Il dolce far niente: Scene della vita veneziana del secolo passato - 03

Total number of words is 4337
Total number of unique words is 1969
30.2 of words are in the 2000 most common words
44.8 of words are in the 5000 most common words
53.9 of words are in the 8000 most common words
Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
magnifiche sale di un'opera che otteneva gli applausi universali. E in
vero quelle due statue erano così superiori alle produzioni dell'epoca,
che la stessa invidia taceva, e gli artisti viventi confessavano il
rinnovamento dell'arte e volevano stringere la mano che sapeva così
bene trattare lo scalpello ed imitare la natura.
Il modesto Canova fuggiva le pubbliche ovazioni, e assaporava le intime
gioie del suo primo trionfo nella cella solitaria di san Stefano, già
adorna d'altri pregevoli lavori. Infatti prima del Dedalo ed Icaro
aveva condotto a termine il busto del Doge Renier per commissione del
nobile Angelo Quirini; aveva ripetuto l'Orfeo con modificazioni del
primo pel Senatore Grimani; aveva condotto in marmo un Esculapio e
modellato un gruppo d'Apollo e Dafne.
I giovani suoi amici ed ammiratori andavano a visitarlo, e lo trovavano
sempre intento al lavoro. Erano fra i più intimi il giovane scultore
veneziano Antonio d'Este, che gli fu fedelissimo e stretto amico sino
alla morte, il trivigiano Carlo Lasinio, incisore e pittore stimato, e
Vittore Valdrigo.
Costui uscendo a notte inoltrata dallo studio di Canova si aggirava
solitario per le calli deserte di Venezia, assorto nelle più gravi
meditazioni. Quel grande e nobile esempio agitava il suo spirito, egli
era costretto di confessare che le opere applaudite dell'amico erano
il risultato dei continui studi e delle perseveranti fatiche, egli
conveniva che il genio non fruttifica se non è fecondato dal lavoro, e
sentiva nel profondo dell'anima una voce misteriosa che gli prometteva
la gloria, qualora acconsentisse a consumare i pennelli sulla tela,
come Canova usava gli scalpelli sul marmo.
Passeggiando in fianco alle Chiese e ai Palazzi, egli si arrestava a
contemplare quei monumenti, e le forme fantastiche di quelle antiche
dimore in parte immerse nelle ombre della notte, in parte illuminate
dalla luna, secondavano le sue tendenze e lo trascinavano nel regno
dei sogni. Dimenticando affatto il presente, egli riviveva nei secoli
andati, e gli pareva che quelle mura gli rivelassero i segreti delle
arti e della politica; e cercando di penetrare nei misteri degli anni
svaniti, gli sembrava di vedere gli uomini delle morte generazioni
e ne studiava i caratteri, e voleva indovinarne i pensieri. Davanti
una maestosa basilica, che disegnava le sue cupole nel cielo sereno,
egli pensava: — Quivi Tiziano si sarà soffermato a contemplare questo
spettacolo sublime, e avrà meditato il pensiero dell'Assunta. — Poi
raggirandosi per le oscure vie, e pei ponti ricurvi che presentano alla
vista le case del popolo sporgenti o rientranti nell'acqua dei canali,
se un lumicino rischiarava una finestra, con una luce rossastra, gli
pareva di vedere coricata in quella stanza la più bella Venere uscita
dai pennelli del medesimo artefice, chiamato dal Buonarroti «il gran
confidente della natura, il maestro universale, e il solo degno del
nome di pittore». E seguitava il suo notturno pellegrinaggio attraverso
l'antica Venezia, evocando il passato. Sotto al campanile di san Marco
gli sembrava di riconoscere il vecchio Sansovino che si compiaceva
nella contemplazione della sua loggia; sulla riva degli Schiavoni,
s'immaginava di incontrarsi con Alessandro Vittoria che aveva dimorato
in calle della Pietà. Ora si arrestava a dialogizzare col Tintoretto,
ora chiedeva a Paolo Cagliari delle spiegazioni intorno ai suoi gruppi,
o domandava a Giorgio Barbarelli i segreti della sua tavolozza, e le
sue opinioni intorno alla maniera del maestro Giovanni Bellino.
