Il dolce far niente: Scene della vita veneziana del secolo passato - 09

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suo censore ai conoscenti, dicendo: — «Ecco la mia lavandaja»[31].
Ippolito raccontava motteggiando come lo scrittore che tanto in prosa
che in verso declamò contro la tirannide, avesse poi fraintesa la
rivoluzione che si proponeva di abbatterla proclamando i diritti
dell'uomo. Quel movimento che doveva rovesciare tanti troni e
sconvolgere l'Europa, Alfieri lo chiamava «una tragica farsa»[32]
e si andava lamentando che «gli operai della tipografia del Didot
consumavano le intere giornate a leggere gazzette e a far leggi, invece
di occuparsi a comporre, correggere e tirare le dovute stampe delle sue
tragedie»[33]. Irritato abbandonava gli studi e correva in Inghilterra
a comperare cavalli, e ne comperava quattordici, perchè avendo
scritto quattordici tragedie, calcolava d'aver guadagnato un cavallo
per ciascheduna[34]. Ben inteso guadagnato moralmente, che del resto
pagava colle rendite delle sue terre i cavalli e le stampe, perchè col
ricavato dei suoi lavori letterari non avrebbe potuto pagare un asino,
vogliasi pure vecchio, ombroso e restio. — L'Isabella lo diceva «una
divinità corrucciata, nel cui cuore ogni passione diventa tempesta,
divenuto atrabiliare e furioso a colpa del secolo, come uomo condannato
a vivere fra le serpi e le tigri»[35].
Quando il discorso cadeva sugli illustri italiani che vivevano a
Parigi, il Denon si metteva a parlare di Goldoni che aveva conosciuto
alla corte di Versaglia. Un altro originale!... che avea paura del
calore all'inverno e del freddo all'estate[36], e che mettendosi a
letto componeva un dizionario del dialetto veneziano «per dormir
facilmente.» Del resto le principesse amavano la bonarietà del
loro maestro d'italiano, e dopo d'averlo retribuito largamente,
gl'insegnavano anche il francese per giunta.
Goldoni le faceva leggere i classici italiani, prosatori o poeti, egli
balbettava una cattiva traduzione, le principesse la correggevano
con grazia ed eleganza, e il maestro imparava più che non poteva
insegnare[37]. Quando dava la sua lezione a madama Elisabetta, sorella
del re, Goldoni le faceva leggere le sue commedie. La principessa, una
dama d'onore e una dama di compagnia, recitavano la parte delle donne,
Goldoni la parte degli uomini e ridevano di cuore[38].
In quell'epoca il Delfino essendo costantemente indisposto, questa
disgrazia unita ai meriti dell'autore delle trentadue disgrazie
d'Arlecchino, gli valse il favore d'essere alloggiato nella reale
dimora di Versaglia nella stanza dell'ostetrico, i cui servizi
diventavano inutili.
Colà Goldoni compose una cantata italiana che posta in musica venne
eseguila dalle sue reali scolare. La delfina suonava il clavicembalo,
madama Adelaide accompagnava col violino, madamigella Hardy cantava;
Goldoni ricevette i complimenti di tutta la corte, e quella sera il
Delfino cantò davanti al poeta italiano _Il pellegrino al Sepolcro_.
Qualche tempo dopo quella lieta serata il delfino moriva a
Fontainebleau, la delfina non tardava a seguirlo nella tomba, il
resto della famiglia reale finì sul patibolo o vagò ramingando per
l'Europa!... — Il povero poeta italiano morì negletto e lontano
dall'Italia nella quale non aveva trovato da vivere, malgrado le cento
cinquanta commedie colle quali si era studiato di dipingere i costumi
della patria, e di rallegrare un pubblico ingrato.
