La famiglia Bonifazio; racconto - 07

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abbaiando, sbattendo la coda in volto a Silvio, e appoggiandogli le
zampe polverose sui calzoni.
Il giovane disperato sgattaiolò rapidamente fuori dal buco, e cominciò a
spolverarsi col fazzoletto, mandando al diavolo quella bestiaccia
impertinente che gli aveva insudiciato il vestito. Maria lo seguì
sgridando il cane, e ridendo della sorpresa inaspettata, e della
impressione disgustosa che le pareva avesse prodotto sul cugino.
Passarono insieme a visitare il frutteto, ove pendevano dagli alberi dei
bei pomi rossi, delle pere di varie tinte.
Sta bene attento, disse Maria al cugino, indicandogli un pero carico di
frutta, queste non si mangiano crude, sono troppo dure, hanno un sapore
erbaceo, ma cotte sono eccellenti e zuccherine.
E seguitava: Ti raccomando quel pomo, è il migliore di tutti, almeno a
mio gusto. Questo pomo ruggine ti sembrerà brutto, ma è squisito,
quell’altro riesce benissimo nello _Strudel_, che il povero nonno non
voleva mangiare, perchè diceva che è un piatto tedesco. Poi gl’indicava
i ciliegi, ai quali cominciavano a cader le foglie, e gl’insegnava gli
alberi ove si raccoglievano le frutta più belle. Fiancheggiando un
filare di fichi glieli nominava tutti, gli faceva gustare i migliori.
Prendi questo verdino, assaggia quello della goccia, e il nero di
collina, e conchiudeva: Adesso conosci i più squisiti, ma l’esperienza
ti renderà più esperto.
Poi visitarono le vigne. C’erano delle uve eccellenti, il povero
capitano ne aveva fatta una raccolta stupenda.
Finita la passeggiata, Maria gli disse:
—Adesso passiamo alla presentazione dei miei amici. Non ho bisogno di
dirti tutti i pregi di Argo, tu lo conosci abbastanza, questo fedele
guardiano.
Silvio torceva il muso, Maria rideva, e intanto si avviarono verso la
scuderia. Prima di entrarvi si udì il nitrito di Falcone che aveva
riconosciuto i passi e la voce della padrona, e la invitava ad entrare,
un po’ per affezione, e un poco anche per interesse, perchè essa andava
sovente a trovarlo portandogli un pezzetto di pane e dello zucchero.

Pasquale, il macaco che stava nettando i finimenti sotto al portico,
quando s’avvide che i due giovani andavano a visitare il cavallo, corse
ad aprire la porta, e li precedette. Egli aveva certamente qualche cosa
da nascondere. Quando entrarono, si avvicinava al cavallo che ebbe un
tremito di paura, ma poi scorgendo Maria la buona bestia ripetè
l’allegro nitrito, le appoggiò la testa sulla spalla, guardandola
affettuosamente coi suoi grandi occhi neri, e raspando il pavimento
colla zampa, per domandare qualche cosa. Maria disse al cugino:
—Non gli manca che la parola. Egli distingue benissimo gli amici dai
nemici,—e così dicendo fissava con disprezzo il domestico, che col suo
grugno di scimmiotto faceva lo gnorri.
La fanciulla si diffuse a vantare le ottime qualità di Falcone, e
accarezzandolo si accorgeva che era stato strigliato male, e ne faceva
l’osservazione a Pasquale, il quale si giustificava accusando il fieno
d’essere pieno di polvere.
Dalla scuderia passarono alla stalla delle mucche e dei vitelli. Maria
le designava tutte per nome dicendone i pregi. _Mira_ è una grossa
friburghese che fa un latte eccellente, _Macchia_ è sua figlia, è più
bella della madre, ma meno lattifera. La _Tirolese_ con quell’occhio
placido, sentimentale, è un bel tipo. _La Bianca_ non manca di buone
qualità, ma la poverina cammina male.
Le buone bestie voltavano la testa a guardare, e mettevano un lungo
muggito, poi cacciavano il muso nella greppia, o stavano ruminando.
Maria accarezzò i vitellini, poi uscì dalla stalla con un salto, dicendo
al suo compagno:
—Andiamo a visitare il pollaio.