Davanti l'ampia superficie della laguna pensava ai grandi capitani che
conquistarono il dominio dei mari, e piantarono l'onorato vessillo
di San Marco in lontane regioni. Si figurava i battiti del cuore di
Marco Polo nel giorno del suo arrivo a Venezia dopo la lunga assenza
dalla patria, e rammentava le glorie dei Morosini, dei Dandolo, dei
Foscari, dei Zeno, dei Mocenigo, dei Pesaro. Anime grandi! bei tempi
per Venezia! che ben a ragione andava superba de' suoi fasti politici,
della sua sapienza civile, delle sue glorie artistiche!...
Ma tutto ad un tratto un rumore dapprima indistinto e confuso, e poi
assordante e disgustoso, lo risvegliava da' suoi sogni. Era un nembo
di maschere sibilanti, accompagnate da stromenti scordati, rischiarate
da palloncini variopinti, seguite da una folla plaudente di curiosi
e di sfaccendati. Valdrigo ritirato nel vano di una porta lasciava
passare la valanga, e quando il silenzio della notte riprendeva il suo
dominio egli faceva il paragone della antica Venezia colla nuova, e
mettendo a riscontro le feste nazionali delle vittorie, coi baccanali
senza tregua, gli uomini d'una volta con quelli del giorno, il suo
cuore lagrimava di compassione. Allora rientrava in casa, abbattuto
e desolato d'esser nato troppo tardi, in un'epoca di corruzione e di
decadenza; e trovava miglior consiglio spegnere l'intelletto nello
stordimento delle feste, al tocco dei bicchieri, al suono d'una musica
festante, fra i baci voluttuosi dei facili amori!...
E così invaso dallo scoramento e prostrato dagli stravizi, dimenticava
il grande esempio dell'amico, il quale, modesto, laborioso e solitario,
si levava sempre più alto e dominava i tristi tempi, colla grandezza
del genio e coll'incanto delle divine creazioni.


XII.

Un ardente desiderio, un pensiero tenace, turbava i sonni, e dominava
le ore di studio di Antonio Canova. Un nome grande risuonava nel suo
cuore, una voce misteriosa e prepotente lo chiamava da lontano. Questo
pensiero, questo nome, era Roma. Roma circondata da un prestigio
infinito, nome eterno e venerato dal mondo per le sue grandezze e
per le sue rovine. Colà la Grecia mostra ancora le immortali bellezze
de' suoi marmi; e le glorie della repubblica e dell'impero sfidano i
secoli sulle pietre imperiture dei loro monumenti. La nuova era della
fratellanza cristiana, fondata sulle macerie del mondo antico, narra
i suoi martirii e i suoi fasti, colle catacombe e colle basiliche.
Il genio dell'arte eterna ha trasfuso la sua scintilla nell'anima di
Michelangelo e di Raffaello, e il fuoco sacro arde fra quelle mura,
che custodiscono i tesori della civiltà greca, romana e cristiana. Il
gruppo di Dedalo ed Icaro e la statua del marchese Poleni fornirono
al giovine scultore i mezzi necessari per soddisfare i suoi voti, e
nell'ottobre del 1780, lieto e felice, partì finalmente per Roma.


XIII.

In quello stesso mese un pesante carrozzone da viaggio, e un
barocchissimo biroccio, andavano barcollando per le strade rotte e
guazzose dei contorni di Treviso, trasportando la nobile famiglia degli
Orseolo che si recava a villeggiare nel suo palazzo di Vascon.