Le avventure di Goldoni mettevano il discorso sul suo competitore Carlo
Gozzi, dal quale si passava naturalmente al fratello. Allora la voce
magistrale del procuratore di San Marco Andrea Tron, prendeva la parola
dicendo: — Gaspare Gozzi e Carlo Goldoni ebbero qualche cosa di comune
in vecchiaja; entrambi furono consolati da donne francesi, Goldoni
da principesse, Gozzi da una modista, la quale però più felice delle
principesse non fu mai minacciata dal patibolo, nè amareggiata dalla
perdita violenta dei suoi cari.
Sara Cenet prodigò le sue cure al vecchio Gaspare fino all'ora estrema,
e lo pianse defunto, ma le povere principesse separate dal loro
precettore, dalla morte o dall'esiglio, dovettero abbandonarlo in balìa
del destino, ed egli forse udì tremando fra lo squallore di Parigi le
grida dei forsennati che trascinavano al patibolo i suoi protettori.
Andrea Tron rammentava le ultime lettere indirizzate da Gaspare Gozzi
alla nobildonna Caterina sua moglie[39].
L'illustre letterato si piaceva molto a Noventa, ove alla bottega del
ponte scontrava gli eleganti di Venezia, ma in mezzo al fracasso di
tante grandezze ci voleva più d'un'ora per ottenere un'acqua di limone,
pregando in ginocchioni[40].
L'Eccellentissimo procuratore Morosini, lo vedeva con molta cordialità,
ed egli attirato dal vocione dell'eccellentissimo Valaresso andava a
complimentarlo.
La marchesina arrivava colla sua carrozza, guidando ella stessa sei
cavalli «come l'aurora»[41]. Al dopo pranzo c'era il giuoco di pallone,
alla sera conversazione in casa Vendramini»[42].
Egli si compassionava di continuo, si confessava: «Un barbero zoppo che
tira coll'alzaia i burchielli[43], una delle più celebri carogne della
terra»[44].
«Un povero vecchio magagnato»[45]. Però la quiete e l'aria balsamica
dei campi gli ristabiliva la salute, e faceva le sue cavalcate «sopra
d'una rozza di quelle che tirano le barche»[46], un «suo coetaneo» come
egli diceva, «un contemporaneo al cavallo di Troia»[47].
Ridotto «coi nervi di _lasagne_ cotte»[48], «avendo tutte le coscie
come quelle di Giobbe»[49] immagrito «come le mummie del deserto,
movendosi a stento, tirando appena il fiato»[50] viveva ancora fra i
libri, la sua mente serena conservava tutto il vigore della gioventù, e
lo spirito vivace, arguto e faceto lo accompagnò fino all'ultima ora.
Ma un originale più bizzarro, era Carlo suo fratello, l'avversario
di Goldoni. Egli sosteneva che la _Putta Onorata_ del suo rivale,
non era nè onorata nè onorevole[51], e incominciò a burlarsi delle
_Spose Persiane_, delle «bestiali _Ircane_, dei sozzi _Eunuchi_,
delle _Curcume_ nefande» e pubblicò un libretto burlesco sulle
novità teatrali del giorno. Goldoni, in una composizione stampata in
omaggio del patrizio Veniero che ritornava da Bergamo ove era stato
Rettore, trattava la satira di Gozzi da «rancidume, da ululato da
cane, da spaventacchio inetto e insoffribile.» Così incominciò quella
guerra accanita sostenuta da Gozzi alla testa dei Granelleschi,
contro Goldoni e il suo teatro. La bottega del librajo Paolo
Colombani, ove si pubblicavano gli atti della famosa Accademia, era
il centro delle operazioni bellicose, e colà si radunavano i nemici
di Goldoni accusandolo di portare sulla scena le trivialità e le
bassezze popolari, e chiamandolo «logoratore di penne, e diluvio
d'inchiostro»[52]. I Goldoniani alla lor volta dichiaravano i
Granelleschi «maldicenti, ed ingiusti.»
