Il dolce far niente: Scene della vita veneziana del secolo passato - 01

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IL
DOLCE FAR NIENTE
SCENE
DELLA VITA VENEZIANA DEL SECOLO PASSATO

DI
ANTONIO CACCIANIGA

TERZA EDIZIONE.

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1891.


PROPRIETÀ LETTERARIA
_Riservati tutti i diritti._
Tip. Fratelli Treves.


IL DOLCE FAR NIENTE


I.

Nel secolo passato, al tempo che i nostri nonni in parrucca colla coda,
facevano una corte spietata alle nostre nonne in toppè, la città di
Treviso non era così linda come al giorno d'oggi. Fabbricata, a quanto
sembra, prima dell'invenzione dello spago, la linea retta non appariva
che per accidente. Ogni persona che fabbricasse una casa, aveva qualche
motivo per collocare la sua fabbrica un passo più avanti o più indietro
del vicino, o formava un angolo a dritta o a sinistra, per vedere
il sole più presto o più tardi secondo i suoi gusti. Allora nessuno
parlava di libertà, ma nessuno s'immaginava che si potesse impedire ad
un cittadino di erigere una casa a suo talento, anche in mezzo alla
piazza se lo avesse trovato opportuno. Frutto dell'assoluta libertà
era che ognuno pensava per sè, per la qual cosa Treviso è risultata
di un pittoresco indescrivibile. Le strade a zig-zag alte e basse, ad
angoli sporgenti o rientranti con le finestre e le porte a capriccio,
con portici o senza portici, secondo le idee del proprietario. La
polizia municipale non era ancora inventata, i municipi non avevano
nè il medico, nè l'ingegnere, nè la commissione dell'ornato, che
sorvegliassero l'igiene pubblica, le strade ed i fabbricati.
In conseguenza le vie non erano selciate nè illuminate di notte,
e tutti gettavano dalle finestre le immondizie delle case. L'erba
cresceva rigogliosa per le strade, ove i polli ruzzolavano nelle
spazzature e le lavandaje distendevano il bucato.
Al tramonto del sole suonava l'Ave-Maria, e mezz'ora dopo si poteva
giuocare a gatta cieca e rompersi il collo per la città, immersa nelle
tenebre più profonde.
Chi voleva veder chiaro andava a spasso col suo lanternino in mano,
o attaccato al cappello a tre spicchi; e chi preferiva le tenebre non
aveva bisogno di spegnere i lumi; e non abbiamo mai udito che i nostri
nonni si sieno lamentati di tali abitudini. Anzi abbiamo delle ragioni
per credere che gl'innamorati ed i ladri, fra i quali corrono certe
analogie, fossero perfettamente soddisfatti.
I frati e le monache avevano prodigati i loro conventi, ed ogni mattina
l'aria echeggiava del continuo frastuono delle campane, suonate alla
distesa ed a tocchi, a gloria del cielo e dei santi ed in perpetuo
tormento delle orecchie dei peccatori.
In quel tempo, ed appunto in una mattina di primavera del 1771, due
giovani della medesima età, uscivano da porta Altinia, e si avviavano a
piedi verso Venezia.
Erano entrambi, come succede sovente a questo mondo, ricchi di genio
e poveri di contanti; ma la ricchezza dei giovani non istà nella
borsa, ma nel cervello e nel cuore, e in questo senso erano milionari.
Portavano il fardello sulle spalle colla baldanza dei loro quattordici
anni, e aspiravano l'aria fresca della campagna con un'ebbrezza che
brillava negli occhi, e sulle labbra. Andavano a Venezia per la prima
volta, a cercare fortuna nell'arte: avevano in tasca delle lettere
commendatizie, nel cervello un mondo di sogni, e nel cuore una fiamma
perenne.
Venezia era allora la ricca e popolosa dominante della repubblica,
la città delle arti belle, la sede del buon umore, il teatro delle
avventure misteriose e dei facili costumi. Il nome di Venezia risuonava
in tutto il mondo col supremo prestigio delle glorie passate, e delle
voluttuose seduzioni del presente.
I due giovani viandanti sentivano le pulsazioni del loro cuore
accelerarsi all'idea di raggiungere la piaggia felice della quale
aveano tante volte udito vantare i fasti, e narrare il fascino e le
meraviglie, dai signori villeggianti.
A Mestre incominciava a quei tempi il movimento che indicava la
vicinanza della grandiosa dominante. Dai grandi alberghi e dalle
locande che fiancheggiavano il porto, uscivano ed entravano ad ogni ora
del giorno grandi e piccole carrozze da viaggio, sedioli, cavalieri e
pedoni. Vedevansi degli alti carrozzoni dorati con vaghe miniature agli
sportelli, con entrovi eleganti gentildonne in toppè e gran signori in
parrucca incipriata, con la coda riparata in un sacchetto di seta che
sbatteva le spalle. Andavano e venivano per le vie popolose, ridendo
e scherzando, arrestandosi a conversare cogli amici e conoscenti che
incontravano. Ad ogni momento arrivavano o partivano le gondole dalla
riva, caricavano o scaricavano i patrizi, i magistrati, i ricchi