Vedevasi nel carrozzone principale la nobildonna Fulvia in gran
toppè seduta accanto del nobile Giuliano Partecipazio, suo cavaliere
servente di servizio, e dirimpetto a loro, Silvia ed Alvise. Sedevano
nel secondo biroccio il nobile marito conte Almorò degli Orseolo,
l'elegantissimo abate Don Lio, poeta arcade, membro dell'illustre
accademia dei Granelleschi, istitutore del giovane Alvise, e cavalier
servente onorario della contessa. In faccia a loro stavano Vittore
Valdrigo, e la cameriera Lucietta. Gli altri servitori e staffieri
camminavano in fianco alle carrozze per sostenerle quando minacciavano
di ribaltarsi, o per spingerle avanti, quando le ruote sprofondandosi
nel fango, si arrestavano. Erano partiti da Venezia avanti il levare
del sole colla speranza di giungere alla villa prima di notte. In due
ore si attraversava la laguna, ma ci voleva una intiera giornata a
percorrere le quindici miglia da Mestre a Vascon, ben fortunati quando
non si aveva bisogno di quattro buoi per rimorchiare i cavalli e le
carrozze attraverso i rompicolli, che allora si chiamavano strade.
Silvia era diventata una bella ragazza. Prima di ritirarla dal convento
era stata fidanzata al signor conte Alberto Leoni, che aveva vent'anni
più di lei, ma le era eguale in nobiltà e superiore in ricchezza,
perciò tutti trovavano il maritaggio perfettamente assortito, e la
ragazza non aveva nulla da dire, non potendosi ammettere in quei
tempi dalle famiglie dei nobili, che le fanciulle avessero un'opinione
qualunque sullo sposo a loro destinato dai genitori, secondo la nobiltà
del casato e le convenienze relative.
Avanti che i nobili viaggiatori giungano alla meta, possiamo a nostro
bell'agio visitare il loro palazzo di compagna e passeggiare il
giardino in compagnia del cortese lettore, o della graziosa leggitrice,
ciò che sarebbe per noi una maggiore fortuna.
Il castaldo Angelo Rotondo dà l'ultima spazzatura al selciato
davanti della casa, dopo aver messo in ordine l'interno, e fatte
sparire quelle cose che i padroni non devono vedere. Sua moglie
Fiorina è tutta in faccende per ripulire le stoviglie, spiumacciare i
materassi, dispiegare i coltroni, spazzare le stanze e spolverare le
suppellettili.
L'antico e vasto palazzo sorge maestoso in mezzo di spaziose adjacenze
che contengono una grande quantità di locali a diversi usi. Dall'ampia
sala del mezzo partono le larghe scale che conducono agli appartamenti
superiori. Altre scale segrete e secondarie mettono negli anditi, e
conducono alle stanze dei domestici.
Le ampie camere sono quasi tutte riquadrate di capricciosi stucchi alla
maniera di Carpofero, e si svolgono in curve barocche, chiudendo nel
mezzo antichi ritratti di famiglia un po' affumicati dal tempo, entro
a cornici d'intaglio bizzarramente accortocciate, e sormontate dagli
stemmi della famiglia, incoronati dal corno ducale.
Nelle sale di ricevimento pendono dal soffitto ricche lumiere di
cristallo, e graziose girandole di Venezia, con pendagli brillantati,
e goccie tagliate a faccette, e adorne di vasi di fiori e frutti in
vetro, maestrevolmente dipinti. Sopra ai grandi e profondi camini di
marmo, che possono contenere dei tronchi d'albero intieri, veggonsi
lucenti specchi di Murano entro a cornici dorate, con vaghi andari di
foglie che si aggirano fra i cartocci e le volute, condotte con arte
ingegnosa. Larghi e pesanti seggioloni di cuoio con borchie di metallo,
e tavoli a piedi ricurvi, ricoperti da ricchi tappeti di stoffe
pesanti, a grosse frangie d'intorno, e grandi armadi colle cornici
sostenute da cariatidi, con ampie invetriate entro alle quali fanno
bella mostra i vasi di Faenza e i bicchieri di cristallo di monte.