Goldoni indicava il concorso popolare come una prova del suo merito;
Gozzi per confutarlo promise di farsi applaudire con una commedia
tratta da una fiaba che le nonne raccontavano ai loro nipotini. Scrisse
e fece rappresentare: — _L'amore alle tre melarancie_, e la gente
accorse in folla ed applaudì. Incoraggiato dal successo, Gozzi si diede
tutto al Teatro, diventò il compare del vecchio arlecchino Sacchi, e
l'amico di tutti gli attori, l'innamorato della prima donna Teodora
Ricci. Vissuto lunghi anni fra le quinte del teatro, tutto ad un tratto
gli vennero a noja le scene, e chiusa la porta in faccia ai comici,
non volle più sentirne a parlare. Ma chi non lo conosce a Venezia?
soggiungeva Andrea Tron. Grande della persona, se ne lamenta «pel molto
panno che occorre ne' suoi tabarri»[53]. Colle ciglia aggrottate,
il passo lento, cerca taciturno i passeggi solitari[54]. Litigatore
instancabile al foro, e amante dei piaceri a buon mercato, passa la
mattina in mezzo dei legali, degli avvocati, dei notaj, e poi va a
merenda alla Giudecca, a Campalto, alla Malcontenta, a Murano, e nelle
altre Isolette, con qualche amico suo pari, spendendo trenta soldoni
per testa. — Sarebbe felice, se una strana idea non gli tormentesse
il cervello. Egli ha fissato che un fatale influsso di contrattempi
preseguiti la sua esistenza. Questa stravaganza è sovente avvalorata
dai fatti. Talvolta mentre egli cammina solitario per Venezia lo
prendono in iscambio per un altro, e lo tormentano «con doglianze,
ringraziamenti, richieste, prestiti, querimonie»[55], egli giura,
protesta che non è il tale e non gli credono. Una sera egli passeggiava
in Piazza San Marco al chiarore della luna col patrizio Francesco
Gritti, si sente dare un pugno nella schiena, e trattare da asino: lo
avevano preso in isbaglio[56].
Un'altra volta lo baciano ed abbracciano con trasporto, ed egli non
può svincolarsi da quelle noiose dimostrazioni dovute ad un altro. Se
esce di casa senza ombrello, una pioggia dirotta lo coglie, si ferma
lunghe ore sotto un portico. Vedendo che il diluvio non cessa, spinto
dall'impazienza, si sottomette al destino, e corre a casa grondante
d'acqua; appena aperto l'uscio e posto in salvo, cessa tosto la
pioggia, si diradano le nubi, e il sole che risplende nel cielo, sembra
sorridere al suo lungo fastidio[57].
Se vuole studiare, persone noiose lo interrompono; quando incomincia
a radersi la barba, lo chiamano in fretta per urgenti negozii, ed è
costretto ad uscir di casa con la barba rasa per metà[58]. Sovente
sorpreso per istrada da una furiosa necessità va cercando qualche
solitaria viottola per sgravarsi del molesto bisogno, ma appena
avvicinato all'angolo tanto desiderato, si apre un uscio ed escono
due signore, passa in fretta in un altro cantuccio, s'apre un'altra
porta, escono altre signore, egli corre invano qua e là e trova sempre
contrattempi ed intoppi[59]. Ma queste piccole disgrazie non sono che
fastidiosi moscherini, egli dice; il cattivo influsso lo tormenta
in cose maggiori. Una volta fra le altre, mentre egli trovavasi in
villa nel novembre inoltrato, il patrizio Gasparo Bragadino volendo
festeggiare suo fratello creato Patriarca di Venezia, e trovandosi
ristretto di fabbricato, ebbe l'idea di gettare un ponticello dalla
sua casa in quella del Gozzi che gli dimorava dirimpetto, e diede
una splendida festa da ballo in casa del letterato assente, il quale
giungendo dalla campagna stanco e mezzo morto dal freddo e dal sonno,
trovò questa bella sorpresa, e dopo di aver ascoltate le riverenti
scuse del vicino indiscreto, è costretto di andarsi a coricare alla
locanda, e di passarvi tre giorni![60]
I Veneziani ridevano de' suoi giusti lamenti, e trovandolo per via,
collo sguardo bieco e sospettoso, se lo mostravano a dito, e questo era
l'ultimo contrattempo che affliggeva quell'uomo dabbene.