cittadini, accompagnati dalle loro dame e damigelle, dagli abati di
casa, dai segretari, e da numerosi staffieri, servitori e cameriere
d'ogni fatta, che portavano tabarri, ombrelli, cesti, sportelle,
casse e bagagli. Sul porto era un continuo movimento, un incessante ed
animato tramestìo d'uomini e di cose, che formava un quadro bizzarro di
costumi originali e di colori spiccati, degna prefazione del gran libro
di Venezia.
I due modesti viaggiatori dopo un'opportuna refezione si decisero a
scendere in una peota che partiva sul momento carica di viaggiatori
stipati fra le stie dei polli, e le provvisioni svariate di frutta e
d'erbaggi.
Quando ogni cosa fu all'ordine la barca si distaccò dalla riva, e i
barcajuoli incominciarono a dare dei remi nell'acqua. Le donnicciuole
di Mestre che avevano accompagnate all'imbarco le comarelle e le
amiche, si sbracciavano sul molo in mille segnali, auguri e saluti, e
facevano un cicalìo che si confondeva col tonfo dei remi, e si perdeva
incompreso per l'aria. Gli uomini salutavano con le braccia protese e i
berretti sollevati.
Nella barca rispondevano sventolando le pezzuole, o coi cenni della
mano, o con qualche lagrimetta furtiva, dissimulata dal bianco fazzuolo
del capo.
Spariti gli ultimi gruppi della riva, incominciava la conversazione
in comune. Ognuno prendeva un posto conveniente alle proprie idee.
I vecchi cercavano un cantuccio tranquillo ben riparato dall'aria e
dal sole, le donne fingendo nascondersi, studiavano una posizione
avvantaggiosa; i giovani facevano prospettiva alle donne, o si
sedevano loro da canto per raddolcire le noje del lento viaggio, con
una conversazione geniale. I battellieri calcavano il tabacco nella
pipa, e i due giovani viaggiatori si collocavano a prora per dominare
liberamente il nuovo e stupendo spettacolo.
Frattanto uscivano dai tortuosi e torbidi canali di Mestre, ed
entravano nella vasta laguna. I nostri due compagni di viaggio, cogli
sguardi intenti verso la lontana Venezia, contemplavano estatici il
magnifico quadro che compariva davanti ai loro sguardi.
Le acque azzurre, appena increspate dalla brezza vespertina, si
stendevano come uno specchio infinito, riflettente le rosse nuvolette
della sera. Di tratto in tratto dai banchi di sabbia verdeggianti per
le alghe, si levava un qualche uccello marino, e si alzava sbattendo le
bianche penne, e poi discendeva in graziosissime curve con l'ali stese
ed immobili, sfiorando l'acqua, o immergendosi un istante per cogliere
di passaggio la preda.
Qualche battello peschereccio raccoglieva o gettava le reti, o
scioglieva le vele pel ritorno. Le brune gondolette passavano davanti
la lenta peota. I gondolieri e i pescatori cantavano, tutto respirava
la pace e il contento, tutto presentava alla vista un aspetto singolare
e fantastico.
Da lungi fra i vapori trasparenti e dorati della sera vedevasi Venezia
come una sposa avvolta nel velo nuziale, circondata da una aureola
di luce divina. Il sole cadente s'immergeva nelle acque che parevano
fiammeggianti di liquido oro sopra strati di porpora. A poco a poco
si distinguevano le gugliette, i campanili, le cupole e le case,
confuse fra gli alberi e le antenne delle navi. Gli ultimi raggi del
sole battenti sopra l'ampie invetriate dei lontani palazzi pareva
che mandassero in fuoco quelle principesche dimore. La calda luce del
crepuscolo non era ancora scomparsa, che dalla parte opposta si levava
la luna, e le prime stelle brillavano in cielo, come fosse convenuto
fra gli astri di darsi il cambio sull'eccelso diadema della regina del
mare. A poco a poco sorgeva la notte serena, e involgeva nel suo bruno
mantello la misteriosa città.
Entrarono in Venezia, attraversando il Canal grande, e sbarcarono al
molo della Piazzetta: la luna sbatteva i suoi raggi sul palazzo ducale,
e riproduceva sui muri del fondo le agili colonnette e i trafori. La
basilica di San Marco appariva indistinta fra molteplici gruppi di
colonne di marmo sostenenti archi di mosaici di oro, incoronati di
cupole lucenti. La doppia fila d'arcate che fiancheggiano la piazza,
i sovrapposti palazzi, le gigantesche colonne della piazzetta, i
leggiadri stendardi, tutto quell'insieme vario ed artistico, grandioso
e imponente, sembrava ai giovani viaggiatori una sublime visione.
Penetravano in Venezia come nel regno dei sogni soavi; le loro
forze giovanili misuravano dei lunghi anni felici, le loro speranze
dipingevano sulla facile fantasia una serie di gioje recondite; e la
gloria possibile fra le meraviglie delle arti e della natura!
Ma chi erano quei due giovani viaggiatori, così ardenti d'entusiasmo e
di genio? — Uno si chiamava Vittore Valdrigo, e l'altro Antonio Canova.