Prima di entrarvi andò a prendere una manata di becchime, poi aperse la
porta del cortile. Pareva di entrare nell’arca di Noè, c’era ogni sorta
di volatili, oche, anitre, tacchini, galletti e galline, capponi dalla
ricca coda di colori metallici, pollastre calzate e cappellute, e un
gallo adulto, rosso nero ed azzurro, coi bargigli accesi, la cresta
ritta, e due speroni da fare invidia a qualunque cavaliere. Egli andava
ruzzolando fra la terra smossa, la crusca e le foglie verdi di cavolo,
guardando intorno con occhio vigilante, chiamando le sue galline a
beccare i granelli scoperti.
Maria sparpagliò il becchime chiamando: _pire pire pitte pitte_.
Al suono della sua voce si udì uno svolazzamento rumoroso accompagnato
da accenti acuti, rauchi, sonori, uno squittire, un chiocciare confuso
di chirichichì, di glu glu, di cocodè, si vide un accorrere ad ali
spiegate, un saltellare, uno sparnazzare di zampe frettolose, un beccare
furibondo di affamati. In coda alla svariata comitiva si avanzavano le
anitre dondolanti sulle gambe corte, che ansiose di raggiungere i
compagni annunziavano il loro arrivo: quà quà quà. Ultimi ad arrivare
furono i tacchini, quei boriosi perdevano una così bella occasione di
satollarsi per mettere in mostra la ruota della coda e le ciliegie
scarlatte della loro pappagorgia, come i vanitosi della razza umana.
Uno stormo di colombi di tutti i colori era disceso dalla colombaia, e
svolazzava intorno alla fanciulla, arrestandosi sulle sue spalle o
prendendole i granelli dalle mani.
La campanella del pranzo richiamò in casa i due giovani. Il gatto che
sapeva le ore meglio degli orologi, aspettava la sua parte sul balcone
della cucina, e fu l’ultimo presentato. Maria corse ad accarezzarlo, ed
egli arcuava il dorso e si fregava al viso della fanciulla, facendo le
fusa.
—Ecco, disse Maria, il più furbo di tutti, Mumut viene a riposarsi sul
mio panierino di lavoro, ma dorme con un occhio solo. Talvolta va a
coricarsi fra le gambe di Argo, il quale non si muove più per non
disturbarlo, e gli lava il muso colla lingua. Mumut fa la polizia della
dispensa, visitata sovente da piccoli ladruncoli a coda lunga che
rosicano il formaggio, mangiano la farina e il butirro. Ma qualche volta
il briccone preferisce il vitello arrosto ai sorci crudi; allora è il
gabelliere che fa il contrabbando, e la nonna va in collera.
Durante il pranzo Silvio rese conto delle presentazioni della cuginetta,
e degli ottimi consigli che gli aveva dati sulle varie qualità delle uve
e delle frutta. Gervasio lodava le cure di suo padre che non aveva
lasciato un angolo di terreno senza cultura. La nonna si asciugava una
lagrima pensando al suo vecchio compagno, era soddisfatta di udirlo
ricordare con riconoscenza dal figlio, e aveva un sorriso affettuoso pei
due nipoti, che formavano l’unica consolazione della sua vita.
Alla fine dell’autunno arrivò alla villa il capitano Alessandro, e fu
accolto da tutti colle più cordiali dimostrazioni d’affetto. Maddalena
non lo aveva più veduto dall’infanzia. Egli le apportò di quei cari
ricordi domestici raccolti nella casa di Brianza, che sono i doni più
preziosi che si possono fare a chi visse lungamente lontano dal tetto
paterno.
Un ritratto in miniatura del colonnello colle assise dei cacciatori
della guardia imperiale, un ritratto di sua madre prima delle nozze.
Alcuni lavoretti della sua infanzia, alcune lettere che suo padre
scrisse alla moglie da varie parti d’Europa, nelle quali parlava con
sommo affetto della loro bambina.
Il mese che il capitano passò alla villa fu lieto per tutta quella buona
famiglia, che rimase per tanto tempo dispersa. Si fecero delle belle
gite nei siti più pittoreschi della provincia, ai colli d’Asolo e di
Conegliano, ai monti ed ai laghetti di Ceneda e Serravalle, le due città
congiunte in una sola dal Re liberatore, che le diede il nome famoso e
immortale di Vittorio.
Tutti andavano a gara per divertire l’ospite gradito, e intanto si
divertivano con lui. Ai primi di novembre egli partì, e Gervasio
condusse a Treviso suo figlio per cominciare gli studi liceali, gli
raccomandò di studiare, e di tenere una buona condotta, e ritornò alla
villa.
