La famiglia Bonifazio; racconto - 09

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convivenza. Ma forse quell’affezione nascente si sarebbe assopita, o
trasformata in amicizia, senza il soffio dell’invidia che nell’animo
acceso del cugino, produceva l’effetto del mantice davanti il fuoco. Gli
faceva rabbia quel sornione d’Andrea che continuava ad aspirare
copertamente all’amore di Maria, dissimulando quanto poteva le sue
tendenze, perchè sentiva di non essere corrisposto nè inteso, e non
voleva accrescere le difficoltà dell’impresa, nè comprometterne il
risultato, con intempestive dichiarazioni che lo esponessero ad essere
allontanato dalla famiglia. Ma Silvio, memore del passato, e d’indole
perspicace, non ebbe bisogno che d’una occhiata per accorgersi che
l’amico di casa perseverava pazientemente nelle sue idee, le dissimulava
con prudente astuzia, aspettando il momento opportuno per farsi avanti,
con qualche probabilità di successo.
Il giovane Bonifazio non poteva soffrire la ruvida natura di quel
gaglioffo, gli pareva che la pretesa di farsi rimarcare da Maria fosse
quasi una sfida verso di lui, lo trovava stupido e audace, e quei
sentimenti gelosi gli rivelavano l’amore per la cugina, e l’odio per
Andrea.
A costui parve che Silvio volesse leggergli in fronte i pensieri, e
guardava in cagnesco il giovinotto elegante, che contrariava la sua
inclinazione. Parlavano di raro fra loro; Silvio gl’indirizzava la
parola con sprezzante alterigia, Andrea gli rispondeva poche parole,
cogli occhi torbidi, e i lineamenti contratti.
Parlando colla nonna e con suo padre, Silvio pronunziò qualche parola
sprezzante all’indirizzo d’Andrea, ma si sentì confutare, con sommo
rammarico. Pareva anzi che il loro affetto per Pigna fosse cresciuto, e
mostravano di crederlo degno di stima e di amicizia. Maria lo difendeva
sempre colla più ingenua semplicità, e raccontava al cugino tutti i
piccoli servigi che quel giovane rendeva alla famiglia, prestandosi
cortesemente in tante brighe noiose. Essi lo impiegavano continuamente
dentro e fuori di casa. Oltre l’assistenza che dava allo zio nelle cure
delle serre e dei fiori, egli faceva acquisti e vendite per conto loro,
sorvegliava i coloni e i domestici.
Quest’ultima rivelazione illuminò lo spirito di Silvio, come un lampo.
Se costui sorveglia i domestici, egli pensò, deve essere in uggia a
Pasquale, che non vorrebbe essere sorvegliato; ecco dunque un alleato.
Saprò qualche cosa da lui sul conto di Andrea, e potrò servirmene
all’uopo. Silvio andò in scuderia a visitare Falcone al momento della
strigliatura, disse qualche parola benevola al domestico per amicarselo,
e cominciò a chiedergli conto di alcune persone che frequentavano la
casa, per finire, con apparente indifferenza, a domandargli d’Andrea.
Quel scimmiotto di Pasquale parlava del giovane come di un orso. Era
evidente che l’orso e lo scimmiotto sentivano una ripulsione reciproca e
si evitavano. Lo scimmiotto accusava l’orso di essere avaro: perchè non
gli dava mai un soldo di mancia; d’essere traditore: perchè svelava ai
padroni i suoi istinti rapaci; d’essere una spia: perchè sapendolo
sciocco e rapace lo teneva d’occhio affinchè non danneggiasse la
famiglia amica, verso la quale aveva delle obbligazioni e dei doveri.
Anche dal maestro Zecchini non potè saperne di più. Secondo il maestro,
Andrea era uno degli innumerabili asini usciti dalla sua scuola, nel
lungo esercizio delle sue funzioni dalle quali si era finalmente
ritirato, lasciando il mondo, poco su poco giù, come lo aveva trovato
alla prima lezione.
—E credo fermamente, egli diceva, che gli uomini saranno sempre gli
stessi. Chi vive contento di tutto e di tutti, chi non è mai contento di
niente e di nessuno.
—Eppure, gli osservava Silvio, siete vissuto in epoche affatto diverse,
e in tempi burrascosi, siete passato dalla schiavitù all’indipendenza,
dal regime dispotico alla libertà, e anche gli uomini avranno mutato le
loro tendenze, i loro vizii, le loro virtù....