II.

Il giorno di tatti i Santi del 1757, la natura melanconica si
apparecchiava all'inverno, le foglie cadevano dagli alberi, l'erbe
ingiallivano. Nel piccolo villaggio di Possagno, i paesani si recavano
nella vecchia parrocchia di San Teonisto per ascoltare la messa.
Niente indicava un avvenimento rimarchevole pel modesto paesello, nè
il reverendo parroco che battezzava un neonato s'immaginava che il
nome impostogli al sacro fonte avrebbe fra pochi anni meritate le lodi
di tutto il mondo civile, e sarebbe divenuto la provvidenza del paese
nativo, cosicchè il buon sacerdote aprendo colla solita tranquillità
i registri parrocchiali, vi iscriveva colla massima indifferenza sotto
agli altri poveri nomi, il nome che doveva diventare famoso di Antonio
Canova, figlio legittimo di Pietro Canova di Possagno e di Angela Zardo
di Crespano.
Finita la cerimonia, il prezioso fanciullo veniva trasportato a casa
senza altre solennità, e colà pochi parenti ed amici celebravano
tranquillamente la sua nascita rompendo dei biscotti e assaporando
alcuni bicchieri di vino. E chi poteva leggere nel libro dell'avvenire?
Generalmente le madri coltivano i sogni più ridenti sulla culla dei
loro bambini; Angela Zardo avrà essa pure fatti i suoi sogni, ma questa
volta erano certo al di sotto della realtà.
La sua fantasia si sarà limitata alle comuni speranze, e se una voce
arcana le avesse profetizzato i grandi destini del figlio, essa non
avrebbe creduto alla profezia. Eppure egli doveva dar vita ad una serie
gloriosa di candide divinità, innalzare colossali mausolei a pontefici
e a principi, riprodurre col marmo i più illustri personaggi del suo
tempo, scolpire le statue di futuri eroi e di graziose principesse,
e con parte del denaro ricavato innalzare un tempio greco sui colli
di Possagno in luogo della povera chiesuola nella quale era stato
battezzato.
E chi poteva annunziare agli abitanti di Carrara che era nato un
fanciullo a Possagno che fra pochi anni avrebbe cavato dal marmo delle
loro cave una Psiche celeste, un gruppo delle Grazie veramente divino,
e un drappello di altre bellezze molli e quasi palpitanti di vita?
E pensare che un colpo d'aria, o qualunque minimo accidente sarebbe
bastato per spegnere quella vita, e togliere al mondo il lavoro di
quelle mani portentose che doveano secondare con tanta maestria le
creazioni del genio!...
E chi sa quanti genii nascono ogni giorno in Italia, e si spengono
senza aver dato il loro frutto! Chi sa quanti uomini di Stato, quanti
germi di generali e di magistrati muojono nelle fascie di spasmodia
o di morbillo! e chi sa quanti nascono con la scintilla del genio e
muojono nell'età senile senza lasciare una traccia del loro passaggio
nella vita, tutta trascorsa in vane contemplazioni, in sterili sogni,
in un perpetuo assopimento, in una molle apatia, in un dolce far
niente!
Mentre che a Possagno la nascita di Canova passava inosservata, a
Venezia si celebravano con gran rumore di campane e gran scialacquo
di versi, i natali degli illustri rampolli della veneta nobiltà. I
discendenti dei famosi dogi erano accolti in questo mondo coi più
solenni pronostici.
Circondati di trine e di giojelli venivano trasportati al sacro fonte
fra una folla d'amici e seguiti da un codazzo di servi in livree
ricamate colle armi gentilizie della casa. Al ritorno dalla chiesa si
facevano dispendiose feste e rinfreschi, ove si prodigavano i più fini
confetti e i vini più prelibati, e i poeti d'occasione andavano a gara
nel mettere in rime le geste gloriose del futuro eroe, annunziando a
Venezia la sua nuova fortuna. Ma pur troppo quei poeti furono falsi
profeti, ed alla caduta dell'antica repubblica gli eroi si nascondevano
in cantina esclamando coll'ultimo doge le memorabili parole: «questa
notte non saremo sicuri nemmeno in letto!» Ogni fanciullo che nasce è
un mistero!