Ai viaggi del Pindemonte, alle relazioni del Denon, ai racconti del
procuratore Tron succedevano nelle conversazioni d'Isabella vivacissimi
discorsi del Dottore Francesco Aglietti, acutissimo ingegno, medico,
giornalista, bibliofilo, operosissimo, che esercitando la medicina con
una numerosa clientela, trovava ancora il tempo di pubblicare due fogli
periodici — _Il giornale per servire alla storia della medicina_, e le
_Memorie per servire alla storia letteraria e civile._ — L'Isabella
diceva «che la maschia giovialità del suo spirito, le sue universali
cognizioni, la sua facondia, fan sì che il suo conversare venga sempre
condito da preziosa amenità, egli favellava dottamente di mille e mille
cose diverse, e portava indosso tanti libri, quante aveva saccoccie
nei vestiti: — e la sua bella, vegeta e robusta sanità, era quasi
insegna d'uomo che di ricca merce abbondando, ad altri magnanimo la
dispensa»[61].
Accanto dell'erudito parlatore, sedeva sovente un «genio timido» come
lo giudicava Isabella, «un preticciuolo in abito schietto e disadorno,
freddo, taciturno, imbarazzato di sè e degli altri.»
Ma eccitato a parlare «saltava fuori con uno spirito vivo, focoso,
rapidissimo, il _dolce far niente_ gli stava sempre sulle labbra, pure
l'immaginazione sua, e la sua penna non avevano posa. Il suo idolo
era il bello morale; capo e centro de' suoi affetti l'amore. Applausi,
titoli, onori letterari erano per lui noje, imbarazzi e torture; amare
ed essere amato, ecco l'unica ambizione di quel cuore soavissimo»[62].
Avendo pubblicata una traduzione d'Omero, qualche tempo dopo giunse da
Roma un figurino che rappresentava la testa dell'antico poeta greco,
sopra un corpo vestito alla foggia francese, con sotto l'iscrizione
_Omero Tradotto_[63].
I nostri lettori hanno riconosciuto l'abate professore Melchiorre
Cesarotti, il quale un giorno presentò alla cortese Isabella un suo
scolare, autore d'una tragedia inedita, ma giovane di grandi speranze.
Essa disse di lui che pareva «un rozzo selvaggio fra i filosofi
d'allora, di fervido e rapido ingegno, nudrito di sublimi e forti
idee, adoratore delle cose patrie, disprezzatore delle straniere oltre
il giusto»[64]. Il suo nome ancora sconosciuto era Ugo Foscolo, e
così egli dipingeva sè stesso: «Di volto non bello ma stravagante e
d'un'aria libera; di crini non biondi ma rossi; di naso aquilino, ma
non piccolo e non grande; d'occhi mediocri, ma vivi; di fronte ampia,
di ciglia bionde e grosse, e di mento ritondo. La mia statura non è
alta, ma mi si dice che deggio crescere; tutte le mie membra sono
ben formate dalla natura, e tutte hanno del rotondo e del grosso.
Il portamento non scopre nobiltà, nè letteratura, ma è agitato
trascuratamente[65].»
All'età di sedici anni Foscolo parlava già «dei suoi giorni
perseguitaii ed afflitti[66];» a diciott'anni scriveva ad un amico:
«le sventure mi oppressero, le immagini di piacere si dileguarono,
e vanno languendo persin le speranze;» era nato per la solitudine,
pativa il male di melanconia[67], leggeva l'_Ossian_, la _Nina pazza
per amore_, e piangeva, si dichiarava «infelice, abbandonato, compagno
delle sciagure, e menava gli egri giorni fra la solitudine e il
pianto[68]. Il giovane Ugo amava teneramente il Cesarotti, e andava
a trovarlo per rompere le sue «cupe meditazioni»[69], e parlando di
questo suo maestro scriveva: «la luce di quest'angelo è tutelare e
vivificante, la presenza di questo uomo è consolatrice e soave»[70].
