cronometro, così il domestico e
l’amico stavano ad aspettarlo sulla porta quando si udirono i sonagli
della vettura che riconduceva il pellegrino.

Le disposizioni da prendersi per il prossimo matrimonio furono nuovo
argomento di conversazioni e di diverbi fra il maestro e il capitano.
Zecchini metteva fuori degli utili consigli per gli arredi, Bonifazio lo
canzonava; Mosè dava sempre ragione al padrone, il quale dopo di aver
ripetutamente disapprovato i piani dell’amico finiva qualche volta
coll’adottare quei consigli che aveva respinti con ironia e
indignazione. Ma si conchiudeva sempre la pace al tavolo del terziglio,
ovvero si cambiava argomento di discussione raccogliendo le diatribe
sulle carte da giuoco.



III.

Durante l’estate venne apparecchiata la stanza nuziale, e furono
acquistati tutti gli arredi necessari per abbellire la casa, e renderla
degna di accogliere una donna gentile. La corrispondenza correva
regolare fra gli sposi, e il capitano seguitava ad occuparsi di
agricoltura, e faceva delle gite a Venezia e altrove, per completare i
mobili della casa, mascherando con studiate apparenze le trame della
congiura, e i ritrovi dei Carbonari.
Non riceveva mai nessuno, e solamente in una sera di settembre,
sull’imbrunire, un signore smilzo, in occhiali, si presentò al cancello
della villa, e chiese del capitano. Gli fu aperto da Mosè che lo
introdusse nel salotto, e corse a chiamare il padrone.
Il capitano parve sorpreso assai di quella visita. Rimasero un’ora in
conferenza; poi, fatto attaccare il cavallo, partirono insieme col legno
di casa. Il padrone prendendo in mano le redini e la sferza, avvisò Mosè
che non sarebbe tornato che dopo la mezzanotte, e dicesse al maestro che
era andato a ricondurre un amico, venuto a fargli visita.
Un mese dopo questo fatto, insignificante in apparenza, successero dei
casi che impressionarono fortemente il Bonifazio. Il maestro capitava
ogni sera colle novità del giorno: arresti di persone stimate ed
illustri di Milano, e in altre parti di Lombardia, e del Polesine.
Si parlava dovunque di società segrete scoperte, di Carbonari fuggiti o
messi in prigione. Il capitano crollava le spalle, tentennava la testa,
brontolava, voleva mostrarsi indifferente, ma poi domandava le più
minute informazioni. Quando suonavano il campanello stava sopra pensiero
fino che non sapeva chi fosse; sbagliava le carte e ne dava la causa al
maestro, il quale sbalordito dall’accusa fissava tanto d’occhi in faccia
del capitano, che lo rimbrottava di guardarlo in quel modo, con quello
sguardo da inquisitore. E si bisticciavano più del solito.
Il giorno dopo, il capitano si chiudeva in camera, lo si sentiva aprire
degli armadi, scartabellare delle carte, nelle ore che era solito di
stare in giardino.