III.

Saltore è una tranquilla e verdeggiante villetta, a poche miglia da
Treviso e dal Piave. La pittoresca catena di montagne che fiancheggia
la provincia forma una deliziosa prospettiva al villaggio. Queste
montagne che dominano i colli sottoposti, e il bosco del Montello,
ergono la cresta orgogliosa di nuda roccia, e sono incoronate sovente
di bianche nevi, che nelle serene aurore e nei dorati tramonti si
tingono d'una vaga luce rosea o violetta, e nei giorni più foschi
si velano di azzurre nebbie trasparenti, o si ascondono in parte fra
vapori fantastici che a poco a poco diventano nuvole e vengono poi ad
inaffiare la sottoposta pianura. Le falde verdeggianti dei monti sono
tutte seminate di paeselli, di casolari, di chiesette circondate di
macchie boscose, e di vigne che presentano alla vista un incantevole e
variato prospetto. Dalle gole ove discende il Piave, penetra quell'aria
pura ed elastica che conserva la salute, apporta l'appetito, e invita i
Veneziani a godere i piaceri campestri, per cui tutto il territorio è
sparso di palazzi e di case che abbelliscono l'antica Marca; la quale
per la sua amenità, meritò dai nostri antenati il lusinghiero epiteto
di Amorosa[1].
Sembra che anticamente Saltore sia stato un feudo o un'abazia dei conti
Collalto. Osservansi ancora in alcune case coloniche gli avanzi di
antichi conventi, e rimangono sui cadenti muraglioni le traccie delle
celle dei frati e gl'indizi non dubbi di religiosi istituti. In epoche
remote la nobile famiglia Sugana veniva a villeggiare nel paese, che fu
celebrato in quei tempi per i magnifici palazzi e i sontuosi giardini.
Avanzo di questa dimora dei Sugana, rimaneva ancora, sono parecchi
anni, una antica torre diroccata in fianco d'un ponte che cavalca la
Mignagola, modesto ruscello, ma limpido come il più terso cristallo.
Dai ruderi del palazzo signorile era sorta una rustica catapecchia,
composta di rottami di cornici di pietra, e di vecchi mattoni, coperta
di tegole e paglia. Una tettoja posta a ridosso della torre era
sostenuta da fusti infranti di colonne e da tronchi d'albero colla loro
corteccia, e da qualche ramo che faceva le funzioni d'architrave. Il
pianterreno della torre era divenuto una stalla, il primo piano una
camera da letto, alla quale si saliva da una scala esterna coperta,
e intorno della quale una vite vagabonda arrampicandosi ai pilastri
era andata a raggiungere il tetto e ricadeva in festoni. Un'adjacenza
conteneva la cucina, le altre stanze e il fienile, il tutto fabbricato
a varie riprese, con idee diverse, con materiali antichi o recenti, da
artisti che non conoscevano nè regolo, nè compasso, nè squadra. Sopra
la camera da letto la torre non aveva che tre lati che terminavano in
frastagli cadenti sopra qualche foro a sesto acuto, ove di giorno i
colombi stavano al sole a lisciarsi le penne. Il tetto aveva il suo
declivio dal lato mancante. Nelle fenditure dei vecchi muraglioni,
nei crepacci e nei fori, le civette e i pipistrelli facevano il nido,
e si erano accomodati a meraviglia fra una vegetazione fantastica di
fichi selvatici, di pruni e ligustri. L'edera correva su pei muri e
ne formava il più grazioso ornamento. In fianco alla bizzarra dimora
sorgeva un gruppo d'antichi olmi che rendeano completo il quadro. Il
cortile terminava al ruscello, tutto ricinto di siepi di biancospino,
di aceri, di evonimi e di sicomòri; era brulicante d'animali domestici,
che vivevano in perfetto accordo fra loro, e andavano beccando i
granelli sparsi sul terreno. Un superbo gallo razzolava il letame per
discoprire dei lombrici da regalarne le sue galline che gli stavano
d'intorno come tante odalische. I polli d'india facevano la ruota
colle penne della coda, una chioccia conduceva al passeggio i pulcini
pigolanti. Le anitre si diguazzavano nell'acqua, un grosso majale
grugniva in un canto, sdrajato sopra un mucchio di foglie. Il cane
vegliava alla porta, il gatto, ricoverato sulla sommità della scala,
stava contemplando la rustica scena, con una immobilità monsulmana.
Tutti erano felici, ciascheduno vivendo secondo le sue idee, in piena
libertà e sicurezza. Quel cortile presentava l'immagine di un perfetto
governo nel quale regnasse l'ordine, la pace, l'armonia. Le rondini,
innamorate del beato soggiorno, facevano il nido sotto ai tetti, ed
ogni primavera, reduci dai loro viaggi lontani, ritornavano ad abitare
le loro costruzioni, le quali non avevano bisogno che di qualche
leggiero restauro.
Dietro la corte c'era l'orto fornito a dovizia di erbaggi e di frutta,
e dopo l'orto vasti campi adorni di viti; ed estesi prati nei quali gli
armenti trovavano dei pingui pascoli, e una quiete beata.