Piacque alla saggia Isabella lo strano giovinetto, e conosciuta la sua
indole, gli diede un consiglio opportuno, ch'egli ebbe a rammentare
più tardi — «volere fortemente e chiedere dolcemente»[71]. — Le donne
sublimi, hanno dei detti memorabili per le persone alle quali prendono
interesse. Felici coloro che incontrandole nel cammino della vita,
sanno meritare la loro amicizia.
Frequentava le conversazioni di casa Marini il grave e dotto abate
Morelli, eletto dai Veneti Senatori a custode della Ducale Biblioteca
di San Marco; il quale «senza essere mai uscito di Venezia, conosceva
le grandi biblioteche di tutto il mondo, i più preziosi musei
dell'antichità, i più doviziosi gabinetti di medaglie, le più insigni
gallerie di pittura, e ne parlava con profonda dottrina»[72]. Era fra i
più assidui Aurelio De Giorgi Bertola, poeta di tempra molle, amabile,
ma volubile in amore: «si direbbe, scriveva l'Isabella, che la natura
volle fare di lui un uomo perfetto, ma si pentì a mezzo lavoro»[73].
Fracesco Franceshinis seduto in un cantuccio ascoltava tutti, ed
evitava di prender parte al discorso; d'ingegno finissimo, di coltura
somma, capace di molte cose, non fece mai nulla, aspirando sempre ad
una perfezione impossibile[74].
Lauro Quirini, gentiluomo di maniere aperte e cordiali, prendeva
parte alle discussioni più animate, per consigliare l'indulgenza.
Di carattere gioviale «trovava sempre qualche bene nel male, e
niun male nel bene.» Amava tutti i piaceri facili con moderazione
discreta e sempre eguale; metteva le donne, il teatro, la tavola sullo
stesso rango, nè sospettava punto di far cosa inconveniente[75]. Il
cavaliere Zulian, uno dei primi sostenitori di Canova, parlava con
ammirazione del suo protetto, e l'Isabella, esaltando i meriti e le
virtù dell'esimio scultore lo proclamava «sommo artista, eccellente
cittadino, eccellente figlio, eccellente fratello, eccellentissimo
amico» e riteneva che non avrebbe potuto esprimere nelle sue statue
così mirabilmente tante morali virtù, se non le avesse avute tutte
nell'animo[76].
Le dame che frequentavano la conversazione erano fra le più distinte
di Venezia, amabili, vezzose, vivacissime. Che se la coltura e il brio
d'Isabella attirava di preferenza in sua casa i più illustri letterati,
molte altre gentildonne presiedevano pure a geniali ritrovi nei loro
splendidi palazzi, e spiegavano tutte le grazie del loro sesso, e
lo spirito particolare delle veneziane, ammirate non solo dai propri
concittadini, ma bensì dai più cospicui forestieri, dai principi e dai
sovrani che visitavano la gemma dell'Adriatico.
La procuratessa Tron, quando l'imperatore Giuseppe II visitò Venezia
cogli arciduchi suoi fratelli, Massimiliano, Ferdinando e il Granduca
di Toscana, invitò questi principi ad un ballo improvvisato in
ventiquattr'ore, al quale intervennero circa duecento gentildonne.
Il fascino della bellezza gareggiava in alcune col prestigio dello
spirito a tal punto che l'Imperatore rimase cinque ore in piedi
davanti a Contarina Barbarigo, assorto in una gara di galanti e geniali
discorsi.