Quella sera, il maestro che veniva come il solito a fare la partita,
fiutava l’aria della stanza, guardando intorno con inquietudine.
—Che cosa avete, che torcete il naso? gli chiedeva il capitano.
—Sento un odore di bruciaticcio, gli rispondeva, e guardo se c’è qualche
cosa che prenda fuoco.
—Sono delle vostre solite idee!... io non sento niente.... non c’è
niente.
—Eppure c’è qualche cosa di bruciato! insisteva l’altro, andiamo a
vedere.
Il capitano s’impazientava, montava in collera, lo accusava d’essere un
visionario, lo sgridava e lo consigliava a desistere dalle sue
inquietudini, e l’obbligava a sedere in quiete, colle carte in mano.
Ma la partita era turbata dalle insistenti aspirazioni nasali del
maestro, che continuava a dimenarsi sulla seggiola, e a mostrarsi
pauroso del fuoco. Il capitano fremente lo tacciava d’uomo ostinato,
fino alla cocciutaggine.
Ma quando il maestro partì fece spalancare tutte le finestre e le porte,
affinchè uscisse ogni odore sospetto, e volle che Mosè tirasse fuori
dalla stufa delle carte bruciate incompletamente, e che le riducesse in
cenere, ma persisteva nel sostenere che non ci poteva essere nessun
odore da fumo.
—Ma quel benedetto uomo, egli ripeteva, vuol mettere il suo naso da per
tutto!
Mosè, come al solito, dava ragione al padrone, e vuotando la stufa delle
carte bruciate, continuava a dire che non c’era il minimo odore di fumo.
Poi il capitano diede degli ordini precisi e segretissimi, per delle
possibili contingenze. «Che il cancello del giardino sia sempre chiuso a
chiave, anche di giorno, in modo che se qualche persona vi si
presentasse per entrare, sia costretta ad aspettare che si vada a
prender la chiave, da lui stesso tenuta in saccoccia. La porticina in
fondo del brolo, che mette ai campi, sia sempre aperta di giorno e di
notte.»
Il matrimonio che doveva aver luogo in novembre fu rimandato di comune
accordo a tempo più opportuno.
C’era pericolo imminente da ogni parte. Furono prese infinite
precauzioni per non entrare nelle trappole tese dai nemici, ma non tutti
i sorci hanno gli accorgimenti necessari per evitare le insidie, e
burlarsi degli insidiosi; molti furono accalappiati, ed era
indispensabile di non muoversi, di non dar segno di vita, per non
eccitare sospetti.

Il maestro che ignorava la dilazione del matrimonio aveva apparecchiato
il suo bravo sonetto per le nozze dell’amico, nel quale non mancò di
rammentare le prodezze guerriere dello sposo, e la bellezza della sposa
(che non aveva mai veduta) per tirar fuori il solito paragone di Venere
e Marte. Gli pareva di aver fatto un lavoretto abbastanza degno
dell’occasione, e portò il manoscritto alla I. R. Censura per ottenere
il permesso di stamparlo.
Non lo avesse mai fatto! il censore lo fece chiamare in ufficio, gli
diede una solenne lavata di testa, e gli osservò:
—Anche senza badare all’indole sovversiva di tutto il sonetto non potrei
lasciar passare alcune parole proibite, come Italia, patria, libertà; e
poi che diavolo si è messo in mente di parlare di Buonaparte e di
chiamare l’Italia una nazione? dove vede la nazione?... mi dica....
Il maestro tutto confuso gli rispose:
—Sono stato trascinato dalle rime: Marte Buonaparte; Napoleone-Nazione.
Sapeva di far piacere allo sposo che fu soldato di Napoleone.
—Peggio che peggio! Ella ignora dunque che Napoleone Buonaparte fu
nemico dell’Austria?...
—Fu genero del nostro venerato Sovrano, di Sua Maestà l’Imperatore!...