Il giardino è circondato da lunghi viali di carpini, tagliati
regolarmente ad arco. Le viuzze regolari e simmetriche, e le ajuole
dei fiori sono fiancheggiate da bossi ridotti in forma di verdi
muricciuoli. Gli alberi mozzicati e ritondati dalla forbice inesorabile
del castaldo, hanno perdute le loro belle forme naturali, e presentano
il monotono aspetto di vasi, piramidi e globi. Le piante dei cedri
che esalano un soave profumo, compiono l'ornamento del giardino,
unitamente alle statue, collocate ad eguali distanze, e riguardantisi
fra loro. Il dio Pane coi piedi caprini, con la testa cornuta, con la
zampogna nelle mani, fissa con stupido sguardo una Diana indifferente
che con una mano accarezza il suo levriere, e con l'altra prende dal
turcasso una freccia. Un Zeffiro enfia le gote, e sembra burlarsi d'una
Flora gentile che gli offre un canestrino di fiori. Vertunno fa degli
sberleffi a Pomona, che gli mostra ingenuamente delle frutta, senza
intendere le malizie del suo innamorato. Un grosso e allegro Bacco
incoronato di pampini leva in aria una tazza, e sorride bestialmente
a Cerere incoronata di spiche, la quale levando la falce sembra che
minacci di recidergli il capo.
Gli agricoltori romani si prosternavano riverenti davanti a questi
dèi, ai quali chiedevano quelle benedizioni e quelle grazie che
ora la castalda Fiorina domanda al vecchio curato trattando poi con
irrispettosa noncuranza gli antichi numi, alle sacre membra dei quali
attacca una corda, per distendere al sole il bucato.
Niente ricorderebbe la schietta natura in mezzo alla miseranda
accozzaglia delle piante frastagliate, se un rustico boschetto
sfuggito per miracolo alle cure micidiali del castaldo non fosse stato
abbandonato alla sua vegetazione naturale. Questi alberi dovettero
la loro salvezza al sito remoto, nel quale si ascondevano alla vista
degli uomini. Gli uccelli frequentavano quel delizioso boschetto
che stendeva le sue ombre ospitali sulle verdi erbe d'un prato, in
fianco d'un ruscello mormorante fra candide ghiaie, e in primavera vi
facevano il nido, e coi loro gorgheggi sembravano protestare contro le
forme artefatte degli alberi del giardino, che secondo Angelo Rotondo
erano la natura privilegiata, il boschetto rappresentando la natura
selvaggia; ma quell'animale ragionevole giudicava la qualità degli
uomini dalla forma della parrucca e il merito delle piante dal lavoro
della forbice, autorizzata dalla moda a commettere un delitto di lesa
natura. Eppure quel tranquillo recesso offriva un beato ricovero alle
persone modeste che amavano fuggire il sole, annoiate dalle importune
suggestioni di Bacco, e dalla immobile pantomima delle altre statue
dabbene.
Il giardino regolare formava naturalmente le delizie dell'istitutore
d'Alvise, che per dovere della carica, si teneva strettamente legato
ai precetti dell'estetica del giorno. Don Lio era uno dei più eleganti
abati di Venezia. Egli portava il collarino bianco, con lattughe
staccate sul petto, e manichini ai polsi artificiosamente elaborati;
anellini alle dita, orologio a pendagli, ferrajuolo di seta svolazzante
al vento, fibbie dorate alle scarpe, e il cappellino a tre punte
appoggiato sull'orecchio. E tuttociò secondo la tolleranza dell'epoca,
malgrado le severe proibizioni dei sinodi patriarcali.