Era la prima volta che Silvio si trovava affatto libero, e ne profittò
subito per imparare il giuoco del bigliardo, pel quale si sentiva delle
disposizioni incoraggianti. Fece una buona scelta d’amici, e di sigari;
andava ogni sera al teatro e poi a cena, si coricava assai tardi, e alla
mattina dormiva profondamente, dimenticandosi le ore delle lezioni, e
così evitando la noia della scuola.

Ritornò a casa per le feste di Natale e vi restò fino dopo il principio
del nuovo anno; a carnevale nuove vacanze, e a Pasqua rimase in famiglia
quasi un mese. In giugno celebrò la festa nazionale con una settimana
d’ozio, e in luglio aveva finito il primo anno, ed esaurito a suo modo
il programma dello studio, passando anche agli esami.... pel buco della
chiave, come egli stesso confessava agli amici.
Ad ogni vacanza regolare ad arbitraria andava a spasso per la città a
farsi vedere come i tacchini della corte. Il cappello sull’orecchio
destro, il sigaro in bocca, si dava un’aria spaccona da far ridere le
mosche.
Suo padre si stupiva di quelle incessanti vacanze, di quella vita
dondolona, di non vederlo mai con un libro in mano, e si rammentava il
sistema diverso del tempo nel quale egli andava alla scuola, l’appello
dei professori, il rigore degli esami, il bisogno di studiare che
sentivano gli studenti. Silvio gli rispondeva:
—Quello era un tempo di pedanti, adesso è l’epoca della libertà!...
—Libertà dell’ignoranza! soggiungeva suo padre. Noi ci siamo
apparecchiati sui libri a liberare la patria....
—E avete fatta della retorica e delle famose corbellerie, che vanno
celebri nella storia, col nome di _quarantottate_!
Gervasio restava sbalordito. Le quarantottate!... il 1848 l’aveva
lasciato storpio, aveva veduto coi suoi occhi i morti di Marghera, e del
Ponte, gli pareva che le congiure, le carceri, i patiboli, la guerra non
fossero retorica, ma forse si era ingannato. Egli pensava che la libertà
ottenuta avesse bisogno di coltura per conservarla, ma suo figlio lo
assicurava che il mondo cammina da sè, e che si diventa dottori anche
senza dottrina.
«Divento vecchio! pensava fra sè papà Gervasio, vivo troppo lontano dal
mondo per essere in caso di giudicarlo. Non voglio parer rimbambito, nè
dar noia colle mie prediche all’unico figlio.»
Talvolta s’intratteneva di questi suoi dubbi, col vecchio maestro
Zecchini, il quale gli rispondeva colla sua invariabile convinzione:
—L’uomo è un asino!... va avanti fino a un certo punto poi ritorna
indietro; i figli sono sconoscenti, i popoli sono ingrati, e dimenticano
facilmente i benefizii ottenuti con tanti dolori dai loro padri. Io sono
un vecchio testimonio dei tempi trascorsi. Ho veduto il sangue e le
lagrime che vennero sparse dalla nostra generazione per ottenere la
indipendenza. Adesso che è raggiunto lo scopo, i neonati si burlano del
passato, e si apparecchiano all’avvenire con fatua dabbenaggine. Ne
vedremo col tempo le conseguenze.
Gervasio abbassava la testa, e procurava di distrarsi colle cure del
giardinaggio e dei campi, cercava di far conoscenza con delle persone
che dividessero i suoi gusti, e vedeva nella associazione al lavoro, non
solo un vantaggio, ma eziandio un vero piacere.
I Pigna erano tutti agricoltori. Il vecchio era decrepito, il figlio gli
pareva un uomo da nulla, ma il figlio del figlio era un giovinotto
dell’età di Silvio, e frequentava la famiglia, e con lui cominciò ad
intrattenersi di colture, e a metterlo a parte de’ suoi progetti. Lo
invitava a pranzo, e lavoravano insieme potando gli alberi, seminando, e
trapiantando le pianticelle nei vasi. Era amico di Maria, e la nonna gli
voleva bene. Per farsi un concetto preciso di questo giovane richiese il
parere del maestro Zecchini.
—I Pigna, gli rispose, sono piccoli possidenti, e grandi ignoranti; il
giovane Andrea fu mio scolaro, ed è un asino come tutti gli altri suoi
pari. Tutti i nostri agricoltori coltivano il suolo da padre in figlio,
senza sapere che cosa sia la terra, l’aria, l’acqua, la luce colle quali
lavorano, contrariando la natura, e ricavando meschini prodotti.