—Niente affatto! gli uomini sono sempre gli stessi. Tanto all’epoca del
dispotismo straniero quanto col regime della libertà si trovano i
contenti e i malcontenti; adesso, come nella mia gioventù, ci sono
società segrete e congiure, allora si voleva scacciare il governo
austriaco, adesso si vorrebbe rovesciare la monarchia; più tardi si
tenterà di mandare a rotoli la repubblica. Si ottennero delle cose che
parevano impossibili, adesso se ne domandano delle altre che paiono
utopie. Ma l’impossibile e l’utopia sono parole senza significato. Tutto
è possibile a questo mondo!.... ma niente è perfetto. Quando c’erano i
Tedeschi avevamo il vino in abbondanza e a buon mercato, ma non si
poteva star allegri sotto la minaccia costante del carcere e della
forca. Adesso che siamo liberi, si potrebbe stare allegri, ma non
abbiamo più vino. Dispotismo o filossera, Austriaci o peronospora, c’è
sempre qualche cosa che contrista la nostra esistenza! Adesso non c’è
più pericolo d’andare in berlina, i galantuomini non sono più condannati
al carcere ed all’esilio, ma i contadini devono esiliarsi
spontaneamente, ed emigrare in America perchè la terra non dà più da
vivere, i piccoli possidenti sono rovinati, i grandi sono minacciati dal
petrolio e dalla dinamite, dai nichilisti e dagli anarchici che vogliono
distruggere la società.
E perchè tutto questo?... perchè l’uomo è un asino, che si lamenta
quando è legato alla greppia colla cavezza, e appena lasciato libero
mena calci da disperato e calpesta da stolto la terra, sulla quale non
sa vivere, nè lasciar vivere in pace i suoi simili.
Sono vecchio, sono vicino a lasciare il mondo, ho veduto delle cose
tremende, ho assistito a degli avvenimenti meravigliosi, eppure non ho
mai cambiato il criterio che mi sono formato alla prima lettura della
storia:—l’uomo è un asino!...—Il vostro povero nonno andava in collera
quando udiva questa verità, ma non ha mai saputo confutarla con validi
argomenti. Vostro padre ha sempre riso della mia ostinazione, ma non ha
mai osato discuterla sul serio; che cosa ne pensate voi, caro Silvio,
che avete studiato tanto da diventare dottore, avvocato, e mi dicono
anche giornalista, ditemi francamente che cosa pensate della mia teoria?
—Caro maestro, ho sempre udito dire che i vecchi la sanno più lunga dei
giovani, quindi sono incompetente a pronunziare un giudizio sopra la
vostra sentenza. Ho poi imparato nella mia pratica d’avvocato che tutto
è possibile, anche l’impossibile; che nessuno a questo mondo può essere
mai sicuro di avere completamente torto o ragione, in qualsiasi
questione. L’ingegno può essere un’apparenza, la virtù un’opinione,
l’utopia una futura realtà. L’ideale può essere una verità, il vero può
essere un inganno; non c’è niente di positivo nè di sicuro nè di
assoluto, e quindi anche la vostra teoria non può essere che
relativa....
—Capisco, capisco, siete uno scettico, non credete nemmeno ad una delle
verità più evidenti, come l’asinaggine umana!
—Non credo alla generalità della vostra teoria, ma non posso negare che
credo all’asinaggine d’una grande maggioranza della razza umana....
—Ebbene, basta così, mi avete dato completamente ragione, senza
accorgervene. Dopo immense tribolazioni, dopo le rivoluzioni e le guerre
più sanguinose, abbiamo vinto, ci siamo liberati da tutte le
oppressioni, e per conservare la libertà abbiamo adottato il sistema
parlamentare, il governo della maggioranza!... cioè il dominio degli
asini!!!...
Silvio diede una sghignazzata solenne, prodottagli dalla logica del
maestro. Ma vedendo che era uscito dalla questione che lo interessava
maggiormente, e che non avrebbe potuto saperne di più sul conto
d’Andrea, prese congedo dal maestro, il quale restando sempre serio, lo
accompagnò fino alla porta, gli strinse amichevolmente la mano, e si
ritirò.
Il medico si mostrava soddisfatto dei miglioramenti progressivi della
salute di papà Gervasio, la nonna e Maria se ne consolavano, il solo
malato non era contento, e coi cenni del capo mostrava di non credere
alle asserzioni del dottore. Pareva che non avesse più fede nella vita,
l’avvenire lo preoccupava seriamente, faceva dei discorsi melanconici.