Cornelia Barbaro-Gritti, poetessa, e madre di brioso poeta, riceveva
in casa i più illustri ingegni del suo tempo, fra i quali vantava amici
Algarotti, Frugoni, Metastasio e Goldoni. E pure di uomini preclari si
circondava la bella e briosa gentildonna Giustina Michiel-Renier, di
onoranda memoria pel caldo amore portato alla cara sua patria da lei
nobilmente illustrata col racconto delle sue feste, dei suoi costumi
e delle sue glorie. Nè si può lasciare in obblìo la vezzosa contessa
Benzoni, il modello che servì ad Antonio Lamberti per dipingere la
_Biondina in gondoletta_, nella famosa canzone. Dotata del più fino
e piccante spirito veneziano, meritò l'amicizia e gli omaggi di Lord
Byron, al quale faceva udire sovente aspre verità col gentile dialetto,
che in sua bocca acquistava una grazia incantevole.
Tanta luce di spirito e d'urbanità spandeva i suoi raggi nelle vicine
provincie che vantarono donne colte e cortesi, fra le quali resteranno
nelle memorie contemporanee, i nomi della contessa Elisabetta
Spineda di Treviso, e di Francesca Capodilista di Padova, e Verona
ricorderà sempre con giusto orgoglio le riunioni di Silvia Verza, e
dell'imcomparabile Anna Serego Alighieri. Le conversazioni di quei
tempi agevolavano i sociali rapporti, erano decoro alla città, esempio
ai giovani di modi garbati, di colti ed onorevoli costumi.


XXX.

L'irresistibile attrattiva di tanti nomi illustri, e di tanti bizzarri
caratteri, ci trattenne forse soverchiamente nella conversazione della
gentildonna Marin, ove Valdrigo ebbe campo di conoscere gli uomini più
celebri del suo tempo; ma ciò ch'egli ricercava di preferenza in quelle
scelte e numerose riunioni, erano gli occhi di Silvia, le stelle del
suo firmamento, le luci che illuminavano la sua vita.
Ai suoi sguardi concentrati in un punto solo sfuggivano le curiosità
della sala. Egli non osservava la puntualità minuziosa di Pindemonte,
nè la flemma di Cesarotti, nè la parrucca d'Hancarville che eccitava
l'ilarità degli astanti; nè poteva apprezzare le grazie d'Isabella, nè
i tratti di spirito che volavano per l'aria come fuochi d'artificio.
L'innamorato non vede al mondo che una donna.
Silvia, accortasi più volte dell'assiduità di Valdrigo, incominciava
a temere che l'imprudenza del giovane potesse comprometterla agli
occhi del mondo, e aspettava un'occasione favorevole per consigliarlo
a vegliare sopra sè stesso e a non dimenticarsi ch'ella era la moglie
del conte Leoni. Ma o l'occasione le mancava, o giunto il momento
propizio le veniva meno il coraggio e si taceva. D'altra parte
Valdrigo aspirava ardentemente a un lungo abboccamento, e sentiva un
bisogno irresistibile di dare sfogo ai sentimenti repressi del suo
animo, ma quando per qualche istante giungeva a sedersele vicino gli
mancavano le parole e rimaneva muto. Però le cose erano giunte a un tal
punto, che una spiegazione era diventata necessaria. Ad un torrente
ingrossato bisogna opporre in tempo degli argini affinchè non abbia
a traboccare con danno irreparabile, rompendo i troppo tardi ripari.
È vero che gli occhi avevano parlato e le anime compreso, ma quel
linguaggio misterioso è talora uno slancio irrefrenato, una promessa
vaga e indeterminata, un'imprudenza lontana dal pericolo che poi la
ragione condanna ed il labbro sconfessa. Bisognava dunque spiegarsi,
ma era evidente che le spiegazioni non sarebbero nè brevi nè calme.
Silvia amava Vittore, ma non voleva convenirne, conosceva di essersi
tradita e voleva protestare, negando colle parole l'espressione degli
occhi; Vittore aveva espresso il suo affetto coll'intensità degli
sguardi, e voleva ad ogni costo confermare colla voce i sentimenti del
cuore. Dunque entrambi erano decisi di metter fine all'ansietà che li
opprimeva, e mentre Vittore meditava il modo di chiedere un colloquio,
Silvia lo aspettava, ben decisa di accordarlo. — Ci sarà una lotta,
diceva Silvia fra sè, ma avrò il coraggio e la forza di combattere e
vincere. — Ci sarà una lotta, pensava Valdrigo, ma essa mi ama e il
trionfo è sicuro!