Gervasio cercava d’istruire questo giovane amico, ma gli trovava la
testa dura, e si doleva col maestro di quella tarda intelligenza.....
—Sono ignoranti, ma furbi ed astuti, gli osservava il maestro. Contano
sulle dita, ma non fallano mai a loro danno.....
—Mi pare che s’interessi alla coltura dei fiori..... diceva Gervasio.
—Perchè gli piacciono i desinari della signora Maddalena. È un ghiottone
che ama i buoni bocconi, che per lui sono i veri prodotti dei vostri
fiori.
Papà Gervasio sorrideva del pessimismo del povero vecchio, che pareva
nato con un paio di occhiali scuri sul naso, tanto vedeva tetro nel
mondo.
Tuttavia dopo d’aver passato un paio d’anni al contado, anche Gervasio
era convinto che cittadini e contadini italiani sono due popoli affatto
diversi, che vivono sullo stesso suolo, con idee e costumi differenti.
Questa anomalia, questo dualismo della civiltà e dell’ignoranza
selvaggia, del lusso e della miseria, è un gravissimo ostacolo alla vera
unità nazionale.

Tocca alla giovane generazione di fondere insieme queste diverse nature,
egli pensava, e mio figlio sta apparecchiandosi all’ardua impresa.
Suo figlio, in quello stesso momento, carambolava allegramente sul
prediletto bigliardo, mentre il suo professore si sforzava a dimostrare
agli scolari, che «la coltura d’una nazione è la più sicura garanzia
della sua libertà.» Finiti gli studi liceali, Silvio andò a Padova a
studiare la legge, e a giuocare al bigliardo, e ritornando alla villa
dopo il secondo anno di studio cominciò ad accorgersi che sua cugina
Maria era proprio una bella ragazza. Guardandola negli occhi gli
sembrava di sprofondarsi in un lago senza fondo, e sommerso in quel
pelago soave diventava muto come un pesce. Essa pure appariva più
impacciata del solito.
Correvano ancora come due fanciulli attraverso i prati del parco, o
sotto i boschetti, mangiavano insieme le frutta seduti sull’erba, egli
la contemplava in silenzio, gli pareva la più bella pesca matura della
villa, l’avrebbe divorata viva e la invitava a fare una merendina nel
nido come nei primi tempi, ma adesso ch’egli mostrava di andarci tanto
volontieri, e senza paura delle biscie, essa non voleva andarci più, e
furono vane tutte le preghiere.

Silvio entrava nelle serre, raccoglieva i fiori più rari, ne faceva dei
mazzetti eleganti e li presentava alla cugina che se ne mostrava lieta,
e sapeva farli vivere lungamente, cambiando spesso l’acqua del vaso, e
gettandovi dentro del carbone polverizzato.
Ma la perfetta felicità non è pianta che attecchisca sul nostro pianeta;
e appena s’intravede il paradiso terrestre, ecco che salta fuori il
serpente. Silvio credette di vedere, con profondo rammarico, che quello
stolido di Andrea Pigna gli vogava sul remo. Senza aver percorso gli
studi universitari forse anche costui aveva fatta la stupenda scoperta
del suo sapiente compagno; aveva trovato che Maria era una bella
ragazza, e la contemplava con piacere. Allora il cuginetto si rammentò
la storia di Cristoforo Colombo, e di Amerigo Vespucci, e pensando che
non è sempre il primo scopritore che dà il nome alla scoperta, si sentì
ferito nell’amor proprio, e cominciò a guardare di mal occhio il
supposto rivale.
Così ebbe principio una burrasca nell’ambiente ristretto della villa,
prodotta dai nuvoloni che si alzavano dal cervello dello studente. Il
suo odio per Andrea glielo faceva vedere più brutto del vero; ne
sparlava con suo padre e con la nonna, ma tutti lo difendevano con
simpatia, e giustificavano il suo carattere, che sotto la rozza scorza
mostrava delle buone qualità. Allora Silvio parlando con Maria scherzava
ironicamente sul bellimbusto, ed essa che lo aveva sempre guardato con
indifferenza, si mosse a compassione, e si mise ad osservarlo con
interesse.