Conversando con suo figlio si provò a persuaderlo delle magre risorse
della professione di avvocato, specialmente per un giovane principiante,
gli mostrò le amarezze e i pericoli del giornalismo, e contrapponeva a
queste osservazioni le dolcezze della vita domestica, la quiete salutare
dei campi, mostrando il più vivo desiderio che Silvio pensasse al sodo,
prendesse moglie, venisse a stabilirsi in casa, gli procurasse questa
consolazione prima di morire.
Silvio opponeva le stesse parole che aveva udite altre volte da suo
padre:—Oramai la terra non dà che rendite meschine ed incerte, gli anni
diventano sempre peggiori, scarseggiano i prodotti, si vendono a prezzi
disfatti, e il ricavato non basta per vivere, dopo pagate le imposte
sempre crescenti, e il numero infinito delle tasse. Bisogna dunque avere
una professione che supplisca ai redditi deficienti; ed egli ne aveva
due: l’avvocatura e il giornalismo.
—Tutto questo va benissimo, rispondeva papà Gervasio; ma se guadagni per
due, tu spendi per quattro. Ho dovuto fare dei debiti per soddisfare ai
tuoi bisogni, ho incontrato dei mutui, ho gravato le terre di ipoteche.
Qui le spese sono piccole e si possono limitare alle rendite; col
risparmio si riparano le perdite, con un lavoro razionale si migliorano
le terre, si accrescono i prodotti, e vivendo con parsimonia e giudizio,
si possono attendere gli anni migliori, che dovrebbero venire.
Silvio tentennava il capo, non pareva convinto delle parole paterne, nè
desideroso di sacrificare la sua esistenza nella solitudine rurale, ma
non voleva scoraggiare il povero malato togliendogli ogni speranza,
distruggendo con una crudele negativa tutti quei bei sogni di tranquilla
vita domestica. Prese tempo a riflettere, promise che ci avrebbe pensato
seriamente, e con vera abnegazione.
E quando sedeva dirimpetto a Maria, davanti al suo tavolinetto da
lavoro, e la guardava negli occhi profondi, e la faceva sorridere colle
sue ciarle, si sentiva avvolto come in un fluido misterioso, in
un’atmosfera affascinante che lo spingeva all’adorazione, come un devoto
in mezzo ai profumi d’incenso davanti all’altare della Madonna. Essa
rammendava attentamente la biancheria, egli pigliava in mano le forbici,
tagliuzzava un pezzetto di carta, e contemplava la cugina in silenzio.
Argo ruzzava ai loro piedi, i canarini cantavano un duetto con trilli e
variazioni, e Mumut faceva le fusa sulla finestra aperta, dalla quale
entravano gli effluvi del giardino, e le onde odorose di primavera.
In tali momenti gli pareva possibile di passare degli anni felici in
quelle condizioni, in quell’aria, in mezzo a quelle armonie di luce, di
suoni e di profumi, davanti a quella fanciulla vegeta e forte.
Ciarlava di varie cose ora meste ora allegre, ammirando quei sopracigli
che s’inarcavano dalla sorpresa, che si corrugavano all’idea del dolore,
e la mobilità di quella bocca che atteggiandosi al sorriso scopriva i
denti bianchi, o stringeva le labbra in segno di dispetto, mettendo in
luce quella peluria di pesca matura.
Al racconto d’un fatto toccante un’ansia affannosa le agitava il seno, e
allora Silvio non badava più al taglio del vestito, nè guardava la
calzatura, ma intendeva gli avidi sguardi dove batteva quel cuore.
Il suono d’un campanello rompeva l’incanto, la nonna o lo zio avevano
bisogno di lei, Maria scattava come una susta e spariva, e Silvio
restava con un palmo di naso.

Così passavano i giorni. Intanto papà Gervasio si alzò dal letto, e
l’avvocato Ruggeri scriveva lettere sopra lettere per chiamare al dovere
il suo praticante indiscreto.
Lo stesso suo padre lo spinse a partire, e dovette rassegnarsi.
Abbracciò la nonna e il papà, gli promise ancora di pensare
all’avvenire, strinse affettuosamente la mano di Maria, salutò
freddamente Andrea, che lo vedeva allontanarsi con somma soddisfazione,
diede una mancia a Pasquale e partì.