La difficoltà stava nel trovare il tempo necessario e il luogo
opportuno, perchè il palazzo Leoni era costantemente frequentato dalle
visite e il conte andava e veniva per la casa a tutte le ore coi suoi
amici di Venezia, e con gli ospiti illustri che gli arrivavano di
continuo dalle più cospicue città dell'Europa.
Il carnevale venne a proposito a facilitare il desiderato abboccamento.
Il carnevale di Venezia!... cioè il turbinio confuso delle passioni e
dei piaceri della vita, che col mistero della maschera agevola ogni
incontro, protegge ogni abuso, copre ogni disordine, che sotto un
volto impassibile di tela cerata asconde i rossori della modestia e
rende gli occhi più vivaci e la parola più ardita, che colla certezza
dell'incognito rispettato, autorizza le espressioni più audaci, infonde
ai timidi il coraggio, ai pusilli lo spirito, e involge di arcano
prestigio le confidenze susurrate all'orecchio! Il carnevale di Venezia
erigeva in diritto la licenza dei costumi, col delirio della pazzia
autorizzava tutte le ebbrezze, scioglieva ogni legame di famiglia,
esponeva i sensi a tutte le provocazioni del linguaggio, e spingeva
l'innocenza e la virtù sul margine di tutti gli abissi. Il carnevale
di Venezia gettava il popolo fra i tripudii, e trascinava la gioventù
ai baccanali, mentre le armate tedesche e francesi si contendevano il
suolo d'Italia, e decidevano dei nostri destini.
Valdrigo ottenne finalmente da Silvia un appuntamento ad una festa da
ballo mascherata nelle sale del Ridotto. Gli accordi erano i seguenti:
Vittore sarebbe in tabarro e bauta con un nastro azzurro scendente
dalla spalla sinistra. Silvia e la sua cameriera sarebbero mascherate
in veste e zendado, con una rosa sul crine, a diritta. Il conte Leoni
le accompagnerebbe da lontano, senza maschera, ma certo si sarebbe
seduto a qualche tavoliere di giuoco, e allora uniti insieme, uscendo
dal ridotto, sarebbero andati a passare un'ora nel casino che il conte
teneva presso a San Gallo; Silvia ne avrebbe chiesta la chiave per
avere un rifugio ove riposarsi in caso di bisogno.
Era costumanza di quei tempi che molte famiglie ricche oltre al palazzo
tenevano anche un piccolo ma elegante casino in vicinanza della piazza,
e colà andavano a riposarsi dal passeggio o invitavano a cena gli amici
dopo il teatro, senza cerimonie e in piena libertà. Naturalmente alcuni
mariti se ne servivano per dei ritrovi misteriosi, senza l'impiccio
della moglie, e alcune mogli facevano altrettanto senza l'incomodo dei
mariti. In apparenza quei casini erano una stazione centrale per gli
affari o i comodi della vita, e in realtà una succursale della casa per
ogni uso segreto, per ogni stravizzo.
Il conte Leoni possedeva uno di quei fantastici ricoveri nel quale egli
aveva prodigato tutto il lusso delle arti. Pendevano appesi alle pareti
dei preziosi dipinti di Canaletto, dei quadretti di soggetti veneziani
del Longhi, ed alcuni bei pastelli di Rosalba Carriera. Gli stucchi
del Vittoria si raggiravano capricciosamente intorno a dei graziosi
medaglioni entro ai quali erano dipinte delle scene amorose di ninfe
ritrose e di pastori procaci. Le pareti ed il soffitto d'un gabinetto
erano ricoperti da splendidissimi specchi, ed un caminetto di marmo
bianco collocato dirimpetto a un molle divano sosteneva dei candelabri
di bronzo dorato. Il salotto per pranzare era mobigliato con delle
poltroncine antiche d'intaglio, coperte di damasco, e degli scaffali
d'egual lavoro, contenenti delle stoviglie di Faenza e dei vetri di
Murano, e dal soffitto pendeva una magnifica lumiera di cristallo. Dei
morbidi tappeti coprivano i pavimenti, e pesanti e doppii cortinaggi
scendevano sulle finestre.