Passeggiando fra i muri del giardino egli invocava le aonie muse,
delle quali era bigotto, e si sentiva trasportare sul Parnaso. Ad
ogni occasione d'inclite nozze egli rischiarava gli sposi colla face
d'Imeneo, e con un solenne epitalamio metteva in campo Apollo, Venere
e le Grazie. Per vestizioni di monache egli penetrava coll'audace
fantasia nel tempio di Vesta, ed animava il fuoco sacro, sordo alle
proteste di Cupido. Alla morte d'ogni illustre patrizio lo raccomandava
a Caronte, dopo un'apostrofe umiliante per l'ignaro Esculapio, e una
imprecazione alle Parche.
Col lodevole scopo di avvalorare i suoi precetti coll'esempio, egli
aveva adottato per sistema un linguaggio costantemente figurato. Alla
mattina egli vedeva la rosea Aurora sul risplendente suo carro, a
mezzogiorno egli usciva coll'ombrello per evitare i dardi di Febo,
alla sera egli salutava la bianca figlia di Giove e di Latona che
faceva capolino dalle nubi. Usciva a respirare i soffi di Zeffiro,
rientrava in casa incomodato dalle furie di Eolo, d'Austro o di
Borea. Nelle tazze del caffè egli assaporava il néttare, e a mensa
trangugiava l'ambrosia delle prelibate bottiglie. Finalmente alla notte
si abbandonava nelle braccia di Morfeo. Alvise trovava il suo maestro
eminentemente noioso; il conte Orseolo lo stimava un insigne poeta,
e Vittore Valdrigo sosteneva che Don Lio era un essere completamente
felice.
La religione cristiana gli prometteva il paradiso dopo la morte, la
religione pagana gli concedeva in vita l'uso degli Elisi, e l'abuso dei
suoi numi. Venezia gli offriva i suoi piaceri, l'Arcadia lo convitava
alle agresti sue gioie. Senza sudori sulla fronte egli coltivava il
Parnaso, e passava i giorni beati dalle più dolci visioni, accompagnate
dagli agi materiali. Smarrito in una selva selvaggia ove Dante avrebbe
incontrato una lonza, un leone ed una lupa, ove i pastori sarebbero
stati assaliti dagli orsi, egli non vedrebbe che le Driadi e le Napee
sorridenti e ben disposte in suo favore; e certo cadendo in acqua
sarebbe salvato dalle Najadi, o almeno ripescato da Nettuno.
Angelo Rotondo ascoltava a bocca spalancata gli squarci d'erudizione
coi quali Don Lio si degnava talvolta onorarlo; e strabiliava a tanta
sapienza, chiedendo spiegazioni e commenti. Durante la villeggiatura la
sua ammirazione riceveva continui alimenti dalle declamazioni serali
dell'arcade abate, e nei mesi d'inverno non dimenticava mai d'inviare
i suoi rispettosi inchini all'illustre poeta, nelle indecifrabili
epistole indirizzate all'agente generale di Venezia, nelle quali
ommettendo i punti e le virgole, parlava alla rinfusa degli animali e
dei padroni, dei polli, dei cavoli, e di Don Lio, chiudendo colla firma
paradossale dell'umilissimo e devotissimo servo _Angolo Rotondo_.
Ma ecco la rubiconda Fiorina che dai cancelli del giardino annunzia
l'arrivo degli illustrissimi padroni e del loro corteggio.


XIV.

La vita di campagna dei nobili veneti di quel tempo si allontanava di
poco dalle abitudini cittadine, e poteva chiamarsi una variazione sullo
stesso motivo. Il dolce far niente di quelle esistenze senza scopo,
non veniva interrotto che dai lauti desinari, o dal giuoco. In città
passavano le ore in frivole occupazioni, o colle visite, o al teatro.
Alla villa il tresette della mattina teneva il luogo delle visite,
il tresette della sera suppliva al teatro. La coltura del suolo era
tenuta a vile e abbandonata ai bifolchi; l'aratro che onorava i consoli
romani, era disceso fra gl'istrumenti più umili della plebe rurale.
Le arti, le mode, la poesia, tutto tendeva a dissimulare la natura, e
la vita era ridotta un artifizio sostenuto da idee false, da pregiudizi
inveterati, da privilegi politici e civili, conservati da secolari
abitudini e da leggi severe.