—Senta, le dò un consiglio da padre, lasci la politica agli uomini di
Stato.... e a chi ha voglia di andare in prigione; e se vuol fare il
poeta, quantunque io non ne veda la necessità, lasci stare i cavalli di
battaglia, e salga al Parnaso col modesto ronzino che serve al suo
pievano per andare alla congrega, e cavalchi tranquillamente nella
pacifica Arcadia, che non ha mai fatto male a nessuno.
E così dicendo lacerò il sonetto incriminato, lo gettò nel cesto, e
congedò il poeta con uno sguardo severo accompagnato da queste poche
parole:
—Si tenga per avvertito!
Il maestro Zecchini uscì dall’ufficio di Censura annichilato.
Gli tremavano le gambe, si riteneva fortemente compromesso, vedeva già
il commissario di polizia e gli sbirri che picchiavano alla sua porta,
che lo perquisivano, lo arrestavano, lo conducevano in prigione.
Corse difilato dal capitano a confessargli la sua imprudenza, e a
domandargli consiglio.
—Che cosa vi è passato per la mente? gli domandò il Bonifazio, in
collera. Ignorate dunque che senza patria non si ha il diritto nè di
scrivere, nè di pensare? Avete commesso una vigliaccheria degnandovi di
sottomettere i vostri concetti alla censura, avete commesso una
asinaggine gettandovi volontariamente in bocca al lupo. Non sapete che a
Milano hanno soppresso il _Conciliatore_? che hanno chiuso le scuole di
mutuo insegnamento?... Vi siete cacciato in un vespaio.... potreste
essere arrestato.
—Ma io non ho fatto niente!...
—Appunto per questo siete in pericolo. Tutti quelli che furono arrestati
in questi giorni non hanno fatto niente.... qualche leggerezza, qualche
imprudenza, qualche fanciullaggine come la vostra; ma saranno
condannati, perchè coloro che agiscono seriamente, sanno farlo colle
dovute precauzioni, e l’Austria ne prenderà pochi. I generali muoiono
raramente in battaglia, sono i semplici gregari che pagano per tutti. Ma
pazienza che voi andiate in prigione, il peggio si è che compromettete
gli amici con la pazzia dei sonetti, che non servono a niente. Non siete
uomo da esporvi alle conseguenze d’un atto coraggioso, la vostra tempra
frolla non vi permette di sfidare le crudeltà del dispotismo. Guai se vi
manca ogni mattina il vostro caffè nero, e i calzerotti di lana
l’inverno, il pancotto la sera, guai se vi togliessero l’aria e il sole
dei campi, e vi chiudessero in un camerotto, colle balze agli stinchi
per finire i giorni sul tavolaccio del carcere duro!...