IV.

Zammaria Valdrigo era l'affittuale del podere. In quella solitudine le
sue idee s'erano naturalmente circoscritte alle istruzioni del parroco,
ed alle tradizioni di famiglia. Dal primo aveva imparato materialmente
a recitare i misteri, a balbettare le orazioni latine, a venerare i
santi in generale, accordando però una particolare preferenza ad alcuni
che godevano il privilegio di speciali facoltà, ed erano dichiarati
protettori d'alcune professioni, o degli ammalati o delle bestie. Per
esempio, i calzolai dovevano invocare san Crespino, gli epilettici san
Valentino, e in caso di malattie della vacca o del porco bisognava
raccomandare il sofferente a san Bovo, o a sant'Antonio abate. La
speranza del paradiso e la paura dell'inferno e del diavolo erano
naturalmente il fomite delle buone azioni, e il freno degli istinti
perversi; in quanto al purgatorio egli non ne aveva tanto spavento,
perchè quantunque il bruciare nelle fiamme per alcuni anni dovesse
essere una cocente punizione, pure poteva sperare d'uscirne col mezzo
di opportune indulgenze, di qualche messa, di qualche elemosina, di una
candela, o di altri suffragi.
A queste nozioni generali del sovranaturale, si aggiungeva la fede
nella potenza delle benedizioni del parroco per ispaventare i sorci, o
mettere in fuga le formiche, e le tradizioni di famiglia riguardo al
_massariol_, essere misterioso e notturno che fischia da lontano nei
campi, ed entra nella stalla ad intricare le criniere ai cavalli. E le
streghe che gettano la mala sorte, e le anime dei morti che non trovano
pace, e vagano di notte per le strade deserte.
In quanto alle idee civili, si riducevano a poco. Come la celeste
gerarchia, la podestà della terra dividevasi in gradi. Al sommo
stava il Doge, e poi venivano il Consiglio dei Dieci, il Senato e i
gentiluomini. Dopo i gentiluomini i lustrissimi, e finalmente la povera
gente che deve obbedire. Per le nozioni agricole tutto si riduceva a
seminare od a mietere in crescente o calante di luna secondo i casi, a
lavorare le terre coll'aratro ereditato dal nonno, il quale lo aveva
avuto dal bisavolo che lo teneva dal trisavolo, e così avanti, ossia
indietro fino ai tempi di Trittolemo.
Del resto, malgrado tanta semplicità, Zammaria sapeva fare i suoi
conti, e presso gli altri contadini egli passava per un esperto
massaio. Rispettoso e diffidente, faceva profondi inchini ai padroni,
ma misurava le parole, rideva sempre con un occhio solo e con metà
della bocca, e dalla bonarietà superficiale del volto gli trapelava
un'aria di nascosta malizia, che dava alla sua fisonomia un carattere
singolare.
Sua madre era una vecchia grinzuta e ricurva, che tutto il paese
chiamava per antonomasia, la nonna.
Sua moglie era una svelta e robusta contadina. Bianca e rossa come
un bel pomo maturo, la Rosa andava e veniva tutto il giorno dalla