—Povero Andrea! essa diceva al cugino, è così premuroso nel contentare
lo zio, è così attento ai suoi consigli, ha tanta cura dei nostri fiori.
—Capisco, capisco, gli vuoi proprio bene a quel ragazzo.
—Ma sicuro gli voglio bene. Ci siamo conosciuti da piccini, abbiamo
giuocato insieme, è figlio e nipote di vecchi amici di casa.
—Che il cielo vi benedica! e vi conservi lungamente concordi e felici,
in questa valle di lagrime, che è per voi un vero giardino di
delizie!...
—Non so cosa vuoi dire colle tue declamazioni enfatiche, ma hai torto di
usare delle sgarbatezze a quel ragazzo inoffensivo, e compiacente.
E si bisticciavano sovente sul medesimo argomento. Silvio guardava in
cagnesco Andrea, il quale gli faceva degli occhiacci dispettosi. Tutti
questi malumori furono causa di malintesi, di equivoci, di risentimenti
e di corrucci.
Silvio teneva il broncio acciecato dalla gelosia, e si credeva in
dovere, per tutelare la propria dignità, di nascondere l’amore nascente
che covava sotto la cenere. Maria indispettita del cambiamento di tono
del cugino, del suo linguaggio bisbetico, delle sue ingiustizie, alzava
le spalle e lo lasciava in disparte, e guardava il povero Andrea con
compassione e indulgenza, e tutto ciò incoraggiava il giovine a
contemplarla con riconoscenza, e a sentire i primi sintomi d’una sincera
affezione.



X.

Fra queste e altre varie vicende di poco rilievo passarono gli ultimi
anni di studio, e finalmente Silvio ebbe la laurea, e si dispose a fare
la pratica. Papà Gervasio, secondo la sua promessa, e coll’aiuto degli
amici, gli aveva trovato un avvocato di Venezia che consentì di
riceverlo come praticante, lo accolse con cortesia, e lo presentò alla
sua famiglia, composta della moglie e d’una figlia.
L’avvocato Annibale Ruggeri aveva una buona clientela che faceva
prosperare il suo studio. Silvio non tardò a persuadersi della somma
utilità della pratica che andava facendo nella trattazione degli affari.
Colla sua giovanile ingenuità egli credeva che il merito dell’avvocato
dovesse consistere nella rapidità della procedura. Considerando le
lungaggini della giurisprudenza italiana, colle infinite pratiche
precauzionali per guarentire tutti i diritti, egli la trovava
eccessivamente diffusa e prolissa e pensava che la condotta d’ogni causa
dovesse studiarsi in modo da correggere il difetto delle leggi, per
soddisfare le parti colla massima possibile sollecitudine. Ma era
tutt’altro. Gli bastò poco tempo per accorgersi che l’avvedutezza
dell’avvocato consiste nell’arte di non precipitare le sentenze, che
potrebbero riuscire funeste senza le dovute precauzioni. Bisogna che
l’istruttoria sia ponderata e completa, l’esame dei documenti
scrupoloso, è necessario di moltiplicare le conferenze, di allargare le
informazioni, di pesare gli atti, di prevedere i sotterfugi degli
avversari, di cercare le prove, domandando proroghe sopra proroghe,
suscitando incidenti, promovendo dilazioni, mettendo in campo tutti gli
amminicoli possibili per tirare in lungo, e avere il tempo di complicare
le faccende, come una matassa arruffata, che avvolga l’avversario in una
rete di abilissimi cavilli, e di argomentazioni imprevedute da rendergli
impossibile l’uscita.
E nello studio Ruggeri si lavorava a fondo con tali principii,
moltiplicando all’infinito la lista delle spese, per bolli,
scritturazioni, consulti, copie, corrispondenze, ma con piena
rassegnazione dei clienti che affluivano in gran numero attirati dalla
rinomanza dell’avvocato, e dalla speranza che il suo merito e la sua
esperienza troverebbero il modo di abbindolare i giudici, facendo
trionfare i loro torti come se fossero buone ragioni. E facevano delle
lunghe anticamere per attendere il loro turno, alle conferenze. Cosicchè
il denaro pioveva in abbondanza ed avrebbe apportata la ricchezza se la
casa fosse finita agli ammezzati; ma disgraziatamente aveva un altro
piano, e se la scala del piano inferiore faceva salire l’oro alla cassa,
la scala del piano superiore lo faceva discendere e sparire. Quella casa
era una vera pompa aspirante e premente; gli affari la riempivano, il
lusso la vuotava.