Vittore Valdrigo amava la natura per istinto, e per l'influenza delle
sue memorie d'infanzia, amava l'arte come quella che gl'insegnava
a discernere il bello e ad elevare lo spirito, e disprezzava
l'arteficioso ed il falso di quelle esistenze signorili, delle quali
era divenuto testimonio quotidiano e attento osservatore. Ma legato
alla famiglia degli Orseolo per la riconoscenza dei beneficii ricevuti,
per la necessità de' suoi studi, per l'impossibilità di mantenersi
da sè, o di tornare nell'isolamento della rustica famiglia, egli
si lasciava andare per la china delle contratte abitudini, e viveva
all'ombra dei suoi protettori che amavano i suoi capricci, e gustavano
i paradossi del suo spirito, come fuochi d'artificio che svegliano
dall'assopimento, come il certo preludio d'un futuro grand'uomo.
Cosicchè le sue stranezze divertivano quei nobili signori, superbi
d'aver pescato ne' bassi fondi sociali un originale che poteva un
giorno far dire ai Veneziani: — La nobile famiglia degli Orseolo
protegge le arti! —
Rosa giudicando che i nobili e i signori venivano al mondo per far
niente, ringraziava la divina provvidenza d'aver collocato suo figlio
nella vera posizione che gli poteva convenire, essendo troppo molle di
fibra per sostenere l'aratro e i duri lavori della terra. Non è a dirsi
se quella tenera madre fosse felice vedendo il suo prediletto diventato
un lustrissimo; essa attribuiva quella sorte fortunata alla mistica
influenza delle candeline offerte alla Madonna della neve di Saltore,
alla quale porgeva continui voti, e indirizzava devoti rosari, per
ottenere al figlio più dilicato una facile esistenza come domestico o
poeta in una casa signorile, ciò che per la buona donna sembrava ad un
di presso la stessa cosa.
Nei mesi della villeggiatura Vittore visitava spesso i parenti, portava
qualche dono a sua madre e ai fratelli, e rifaceva solitario i passeggi
dell'infanzia. In quelle dolci solitudini tutto parlava al suo cuore;
l'aria emanava un profumo speciale, il mormorio dell'acqua aveva dei
significati reconditi ed eloquenti, lo stormire delle frondi era un
linguaggio inteso dalla sua anima, avvezza a conversare colla natura.
Coricato sotto le antiche piante che avevano consolata la sua infanzia
colle loro ombre, egli contemplava estatico le scene tranquille dei
campi, il pascolo dei buoi sul prato vicino, i progressi dell'edera
sugli avanzi della torre, le tinte rosseggianti della vite che faceva
cornice alla scala, il bacio dei colombi che da padre in figlio
ereditavano i nidi dei loro antenati.
Quante meditazioni in quella mente! quanti raffronti fra la semplicità
e il silenzio di quei campi, e il lusso romoroso di Venezia; fra la
vita primitiva e innocente de' suoi parenti, e le raffinatezze e la
corruzione d'una nobiltà decrepita; fra l'ignoranza delle classi rurali
e la scienza degli uomini illustri.
Chi più felice?... Arduo problema! Che cosa è la gloria? Chiedetelo
a Tiziano nella sua tomba. La vita e la morte saranno sempre i grandi
misteri!
Qualche volta sulla sera, quando stava per rientrare al palazzo,
scontrava per via la comitiva dei nobili villeggianti, e si univa con
loro per accompagnarli nel passeggio vespertino.