cucina alla corte, dalla corte alla stalla, dalla vacca ai pulcini,
dal marito al maiale, dai figliuoli ai colombi; una vera provvidenza
che vegliava su tutto, e non dimenticava nessuno. Un fazzoletto a
quadri sul capo, le maniche rimboccate fino al gomito, la gonnella che
appena oltrepassava il ginocchio, lasciavano piena libertà alle sue
mosse rapide e gagliarde, e dall'alba al tramonto si udivano i tacchi
de' suoi zoccoli che battevano il terreno con un suono uniformemente
accelerato. Pareva che il suo cómpito sulla terra fosse quello di
rappresentare l'abbondanza; la quale spiccava dalle rotondità delle
sue membra, dal volume degli alimenti somministrati alla famiglia e
agli animali, e dal numero de' suoi figli. Ne aveva avuto una decina
fra maschi e femmine, alcuni erano morti, gli altri correvano i campi,
al sole e alla pioggia, forti come la madre, vegeti come la natura,
selvaggi come gli uccelletti del bosco.


V.

C'era però una eccezione. Vittore era nato con una fibra più molle
degli altri fratelli, ed aveva sofferto alla prima infanzia alcune
malattie che lo lasciarono più delicato e più debole. La buona madre
sentiva il bisogno di distinguerlo dagli altri, riparandolo con cura
dalle intemperie, rinforzandolo con cibi migliori, sorvegliandolo ad
ogni istante perchè non si esponesse ad esercizii violenti e dannosi.
Le sofferenze fisiche lo rendevano più sensibile alle impressioni, e le
abitudini calme e tranquille introducevano nel suo cervello il dominio
delle idee, ed una naturale tendenza alla osservazione minuziosa degli
oggetti che gli stavano intorno. Seduto sotto gli olmi che sorgevano
fra la casa e il ruscello, egli contemplava e comparava ogni cosa.
Seguiva il volo della rondine che sfiorando l'acqua cristallina
coglieva la preda, l'apportava al nido ove i neonati l'aspettavano
col becco dischiuso, e con allegro garrito ritornava alla caccia per i
prati e pei campi. Osservava il bacio dei colombi, le collere del gallo
contro i tacchini, ammirava i vaghi colori delle farfalle, e le ali
dorate degli insetti che passeggiavano sotto ai muschi crescenti sulle
corteccie degli alberi; e ascoltava attentamente i varii mormorii della
campagna, che con un'armonia indefinita rompevano i silenzii della
tranquilla dimora.
Turco, il cane da guardia, era il fido compagno delle sue escursioni
vagabonde, e con lui faceva lunghe peregrinazioni attraverso i
vicini paesi e fino alle ghiaie del Piave, ove si arrestava davanti
l'impetuoso torrente, a contemplare quelle vaste solitudini, e il
lontano prospetto del castello di San Salvatore, e la catena dei monti.
E nelle lunghe sere d'inverno, rannicchiato in un angolo del focolare,
o seduto accanto dei buoi, ascoltava le fiabe della nonna, che
popolavano la sua mente di bizzarre avventure, e conducevano il suo
spirito nella regione dei sogni.


VI.