Il povero Zecchini si coricò colla febbre, e battendo i denti andava
borbottando la sua massima prediletta, come una giaculatoria in
_articulo mortis_, e questa volta intendeva parlare di sè stesso, quando
ripeteva con compunzione:—l’uomo è un asino, un asino, un asino!...
Gli volle molto tempo prima di ricuperare una discreta salute; e quando
leggeva sulla _Gazzetta di Venezia_ dei nuovi arresti, sentiva un
brivido fra carne e pelle, gli pareva di vedersi in mezzo ai Carbonari,
e se li figurava tutti neri, le vesti, il viso, e le mani, e faceva il
più solenne giuramento di mai più esporsi a simili pericoli, e per
evitare ogni occasione di compromettersi, non voleva più vedere nessuno,
e non frequentava che una sola casa, quella del suo vicino, il capitano
Bonifazio.
Intanto i processi di Milano e di Venezia continuavano le inchieste, e
sempre nuove vittime cadevano in mano dell’Austria.
Il capitano Bonifazio e il colonnello Palanzo erano costretti di
protrarre continuamente il matrimonio nell’interesse di Maddalena,
perchè nè un fidanzato nè un padre potevano condannare una giovane sposa
a vincolarsi per la vita con un uomo minacciato dalla prigione o
dall’esilio. E attendevano silenziosi e cauti che fosse cessato il
pericolo, cercando di giustificare il ritardo con facili pretesti,
ammessi facilmente da chi non vedeva altri motivi.
Ma tutto non isfuggiva alla perspicace penetrazione delle donne; alcune
parole colte a volo, alcuni fatti sospetti che coincidevano coi dolorosi
avvenimenti del giorno le illuminavano abbastanza, da renderle
rassegnate al destino, come ad una necessità ineluttabile.
Il più difficile per Bonifazio consisteva nel giustificare il ritardo
delle sue nozze presso il maestro Zecchini, il quale s’interessava
vivamente alla sorte dell’amico, trovava opportunissimo il matrimonio,
si riprometteva dal medesimo una conversazione più geniale, e non poteva
credere nè rassegnarsi ai pretesti che gli venivano presentati dal
capitano come i veri motivi della prolungata dilazione.
E questo era nuovo argomento di dissenzione fra i due vicini, per le
osservazioni noiose da una parte, e le risposte bisbetiche dall’altra.
Così passavano i mesi dolorosi pei fidanzati, pieni di angoscie per le
famiglie, con maneggi segreti dei congiurati per stornare le minacce, e
per disperdere tutte le prove compromettenti per coloro che erano
liberi.
Tutto il 1821 trascorse nella caccia accanita degli inquisitori in cerca
di congiurati, e nella somma destrezza dei capi della setta per
sottrarre nuove vittime alla vendetta degli usurpatori, e alla insidiosa
procedura di giudici arrabbiati per non poter cogliere nei loro tranelli
che un numero assai limitato di Carbonari.
In febbraio 1822 il lungo processo degli arrestati era finalmente
finito, e interessava ai capi di assistere alla lettura delle sentenze
delle povere vittime, che si faceva sulla pubblica piazza.
A tale scopo il capitano Bonifazio partì per Venezia col suo domestico,
potendo aver bisogno d’un uomo fidato, in quella dolorosa circostanza.
Era il 22 febbraio, una bella giornata serena, il sole rallegrava la
laguna e illuminava le case e le botteghe in assetto di festa.
Mosè che ignorava il motivo del viaggio del padrone, essendo libero fino
a mezzogiorno, chè a quell’ora doveva trovarsi in piazza, girovagò tutta
la mattina intorno a Rialto.
Passeggiando per la pescheria si fermava davanti i banchi ad ammirare i
pesci di tutte le dimensioni e di tutti i colori, dal roseo al verde,
dal bianco al bruno, tutti brillanti di squamme metalliche; e passando
per l’erberia stava colla bocca aperta davanti le botteghe rigurgitanti
di commestibili d’ogni genere, ornati di verdi fronde, e contemplava
estatico i cestoni di frutta e di erbaggi, le piramidi di aranci e di
limoni, le valanghe di bietole e patate, i mucchi di polli e di
selvaggina, i monti di carubbe, i barili d’uva calabrese e di fichi
secchi.
I mercanti vantavano ad alta voce le loro merci ad eccessivo buon
mercato, e invitavano i passanti a non lasciarsi sfuggire la bella
occasione; chi cantava e chi urlava i nomi degli oggetti messi in
vendita, chi alzava in aria i campioni, chi metteva il cesto sotto il
naso dei passanti. E una folla allegra e ciarlona di curiosi e di
acquirenti andava e veniva per la via fra quella babilonia di gente e di
prodotti di tutti i colori e di tutti gli odori. Quando fu vicina l’ora
fissata dal padrone, Mosè dovette allontanarsi da quel bizzarro e
rumoroso spettacolo, e si avviò verso la piazza.
Percorrendo le Mercerie si trovò fra gente affatto diversa, che
camminava in fretta, colla testa bassa, verso un altro spettacolo.
Sotto l’arco dell’orologio si stentava a passare, tutti andavano verso
la piazzetta dove sorgeva la berlina, un palco alto, con una colonna
tronca nel centro intorno alla quale girava una panca. Una folla immensa