E strada facendo, sballottato nel carrozzone della ferrovia, andava
pensando a quella vita silenziosa, a quelle buone creature che aveva
lasciate, e che si dileguavano a poco a poco nella nebbia trasparente
d’un passato vicino, e vedeva ancora, come fra le nuvole, in un fondo
verdognolo, un convalescente ed una vecchierella, una fanciulla ed un
cane, l’orso e il scimmiotto i quali lo accompagnavano con l’amore, con
l’odio, coll’indifferenza, e lentamente sparivano da lontano; mentre gli
si presentava davanti gli occhi la vista della laguna increspata dalle
brezze marine, i gabbiani che volavano in giro rasentando l’acqua, il
sole del tramonto che tingeva di porpora e d’oro gli alberi delle navi,
le invetriate delle case, le cupole e i campanili di Venezia.



XII.

Metilde o Maria?... questa interrogazione martellava continuamente il
cervello di Silvio, e gli toglieva la pace. Egli desiderava di
contentare, almeno in parte, suo padre, e di seguirne i consigli. Nei
vari disinganni della vita, ogni qual volta ad una speranza delusa gli
succedeva uno scoraggiamento, quando vedeva una causa giusta perduta,
un’opinione onesta derisa, un’intrigante che scavalcava un uomo di
merito, si sentiva spinto a fuggire in un ritiro tutte le ingiustizie
sociali, a ritornare a casa sua a piantar cavoli in famiglia, e a
prender moglie. Ma guardandosi d’intorno non si trovava troppo
incoraggiato al passo fatale; il matrimonio gli faceva paura.
Passeggiando per Venezia incontrava dei fidanzati inseparabili, sotto
l’occhio vigilante della mamma. Gli pareva che dovessero affrettare le
nozze per liberarsi da quel caro cerbero che spiava i loro dialoghi e
quasi i pensieri. Come si amano! egli pensava, come saranno felici di
poter rifare queste passeggiate, senza quell’intollerante testimonio
materno! Finalmente si celebrava il matrimonio, facevano il loro
viaggetto di nozze, ma quando ritornavano a Venezia, il marito andava da
una parte, e la moglie dall’altra, e nessuno li vedeva più insieme!
E poi dove trovare una moglie che corrisponda a tutti gl’ideali del
marito, che appaghi tutti i suoi desideri, che contenti tutti i bisogni
della vita? Che sia amabile e brava in casa, che sia gentile ed onesta
con tutti? E se non ha questi pregi, quali saranno le conseguenze di ciò
che le manca?
«Ne conosco tante delle ragazze, pensava Silvio, e quasi tutte belle, ma
vedendole più volte, e studiandole con attenzione e perspicacia, vi si
scopre sovente qualche difetto, invano dissimulato da false apparenze.
Donnine appariscenti, ma senza profumo, come i fiori falsi del loro
cappellino, cervellini vani e leggieri come le penne di struzzo, anime
misteriose e furbette da far paura ai più intrepidi. Non ne ho trovate
che due sole che mi attraggano con eguale prestigio, ma anche queste non
sono perfette; a quale delle due devo dare la preferenza?—a Metilde o a
Maria?...

«Metilde mi rappresenta la grazia e la coltura, è la più bella bionda di
Venezia, e la ragazza più intelligente e più colta che possa soddisfare
il giusto orgoglio d’un marito. Essa mi inebbria come un vino spumante,
i suoi occhi, la sua voce sono affascinanti, quando mi parla o si mette
al pianoforte, mi rapisce in estasi, mi fa echeggiare nell’anima le più
soavi melodie, io ho bisogno di tutta la forza della mia volontà per
frenare quell’entusiasmo che mi spingerebbe a stringerla fra le braccia,
e a coprirla di baci, e resto muto e immobile come un imbecille. Ma
questo gioiello della società veneziana non acconsentirebbe mai di
venirsi a nascondere ne’ miei boschi, segregata dal mondo che la ammira,
sacrificando la sua esistenza per un bellimbusto della mia specie,
contentandosi della mia capanna e del mio cuore, nella solitudine del
deserto domestico, come una monachella in un chiostro. Nemmeno per
sogno!...