L’avvocato impallidiva sulle carte e sui codici, ci perdeva gli occhi e
i capelli, l’appetito ed il sonno; e si consumava in quella vita
sedentaria e in quella atmosfera morbosa, mentre il frutto delle sue
fatiche svaporava con prodigiosa rapidità, per pagare le polizze dei
tappezzieri e dei merciai, degli orefici, delle modiste e delle sarte.
Quella testa forense dell’avvocato era un vero vulcano che sconvolgendo
le viscere del mondo giudiziario ne faceva uscire delle eruzioni di
cappellini, di fiori, di pizzi, di abiti, di mantelli, nastri, fiori,
svolazzi e gioielli. Il prodotto d’ogni conflitto di diritti, d’ogni
contratto di nozze e d’ogni testamento finiva sempre in un capriccio di
moda. Infine dei conti, marito e moglie, senza saperlo, lavoravano col
medesimo risultato, quello di dar da intendere al mondo lucciole per
lanterne. Mentre l’avvocato si scervellava sul codice e sul dizionario
onde trovare un articolo favorevole, e un vocabolo opportuno per
mascherare una verità pericolosa, la moglie davanti lo specchio cercava
di raffusolarsi magistralmente per nascondere le sue rughe, per far
passare il fintino per capelli effettivi, e i cuscinetti d’ovata per
rotondità naturali.
Silvio cominciò a frequentare la famiglia Ruggeri, e nelle conversazioni
serali ebbe campo di studiare l’arte soprafina della signora Emilia,
come durante la giornata aveva potuto ammirare l’abilità magistrale del
dottore Annibale nel maneggio degli affari.
Nell’ombra prodotta dal cappello della lucerna in un angolo romito del
salotto il giovane praticante osservava attentamente quelle due figure
caratteristiche; una testa calva piena di pensieri e una testa vuota
fornita di ricciolini posticci, che vivevano nel lusso a spese dei
litiganti. E pensava fra sè: «le discordie domestiche, l’ignoranza, la
mala fede, gl’inganni, le frodi, le rapacità della nostra vita civile
forniscono questi tappeti turchi, questi stipi eleganti, questi mobili
artistici, scelti nelle sale di Guggenheim e nell’officina di Besarel,
questi vetri di Murano, questi ninnoli artistici, e i fiori freschi che
profumano il salotto in quel magnifico vaso di Ginori.»
Ma il più bel fiore era Metilde, quella bella bionda, leggiadra, snella
ed eterea come un angelo dipinto da Morelli. Con quei capelli d’oro e
quegli occhi turchini, quella vita di vespa, quell’incesso leggiero di
silfide!... quando muoveva agilmente sul pianoforte le dita affusolate,
Silvio restava estatico a contemplarla, quando in un giro di valzer essa
scopriva gli stivalini arcuati che calzavano i suoi piedini eleganti,
egli si tirava indietro per paura di toccarla, tanto gli pareva una
divinità scesa dal cielo. La prima volta che essa si degnò
d’indirizzargli la parola fu tanto confuso che le rispose una
sciocchezza che la fece ridere mostrando due file di dentini
meravigliosi per la regolarità ed il candore. Ed essa s’avvide subito
che quella timidità proveniva da ammirazione, e ne fu soddisfatta. Suo
padre aveva detto in famiglia che Silvio Bonifazio, nato in Francia, in
esilio, era stato educato a Milano, pareva un giovinotto che accoppiasse
le buone qualità francesi e italiane, mostrava spirito e ingegno, ed era
audace come suo nonno, un antico soldato del primo Napoleone.
Quell’aureola dell’esilio intorno ai capelli profumati, quei
mustacchietti giovanili sulla freschezza del volto, quello spirito
ecclissato dal semplice aspetto della bellezza gli guadagnò subito tutte
le simpatie della fanciulla, e gli assicurò la più indulgente amicizia.