si stipava al sole in mezzo ai magnifici edifizi, davanti lo specchio
della laguna. Tutta la guarnigione austriaca era sotto le armi, non si
vedevano che teste e baionette.
Comparvero fra gli sbirri, alcuni Italiani ammanettati, salirono sul
palco, e rivolti verso il palazzo dei Dogi si udirono condannare a
morte, e al carcere duro per aver osato sognare l’indipendenza della
patria dallo straniero; e questa sentenza veniva letta da un curiale
austriaco da quel palazzo, in quella piazza eretti da un popolo libero,
ove tutto attestava quattordici secoli di indipendenza, contro un
dominio usurpato da circa nove anni senza l’assenso dei veri padroni.
Il terrore dominava quella folla, che assisteva in silenzio all’orribile
spettacolo. Alle parole «condannati a morte» un fremito di sorpresa, di
pietà, di sdegno sorse dalla folla, ma subito dopo ritornò il silenzio
della paura.
Mosè non potendo trovare il padrone in quella calca ritornò all’albergo,
e quando vide il capitano gli andò incontro con aria misteriosa e gli
domandò:
—Ha veduto sulla berlina quel signore magrolino cogli occhiali che è
venuto a farle visita una sera d’autunno, or son quasi due anni?!
—Non dirlo nemmeno all’aria, se un giorno non vuoi vedermi al suo posto.
Tutti quei condannati sono veri galantuomini, vittime d’una imprudenza.
Volevano fare il bene, ma non sapevano farlo colla finezza
indispensabile nella lotta del diritto inerme contro la forza armata.
Mosè restò sbalordito, e pensava agli ordini ricevuti dal padrone poco
dopo la visita di quel signore: il cancello del parco sempre chiuso, il
cancello del brolo sempre aperto! e cominciava a capire qualche cosa, ma
il capitano poteva essere sicuro che il segreto delicato starebbe
sepolto per sempre in fondo al cuore dell’onesto e fedele domestico.
Abortite le rivoluzioni di Napoli e del Piemonte e terminato l’infame
processo dei Carbonari colle barbare condanne, il paese, seminato di
spie, scoraggiato per le prove fallite, parve immerso in un silenzio di
morte. I vecchi patriotti rimasero prostrati, scoraggiati di tentare
nuove imprese; i giovani si gettarono negli stravizi, nella vita molle
effeminata, che il governo straniero incoraggiava in molte maniere per
facilitarsi il dominio d’uomini fiacchi e di anime corrotte.
Quella fu l’epoca fortunata dei teatri, delle ballerine e delle mime,
dei veglioni mascherati, dei carnevali rumorosi, degli intrighi galanti,
della vita allegra e spensierata.
Duravano tuttavia le proteste contro il dominio straniero, ma si
limitavano a maledire o beffare il governo, eludere le leggi, burlarsi
della dabbenaggine di qualche Tedesco, degli spropositi italiani dei
Croati, a canzonare la ingenua semplicità d’un soldato, a guardare in
aria sprezzante gli ufficiali dell’esercito austriaco.
Poi sorsero nuove sétte, ma coi capi cospiratori viventi all’estero,
pieni d’illusioni sulle condizioni locali del paese, con forze
immaginarie, e con tentativi arrischiati che esponevano le vite dei
cittadini, moltiplicando le piccole sollevazioni impotenti, e producendo
nuove vittime.
Che cosa potevano fare i prodi soldati degli eserciti napoleonici
lasciati in disparte? i patriotti intelligenti rimasti senza patria?
Crearsi una famiglia, educarla coi sani principii della giustizia,
vivere ritirati, apparecchiare i figli per l’avvenire, attendere e
sperare.
E così fece il capitano Bonifazio.
Andò in Brianza a sposare la sua Maddalena. Le nozze ebbero luogo in
primavera del 1822, con semplicità patriarcale, senza feste, senza
chiassi, e senza sonetti, come conveniva in tempi tristi, dopo dolorosi
avvenimenti.
La sposa che aveva sempre vissuto in campagna si trovò benissimo nella
sua nuova dimora nei dintorni di Treviso. La casa era più grande, il
possesso più esteso e più ricco; l’aspetto della pianura era meno
pittoresco delle colline di Brianza, ma l’orizzonte più ampio ed aperto,
la campagna bagnata da acque correnti, e l’aria pura ed elastica che
viene dalle Alpi e passa per l’immenso letto del Piave apporta la
salute, esilara lo spirito, ed eccita l’appetito.
Il capitano riprese i suoi lavori agricoli e di giardinaggio, la
Maddalena assistita da Mosè e da una fantesca, ordinò la casa; e così
ebbe origine la nuova famiglia Bonifazio, della quale abbiamo raccolto
la semplice istoria in queste povere pagine.



IV.

Talvolta i filosofi hanno il torto di ritenere troppo assolute le loro
teorie, se si contentassero di limitarle al circolo ristretto della loro
visualità, avrebbero perfettamente ragione.
Per esempio: se il maestro Zecchini avesse proclamato, che l’uomo è un
asino, senza uscire dalla sua scuola, nessuna autorità competente
avrebbe trovato un argomento valido per confutarlo: e forse nemmeno lo
stesso maestro avrebbe presentata un’eccezione.
E infatti, studiando sè stesso, egli aveva sovente l’occasione di
confermarsi nel suo principio.
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