«Maria è una bella figlia della natura; è un’anima sana in un corpo
solido e scultorio. È donna positiva, senza ideali, ma utile e buona,
come un’amandorla dolce dalla ruvida scorza. Ma santo Dio! che
pettinature! che vestiti! che stivalini!... È un angelo in veste da
camera!... Ma che sciocchezze! un parrucchiere, una sarta e un calzolaio
dei migliori ne farebbero prontamente un’altra donna.... e che
donna!...»
E divagava tutto il giorno con simili pensieri, senza decidersi a nulla,
senza saper sciogliere il più arduo problema della sua vita:—Metilde o
Maria?...
Papà Gervasio ristabilito in salute andò a trovarlo coi soliti doni.
Silvio molto occupato nelle sue corrispondenze ai giornali non potè
accompagnarlo in casa Ruggeri. Il babbo ci andò solo, depose un involto
in anticamera, e si fece annunziare alle padrone nel salotto. La signora
Emilia, tutta a svolazzi, scuotendo i cincinnoli della fronte, e
dimenando i fianchi, con matronale dignità, gli andò incontro per
presentargli le più gentili felicitazioni per la ricuperata salute.
Metilde sorridente seguì la madre, e gli strinse cordialmente la mano.
Finiti i soliti complimenti lo invitarono a sedere.
—Le prego di concedermi un momento, disse Gervasio, sederò dopo, prima
di tutto ho una presentazione da fare.... il migliore dei miei figli!...
—Silvio! esclamò Metilde.
—Ma come? interruppe la signora Emilia, avete un altro figliuolo?...
Papà Gervasio non le rispose, ma con un rapido sgambetto sguisciò in
anticamera, e un momento dopo ricomparve, ripetendo:
—Vi presento il migliore dei miei figli!... era un enorme melone che
teneva orgogliosamente fra le braccia, facendolo girare in modo che lo
si vedesse da ogni parte.
Risero di cuore della presentazione, lodarono ripetutamente la sua
bellezza ed il profumo di quel portento, ed ascoltarono sorridendo una
breve dissertazione sulla coltura dei cucurbitacei.
—È singolare, osservava la signora Emilia, la grandezza di tutti i
vostri prodotti!
—Effetto dell’educazione, cara signora.
—Ma voi trasformate le vostre terre nel paese della cuccagna!
—Vengano dunque a vederci, almeno una volta....
—Verremo di sicuro, saremmo già venuti se l’avvocato avesse un solo
giorno di libertà.
In questo istante entrava nel salotto l’avvocato, gli additarono il
frutto enorme, che egli credette una zucca. Ma questo equivoco che destò
l’ilarità delle signore, fu accolto come un elogio dal donatore, che lo
interpretò come un paragone di grandezza.
Misero il melone sotto il naso dell’avvocato per farglielo conoscere
dall’odore, e gli raccontarono la bizzarra presentazione. Anch’egli ne
fece i più grandi elogi.
Papà Gervasio non teneva più nella pelle dalla consolazione, il suo
orgoglio era soddisfatto molto più di quel giorno che suo figlio fu
fatto dottore. Tutti abbiamo le nostre passioni, egli aveva l’ambizione
dell’orto. Raddoppiò le istanze per una gitarella alla sua villa, e per
invogliarli alla visita enumerava i piaceri della giornata.
—Un giro pel parco, sulle rive del laghetto, e pei boschi, una colazione
all’aperto, sotto la pergola dei gelsomini, una passeggiata al frutteto
ed alla vigna. Quest’autunno sarà matura quell’uva d’oro, moscata, che
piace tanto alla signora Metilde, dei bei pomi, delle pera, dei fichi
d’ogni colore, un po’ di tutto. Vedranno in orto delle altre meraviglie.
Farò assaggiare al signor avvocato i miei vini, alle signore delle
conserve. Non abbiamo da offrire nè spettacoli, nè teatri, ma prometto
una giornata di riposo e di svago, un’accoglienza senza cerimonie, ma
davvero cordiale.
Metilde batteva le mani, e guardava suo padre con occhio supplichevole,
mostrando il più vivo desiderio di passare una così bella giornata in
campagna, in quel luogo di delizie. Lo avevano promesso tante volte, era
giunto il momento di mantenere la parola. La signora Emilia secondava la
figlia, l’avvocato assentì, e fu pattuito che nel prossimo autunno si
manderebbe ad effetto quella visita.