Valdrigo aspettava la sera dell'appuntamento come il giorno più solenne
della sua vita, nè poteva pensarci senza che un brivido gli percorresse
il corpo dalla estremità dei capelli alla punta dei piedi.
Una mattina, chiamata Maddalena in disparte, la pregò di volergli
trovare a nolo un vestito nuovo da maschera, tabarro e bauta, e di
fargli l'acquisto d'un bel nastro azzurro di seta da collocarsi sulla
spalla sinistra, e tutto questo per il prossimo ballo al Ridotto.
Maddalena non poteva rifiutarsi a servirlo, e quantunque la commissione
le pungesse, dissimulò le interne agitazioni, e finse di prestarsi
di buon animo, ma il nastro azzurro le trottava per la testa, perchè
comprendeva in aria che esso significava un segnale. E andava fra
sè fantasticando quali intrighi potessero preoccupare il pittore già
tanto distratto dalla gloria, dai zecchini ricavati dal quadro, e dalla
vita mondana nella quale s'era slanciato col solito entusiasmo. Nuovi
amorazzi!... essa pensava, sarà già stanco della gentildonna Leoni,
e ingolfato in qualche nuova avventura perde il tempo nell'ozio, e
impiega il suo talento nelle imprese galanti!... e sospirava. Al giorno
si sedeva a lavorare alla finestra che guardava la laguna, e mentre
le dita conducevano l'ago a rammendare pannilini, il suo pensiero
vagava in traccia di tormenti pel cuore, e qualche lagrima le cadeva
sulla mano. Le acque tranquille e il cielo sereno le rammentavano i
bei tempi delle gite sul mare, la partenza per Saltore, l'entusiasmo
del lavoro dopo la visita di Canova, i giorni della speranza e della
pace. Ora tutto era mutato, il giovine pescatore che amava le fatiche
del mare, il pittore che passava i giorni coi pennelli alla mano, era
diventato un cicisbeo perduto fra i ritrovi dispendiosi e le donne
galanti!... Ai giorni pensierosi e melanconici succedevano le notti
insonni e irrequiete, e l'accesa fantasia le dipingeva allo spirito
mille fantasmi tormentosi, e le immagini di fortunate rivali laceravano
il suo cuore e accendevano la sua gelosia.
Le disposizioni sul ballo del Ridotto fomentarono le pene segrete,
e vogliosa di vedere coi suoi occhi il nuovo oggetto che occupava
Valdrigo decise di unirsi ad una amica, e di assistere mascherata
a quel ballo. Le fu facile il trovare la compagna colla quale si
apparecchiò di nascosto.
Una semplice veste, una gonnellina fiorita cinta ai fianchi e
rovesciata sul capo secondo il costume delle donne di Chioggia,
fornirono gli abiti da maschera alle due fanciulle del popolo.
Fissarono che appena uscito Valdrigo si sarebbero vestite, e il segnale
del nastro azzurro avrebbe servito a scoprirlo nelle sale del ballo.
Venne finalmente la sera desiderata; Valdrigo uscì mascherato, e poco
dopo Maddalena e la sua compagna attraversavano Venezia per spiare la
sua condotta e scoprir le sue tresche. La folla entrava a fiotti nelle
sale del Ridotto, riboccanti di maschere.
I doppieri delle pareti e le lumiere appese ai soffitti gettavano
una luce rossastra sul turbinìo della calca variopinta e strillante.
Era un andirivieni tumultuoso, un agitarsi di piume, e di sonagli, un
fruscìo di vesti di seta e di velluto gallonate d'oro e d'argento, un
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