A poco a poco venne anche il coraggio, e l’abitudine lo rese sempre più
facile. Allora Metilde s’accorse che il giovinotto non mancava di brio,
e non tardò a trattenersi seco lui con piacere in lunghe e geniali
conversazioni, nelle quali essa pure faceva mostra d’eccellenti qualità
intellettuali che raddoppiavano l’effetto della bellezza colla grazia
d’un dialogo vivace, e dell’accento veneziano, che la rendevano
incantevole. E davvero faceva onore al babbo che l’aveva fatta istruire
dai migliori professori. Essa aveva corrisposto benissimo, imparando con
pronta intelligenza, e continuando a coltivarsi con buone letture. E
parlava con esatte cognizioni di storia e di letteratura, giudicando
coll’acuto buon senso della donna accoppiato ad un gusto fine, istintivo
e personale che rendeva interessanti i suoi giudizi. E faceva onore
anche alla mamma che la vestiva a suo modo, come una bambola, ma con
supremo buon gusto, e ben inteso, senza risparmio; non contentandosi di
scegliere le stoffe e gli artefici migliori a Venezia o a Milano, ma
ricorrendo anche a Parigi, mediante le grandi facilitazioni procurate
dai Grandi Magazzini del Louvre, che spediscono gratis, disegni,
modelli, campioni, e gli oggetti scelti senza domandare un soldo
anticipato. A Venezia pagavano i clienti.
La signora Emilia aveva squadrato con un colpo d’occhio il nuovo amico
di casa, aveva veduto subito che la sua biancheria era di manifattura
francese, che il taglio delle vesti era di Milano, aveva saputo dal
marito che il giovinotto dimorava in una villa signorile nei dintorni di
Treviso, un piccolo Trianon, un parco all’inglese, cogli alberi più alti
del palazzo, con una vasta estensione di bosco, una cascata, un lago,
dei frutteti, delle vigne, dei campi come se ne vedono pochi. Dunque non
ci potevano essere inconvenienti a quella amicizia, quel giovane
apparteneva evidentemente ad una famiglia molto ricca, e quindi era il
ben venuto nella sua casa. Qualche interrogazione sagace fatta ai
conoscenti e agli amici l’avevano anche perfettamente rassicurata sulla
condotta di lui.
Era un giovinotto che non frequentava che da Florian, non fumava che
sigari d’avana, era carambolista di prima forza, non c’era pericolo che
si rovinasse al giuoco, perchè perdeva di raro. Si poteva dunque
ammetterlo nella più stretta intimità, ed invitarlo a pranzo senza
riguardi.
Frattanto papà Gervasio scriveva a suo figlio:
«Ti raccomando l’economia. Tu mi assicuri che la biancheria che hai
fatto venire da Parigi ti costa meno che se l’avessi acquistata a
Venezia, sarà benissimo, ma la tua nonna mi ha fatto delle buone
camicie, che mi vanno benissimo e costano meno della metà. In quanto
alla polizza del sarto di Milano ti posso assicurare che è esorbitante,
e la durata delle stoffe, che tu credi che deva compensarti del prezzo,
è una vana illusione. La nonna voleva che Maria ti facesse un paio di
guanti di lana, per star caldo, ma tua cugina pretende che tu non vuoi
portare che guanti di pelle. Sai che non siamo ricchi, che il povero
nonno ci ha lasciati molti debiti che aggravano le campagne, e con
questi anni cattivi, colla malattia delle uve, la siccità, le grandini,
il prezzo basso dei cereali, la miseria dei contadini, i possidenti si
trovano in pessime condizioni. Capisco che la tua condizione esige una
tenuta decorosa, e che la moderna società ha molte esigenze; ma procura
di non passare i limiti, e pensa alle privazioni che ci siamo imposte
per mantenerti a Venezia.
«La mia salute non è perfetta, ho delle sofferenze intestinali, ma col
tempo e le cure passeranno anche queste. Tutti gli altri di casa stanno
benissimo, e ti mandano i più affettuosi saluti.»
I giorni che gli capitavano di queste lettere Silvio si sentiva invaso
da profonda malinconia, alzava gli occhi al soffitto ed esclamava:
—Ah! non essere milionario, è la più gran disgrazia che possa toccare ad
un uomo che deve vivere in società!... Libertà, indipendenza, diritti
dell’uomo e del cittadino!... sono frottole che fanno sbraitare
gl’imbecilli, ma infine dei conti non esiste nè libertà, nè
indipendenza, nè nulla di buono a questo mondo senza il denaro!... Mio
padre non è mai stato splendido, ma adesso che è vecchio diventa avaro.
Se la povera nonna non mi aiutasse colle sue economie, se il bigliardo
non mi assicurasse dei vantaggi, colla sola mesata paterna non mi
sarebbe possibile di vivere a Venezia nella buona società.
Una domenica mattina se ne andò a passeggiare, solitario, sulle
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