Papà Gervasio gongolante dalla gioia corse ad annunziare la buona
notizia a suo figlio, che ne fu lieto, e s’incaricò di ribattere il
chiodo perchè il progetto non andasse sventato, e d’informare a tempo la
famiglia del giorno preciso dell’arrivo, per le disposizioni opportune.
E anche questa volta papà Gervasio ripetè con insistenza il desiderio di
vedere il figlio ammogliato, eccitandolo alla buona scelta d’una sposa,
mostrando la più viva impazienza di vederlo stabilito prima di morire, e
confortandolo con buoni consigli.
—La felicità della famiglia dipende in gran parte dalla donna, egli
diceva; essa attira o allontana il marito dalla casa, secondo le sue
buone o cattive qualità; essa procura il benessere o getta il disordine
in famiglia, bisogna pensarci seriamente. I figli allevati con molta
severità al tempo del governo austriaco, hanno saputo combattere e
morire per la libertà; i figli che crescessero nell’abbandono ci
condurrebbero all’anarchia. Non seccarti delle mie prediche, lasciami
dire tutto quello che penso, tutto quello che ha diritto di pensare un
padre che ha pagato la libertà con infiniti sacrifizi. I futuri
cittadini saranno ottimi o pessimi secondo le loro madri, perchè le
azioni umane dipendono in gran parte dall’indirizzo dei primi anni. La
palla che corre, se non trova ostacoli che la deviano, arriva sempre
dove la spinse la mano che le diede il primo impulso.
Silvio gli promise di contentarlo, si mostrò disposto a risolversi a
questo passo scabroso, facendo una buona scelta, e pensava fra sè: «La
gita dei Ruggeri in campagna sarà una bella occasione per decidermi;
Metilde e Maria trovandosi insieme, potrò osservarle con attenzione, e
finalmente sarò in caso di giudicarle senza pericolo di ritrattarmi il
giorno seguente. Fino che sono divise e lontane, preferisco sempre
quella che mi sta più vicina, ne subisco l’influenza magnetica, e
l’assente ha sempre torto.»
Due mesi dopo l’ultima visita di papà Gervasio, venne stabilito dai
Ruggeri il giorno preciso per fare la scampagnata. Silvio ne diede
avviso alla sua famiglia, la quale prese le opportune disposizioni per
accoglierli degnamente.
Era d’autunno, la bella stagione delle vendemmie e delle frutta mature,
della temperatura mite, e dell’abbondanza. Non si poteva scegliere
un’epoca migliore.

Quando la carrozza entrò nel parco dal cancello spalancato, papà
Gervasio attendeva al vestibolo, Pasquale era pronto per aprire lo
sportello, la nonna e Maria corsero a ricevere gli ospiti.
Furono condotti nelle stanze del primo piano, per spolverarsi, e
riparare ai piccoli disordini del viaggio. Passarono per brevi istanti
al salotto, fino che vennero introdotti sotto la pergola dei gelsomini e
dei caprifogli, ove era stata apparecchiata la colazione quasi tutta coi
prodotti della villa. La tavola coperta da una bella tovaglia era adorna
di fiori e di frutta, fra le quali spiccavano dei pomi color porpora, e
dell’uva d’oro. E stavano intorno dei piatti piccoli e grandi col burro
fresco, il miele dell’arnie, le uova del mattino, il prosciutto e il
formaggio di casa. I ravanelli rossi e verdi uniti al sedano bianco
mostravano i colori nazionali, che non mancavano mai in casa Bonifazio.
Servirono una frittura di pollo che fece onore alla nonna, una torta di
frutta che ottenne molti elogi, guadagnati da Maria, e il vino della
cantina fu portato alle stelle, con somma soddisfazione di Gervasio.
Pasquale in cravatta bianca, rasato a fondo, col muso in aria, la
schiena curva, le gambe un poco storte, serviva in tavola, come le
scimmie dei saltimbanchi alla fiera.

L’aria mattinale ed il viaggio avevano messo gli ospiti in appetito,
l’aspetto attraente dei piatti lo spronava. Mangiarono allegramente,
prodigando gli elogi su tutte quelle ghiottonerie le più golose.
Peccato che le signore Emilia e Metilde guastassero il vino, mescendovi
dell’acqua, e che l’avvocato bevesse pochissimo. Papà Gervasio non
poteva consolarsi che non lo lasciassero riempiere i bicchieri a suo
talento, e gli pareva che non sapessero apprezzare degnamente gli aromi
deliziosi delle sue vecchie bottiglie.