La nobildonna Fulvia camminava maestosamente in mezzo a' suoi cavalieri
serventi. Il nobile Partecipazio, discendente degli antichi dogi, era
onusto di scialli, di ombrellini e di ventagli, pronto a soddisfare
i bisogni della dama, a coprirla, a scoprirla, a ricoprirla secondo
gl'influssi della luna, e i capricci di zeffiro. Don Lio portava fra
le sue braccia la cagnolina Tisbe che ringhiava all'approssimarsi dei
profani, e sembrava riconoscente alle cure del poeta, che la celebrava
ne' suoi versi. Seguiva un codazzo d'ospiti, di nobili vicini, coi
figli e il marito. Il conte Orseolo corteggiava le dame, i cui mariti
corteggiavano le amiche delle mogli, essendo suprema legge del codice
elegante d'allora il cedere i propri diritti, l'invadere il terreno
degli altri. Il giovane Alvise provava le prime armi con una briosa
villeggiante di Lancenigo, che aveva dieci anni più di lui, molto
opportuni per le lezioni d'esperienza, che servono di guida agli
inesperti. Silvia restava indietro cogli invalidi, e i pensionati
del regno di Cupido, o si univa con Vittore quando faceva parte del
seguito.


XV.

Silvia, come tutte le ragazze della sua età, era un prodotto misto
della natura e della educazione. La natura l'aveva dotata di una
bellezza delicata, di forme snelle, di biondi capelli, d'occhi azzurri
e profondi, come le acque del mare, dal quale la sua famiglia aveva in
origine attinte le glorie e le ricchezze. La mente ed il cuore erano
l'opera delle istituzioni claustrali, nelle quali era stata allevata,
sotto la direzione d'una zia paterna, suor Maria Serafina, divenuta
monaca secondo gli usi del tempo, per conservare intatto l'avito
retaggio al fratello primogenito. L'affetto della zia alleviava alla
educanda le fatiche dello studio e le aumentava la porzione delle
ciambelle, che si distribuivano nei giorni solenni. La buona monaca
aveva consigliato la fanciulla a preferire il maritaggio imposto dai
parenti, alle eterne noie del chiostro. Negli anni d'istruzione essa
aveva assorbite tutte le superstizioni e tutti i pregiudizi del suo
tempo, ed aveva ignorato completamente le realtà della vita. Essa
usciva dunque nel mondo fidanzata al conte Leoni, prima che il suo
cuore avesse parlato, ed arrivava nella società, come i naviganti nelle
terre scoperte, cioè in paese ignoto, fra costumi bizzarri, colle idee
d'un altro mondo.
Ma gli uomini coraggiosi che intraprendono delle spedizioni per
scoprire nuove terre sono già avvezzi alle fortune di mare, esperti
nella nautica, accompagnati da arditi marinai, provveduti di armi e
munizioni. La povera fanciulla veleggiava sola per mari ignoti, non
coadiuvata dalla scienza, inesperta degli scogli nascosti sotto le
onde, e senza pilota.
In quei tempi le madri erano troppo occupate per potersi dedicare
all'educazione delle figlie. La mattina era tutta impiegata davanti la
sapiente tavoletta, segreto laboratorio dei donneschi artificii, ove la
crema d'alabastro e il rosso di serkis, componevano il roseo incarnato
delle guancie; il bianco di Sultana, il latte di cocomero, o l'acqua
d'Ispahan, servivano a nascondere le rughe, un neo ben collocato
attirava gli sguardi degli ammiratori, e metteva al bersaglio un occhio
languidetto, o una bocca lusinghiera. Poi l'acconciatura del capo
esigeva lunghe cure, ed esperte mani per sollevare i capelli ad altezze
meravigliose, sostenerli al loro posto, fissarli colla pomata circassa,
rivolgerli col ferro caldo, imbiancarli colla cipria.
Più tardi venivano le visite, le adorazioni dei cicisbei, il pranzo, il
teatro, il ballo; e in mezzo a tante brighe bisognava pure soddisfare
alle convenienze sociali, concedere qualche istante al riposo, qualche
abboccamento segreto, appagare il gusto del cavaliere servente,
riconoscere i suoi diritti, e qualche volta transigere colle esigenze
del marito.