Nel vicino paesetto di Vascon villeggiava in quel tempo l'antica e
nobile famiglia veneziana degli Orseolo. La pittoresca dimora dei
Valdrigo serviva spesso di meta alle passeggiate vespertine della
nobile famiglia, che si piaceva di quelle scene campestri, e si
arrestava volontieri alla rustica cucina all'ora della cena, ad
osservare la Rosa che distribuiva le parti alla nonna, a Zammaria, ai
fanciulli, dispersi qua e colà sopra una sedia, sul focolare, o sulla
soglia.
La fisonomia intelligente di Vittore piacque alla nobildonna Fulvia
che s'intratteneva con piacere a conversare con lui, ed egli divenne
ben presto il compagno inseparabile d'Alvise e di Silvia, nobili
rampolli dell'illustre casato. Silvia era una bambina di quadro anni,
suo fratello ne aveva due di più, la medesima età di Vittore. Ogni
autunno Alvise e Silvia appena giunti a Vascon correvano in traccia di
Vittore, lo regalavano di vesti, lo conducevano a casa con loro, ed
egli passava tutta la stagione cogli Orseolo dividendo coi fanciulli
i giuochi, i balocchi, i bomboni, i piaceri e gli studi. Quando Silvia
entrò in convento, ed Alvise ebbe un istitutore, la nobil donna Fulvia
raccomandò Vittore al parroco di Varago, affinchè gl'insegnasse
a leggere e a scrivere; e poco tempo dopo, ottenne dai parenti di
lasciarlo continuare gli studi presso un prete di Treviso che teneva
alcuni ragazzi in pensione. Gli Orseolo pagavano la spesa, Zammaria
brontolava, ma la Rosa era contenta; e ogni autunno Alvise e Vittore
ricominciavano le loro escursioni e i soliti diletti campestri.
Il giovine Valdrigo fece in pochi anni rapidi e portentosi progressi, e
mostrò una straordinaria inclinazione per la poesia e per le arti. Egli
disegnava con rara maestria, e riteneva a memoria i motivi musicali,
uditi anche solo una volta. La vita contemplativa dell'infanzia aveva
certamente predisposte le sue facoltà ad una intensa osservazione, che
gli rendeva più facile la riproduzione delle impressioni ricevute.
La contessa Fulvia degli Orseolo parlò del suo protetto al senatore
Giovanni Falier, grande amatore delle arti belle, e mecenate degli
artisti, il quale sapendo che lo scultore Torretti doveva recarsi
a Treviso, lo incaricò di esaminare le tendenze del fanciullo. Il
Torretti lo trovò degno delle sue cure, e lo condusse seco a Pagnano
ove compiva dei lavori per le chiese dei paesi vicini.
La nobile famiglia Falier villeggiava allora nel suo principesco podere
di Pradazzi, nelle vicinanze di Pagnano e di Possagno. In quella nobile
dimora il vecchio e burbero Pasino presentava a Giovanni Falier il suo
timido nipote Antonio Canova, il quale rimasto orfano del padre, era
stato allevato dall'avolo a trattare il marmo, professione di famiglia,
nella quale i suoi parenti lavoravano con discreta abilità.
Il benefico Falier raccomandava anche il giovine artefice al Torretti,
nel cui studio di Pagnano si conobbero e si amarono Antonio Canova e
Vittore Valdrigo.
Finiti i lavori che lo tenevano occupato nei contorni di Asola, il
maestro scultore ritornò alla sua residenza di Venezia, invitando
i suoi giovani allievi a seguirlo nella artistica città, ove fra
le meraviglie delle arti avrebbero sviluppata la mente all'amore e
all'intelletto del bello.
Con questo scopo si recavano a Venezia i due modesti viaggiatori, dopo
di aver abbracciato i parenti, e dato un addio al nativo villaggio.


VII.

Antonio Canova, entrato nello studio del Torretti a Venezia, si
esercitava a maneggiare i marmi, a trattare gli scalpelli, i trapani,
le scuffine e le raspe, ma non tardava ad accorgersi che i minuziosi
lavori del maestro mancavano d'ispirazione e di genio.
Il Torretti era seguace di quell'arte convenzionale che abbandonato
lo studio del vero, cercava gli effetti nelle movenze esagerate, e
negli adornamenti pomposi o bizzarri. Trascurava lo studio del nudo, e
non facea caso degli antichi modelli della Grecia, nei quali il genio
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