Le due ragazze, sedute vicine, presentavano il più bel quadro che
potesse desiderare un artista. Maria aveva una rosa fresca nei capelli
morbidi e abbondanti, la semplice natura era bastata ad abbellire la sua
testa giovanile, che rappresentava la salute e la freschezza dei campi,
ravvivata dalla gaiezza degli occhi ridenti.
Portava al collo un fazzoletto di seta di vari colori vivaci, messo alla
rinfusa per difendersi dalle brezze autunnali. Ma questa semplice
precauzione era bastata a mascherare i difetti del vestito, che solevano
dispiacere al cugino.
I capelli d’oro di Metilde un po’ sviati dal viaggio e dall’aria,
svolazzavano capricciosamente sulla fronte e sul viso candido della
ragazza, con pittoresco disordine. La straordinaria levata mattiniera le
aveva lasciati gli occhi un po’ languidi, ciò che abbelliva la delicata
espressione de’ suoi lineamenti. Due grossi solitari di brillanti
splendevano alle sue piccole orecchie come due stelle, e la somma
semplicità del vestito accollato, che le disegnava il busto
graziosamente digradante con curve eleganti fino ad una vita sottile di
vespa, era rialzata da un’ampia cravatta bianca leggierissima di velo e
pizzi, artisticamente annodata. Un mazzolino d’asclepie carnose
introdotto in un occhiello dei bottoni, pallido come il suo volto,
esalava un profumo penetrante.
Metilde e Maria si sorridevano come due amiche, ma poi voltata la testa,
si rivolgevano certe occhiate clandestine colla coda dell’occhio, che
tradivano una reciproca diffidenza, ed una ripulsione istintiva.
Silvio le divorava cogli occhi, contemplava attentamente le più minute
agitazioni, i movimenti quasi impercettibili dei loro volti, la luce
degli occhi, gli atteggiamenti di quelle rosee labbra che si studiavano
di dissimulare il pensiero. Erano belle entrambe, d’una diversa
bellezza, e dopo una lunga lotta di pensieri, e un grave imbarazzo nella
scelta, egli volava col pensiero ai paesi della poligamia, che gli
parevano più fortunati dei nostri, ove egli avrebbe sciolto agevolmente
il quesito: Metilde o Maria? con queste sole parole: tutte due!...
E stava appunto mulinando in segreto tali pensieri colpevoli, quando,
finita la colazione, tutti mostrarono il desiderio di muoversi, di
passeggiare pel parco, di visitare la villa.
Uscirono dalla pergola, la nonna chiese il permesso di ritornare in casa
per accudire alle faccende domestiche, papà Gervasio si mise in testa
della comitiva per servire di guida, e cominciò subito le sue
spiegazioni. Egli si mostrava entusiasta dei colori dell’autunno, e
indicava le varie tinte delle foglie nelle grandi masse degli alberi di
varie specie, e nelle macchie degli arbusti:
—Quale tavolozza!... egli esclamava, il nostro Tiziano, il grande
colorista, non aveva tanti colori, nè un simile impasto! guardino quel
rosso vivo delle foglie di cotogno della China, osservino il giallo
d’ocra di quel platano, e il lionato oscuro del suo vicino.
Quell’ipocastano ha una tinta tané come il guscio delle castagne, quella
robinia è tutta d’oro! E quel verde cupo degli abeti come si stacca dal
verde tenero degli _strobus_! Favoriscano un’occhiata a quella idrangea
a foglie di quercia; mi dicano se quelli non sono i colori metallici dei
bronzi antichi, e delle armature di ferro irrugginite?! Vogliono vedere
uniti la porpora e l’oro?... contemplino quella ampelidea vergine che è
salita sul _liriodendron tulipifera_!...
Mentre il vecchio coltivatore si animava nella descrizione delle tinte
autunnali, ed era assorto nella declamazione di quelle bellezze
pittoresche, l’avvocato guardava intorno sbadatamente, non vedeva nulla,
e si andava concentrando coi suoi soliti pensieri del contenzioso
giuridico. La signora Emilia osservava in aria canzonatoria le pieghe
assurde del vestito di Maria, e ne dava d’occhio a Metilde, mentre essa
accennava alla madre la calzatura della ragazza. Silvio soffriva del
fiato perduto di suo padre, che si spolmonava invano spiegando davanti
ad occhi profani il gran libro della natura.
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