È dunque evidente che i figli erano veri imbarazzi, importuni
testimoni, pericolosi confronti, certificati autentici dell'età
approssimativa dei genitori. Perciò la gentildonna Fulvia teneva sua
figlia a rispettosa distanza, limitandosi a raccomandarle la massima
semplicità nelle vesti, e un contegno riservato. Ma la giovanile
freschezza suppliva ad ogni ornamento, e una modesta gonnella, un
bruno zendaletto, una rosa sui biondi capelli, bastavano a farne una
deliziosa creatura. Silvia dunque viveva nell'isolamento, quantunque si
trovasse fra numerose persone, e si concentrava in sè stessa cercando
d'indovinare i misteri della vita, osservando ogni cosa, studiando e
meditando gli usi, le abitudini, gli individui. Guidata dall'istinto,
coadiuvata dalle circostanze, essa andava modificando le sue idee, e
arricchendo la sua mente di quelle cognizioni che il convento le aveva
nascoste, e che pure le sembravano necessarie per sapersi regolare
nel cammino della vita. I passeggi solitari in giardino erano il suo
principale diletto, l'innocenza ama la natura, le fanciulle amano i
fiori, gli alberi, il cielo aperto dei campi. Pensava al suo futuro
matrimonio col conte Leoni che avea veduto due volte nel parlatorio del
convento, il giorno della presentazione, e il giorno che venne fissato
il matrimonio. Il fidanzato dopo d'aver baciato la mano rispettosamente
alla promessa sposa, in presenza dei genitori e della badessa, era
ripartito per un paese lontano ove rappresentava la repubblica, dopo
d'aver convenuto che il matrimonio avrebbe luogo al termine della sua
missione diplomatica.
La fanciulla studiava i rapporti conjugali dall'esempio dei parenti,
e giudicava naturalmente che nella famiglia il marito è un essere
secondario che dà poca noia alla moglie, e richiamando alla memoria i
lineamenti del futuro suo sposo, trovava che per un semplice marito
non c'era troppo male. L'affare più grave le sembrava la scelta del
cavaliere servente; l'importanza della carica era evidente a' suoi
occhi, il marito, essa diceva fra sè, non sta insieme alla moglie
che le brevi ore della notte, quando si smorza il lume e si dorme,
ma il cavalier servente è il compagno inseparabile, l'ombra del
corpo. Se fosse una persona noiosa come Don Lio, o affettata come il
nobile Partecipazio!... Povera mamma, essa pensava, come deve pesarle
l'obbligo sociale che la tiene incatenata a un tal uomo, quanto sarebbe
stato meglio per lei se il papà fosse stato il suo cavaliere servente,
e Partecipazio suo marito!... Come si fa a trovare il cavaliere
servente? ho sempre udito dire che la scelta appartiene alla sposa.
Guai se anche questo mi venisse consegnato dai parenti, mi darebbero
certo il conte Mocenigo, un ganimede che tabacca; o l'Ambasciatore
Daniele Dolfin Savio del Consiglio, cavaliere della Stola d'oro,
noioso come le cerimonie, o il grave inquisitore Grimani che fa
paura a guardarlo, o il vecchio Senatore Foscari colla sua parrucca
per traverso!... Sarebbe meglio Ermolao Tiepolo, se non camminasse
saltellando, o Alvise Pisani se non fosse tanto languido, o Lodovico
Manin se si mostrasse meno timido e sospettoso... Oh! infatti è un
affar serio, e non vedo l'uomo secondo le mie idee.... Mi piacerebbe un
carattere franco, disinvolto, coraggioso senza burbanza, e poi di bella
presenza, buono, dolce, che odiasse il tresette, l'odore d'ambra, e il
tabacco di Spagna.... ove trovarlo?...
Mentre la fanciulla passeggiava con queste idee per la testa, vide da
lontano Valdrigo, e si mise a chiamarlo con tutta la forza della sua
You have read 1 text from Italian literature.
Next - Il dolce far niente: Scene della vita veneziana del secolo passato - 04