Il dolce far niente: Scene della vita veneziana del secolo passato - 08

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rimorso del tempo perduto fra le passioni dell'amore e della politica.
L'inerzia arrossiva davanti al lavoro. Partiti entrambi da uno stesso
punto, con eguali attitudini, uno aveva proseguito il cammino con
perseverante costanza, superando con coraggio gli ostacoli, l'altro
s'era arrestato ad ogni scabrosità del terreno.
Scambiate le prime espansioni, lo scultore cercò un punto opportuno
per contemplare il quadro dei pescatori, e il pittore movendo il
cavalletto verso la luce si poneva da un lato, studiando l'espressione
della fisonomia dell'amico, ed aspettando trepidante il suo imparziale
giudizio.
Canova collocato a qualche distanza fissava attentamente quella tela,
ora concentrando la luce con le mani raccolte intorno agli occhi,
ora retrocedendo d'un passo, mettendosi in fianco per giudicare
un effetto, o avanzandosi per osservare da vicino alcuni tocchi di
pennello; esaminò attentamente ogni singola figura, ogni accessorio,
il prossimo terreno e l'orizzonte lontano, e poi raccogliendo i vari
gruppi in uno sguardo sommario, per vedere se l'armonia delle varie
parti corrispondesse all'insieme, studiò l'effetto generale del quadro,
e colla testa alta e gli occhi semichiusi stette lungamente immobile e
muto a guardarlo.
Finalmente cessando tutto a un tratto dall'esame coscienzioso e severo,
si slanciò al collo dell'amico, e baciandolo in volto con affettuosa e
sincera affezione gli disse: — Vittore, il tuo quadro è un capolavoro.
Prendi i pennelli e compi l'opera, e fra pochi giorni il tuo nome
sonerà con elogio in Venezia, e tu sarai stimato nuovo decoro alle
arti.
Valdrigo piangeva, e confessava ingenuamente i suoi slanci sublimi e
le lotte colle tetre nubi della vita che gli oscuravano gli orizzonti
sereni dell'arte, e il continuo ondeggiare fra i lampi delle sue
ispirazioni, e le tenebre d'una molle apatia la quale spegneva a
poco a poco il sacro fuoco del genio che si sentiva ardere in cuore
ed affraliva la sua volontà con una colpevole accidia che lo rendeva
inetto al lavoro.
Allora Canova confortava di nobili consigli quell'anima addolorata,
e gli ripeteva le massime che guidarono la sua gloriosa carriera
e che vennero scrupolosamente raccolte e conservate da Antonio
d'Este suo intimo amico, e da Melchiorre Missirini suo ammiratore
e biografo, e che noi riportiamo testualmente ad onore del nostro
grande concittadino, e per guida dei giovani artisti che vogliono
seguire le sue traccie immortali. — «Il decoro e la grandezza del nome
d'Italia debbono sempre starci fissi nella mente. Gl'Italiani sono
stati destinati dalla provvidenza a condurre a fine ogni gran cosa.
Essi fanno uscire nella luce del mondo capolavori d'ogni maniera, e
si acquistano il merito di essere a tutti insegnatori e maestri per
solo spontaneo irresistibile impulso del loro genio, recato a creare
grandi cose senza emulazione, senza premio e molte volte senza lode,
anzi per mezzo tutti gli ostacoli e le contrarietà delle opposizioni
dei governi, e delle censure fra loro medesimi, e fra le allettatrici
distrazioni di un cielo mite e di un'aria benigna che ne consiglia e
sospinge alle ricreazioni e ai diporti...»
«Compiango quei giovani che credono poter comporre piaceri d'ogni
maniera coll'arte. L'arte sola deve stare in cima al pensiero
dell'artista, e per essa vivere e volgere in essa ogni sua cura. Non
devesi sviare l'intelletto nè abbattere il corpo.»
«Chi è stanco della musica, della veglia e del ballo, del passeggio,
della cena, come mai di buon mattino potrà recarsi allo studio
per lavorarvi con quell'ardore che vi bisogna? Quindi si diviene
neghittosi, e all'ignavia vien dietro la noncuranza della gloria e
l'appagarsi della mediocrità. La vita dell'artista debbe essere un
continuo studio, non v'ha cosa più preziosa del tempo. Il grande
artista deve pensare a vivere più nel futuro che nel presente...»[10].
Queste gravi e solenni parole colpirono profondamente il cuore commosso
di Valdrigo, che promise di mettersi con fermezza a terminare il suo
quadro, seguendo i consigli dell'amico, che lo assicurava delle supreme
consolazioni del lavoro, come farmaco infallibile che risana ogni
dolore dell'anima, e consola il cammino della vita.
In mezzo a questi propositi si separarono, fra le scambievoli
dimostrazioni di amicizia e di stima, e Canova parti per Possagno.


XXVII.

La gloria ha le sue sublimi soddisfazioni, ma non va esente da penosi
supplizi.
La grande modestia di Canova lo esponeva sovente alla tortura della
pubblica ammirazione, e il suo viaggetto a Possagno costò molte pene
all'illustre scultore. Egli s'era proposto di giungere tranquillo al
suo paesello, contemplando per via quei bei colli che gli rammentavano
i giorni sereni dell'infanzia, e il pensiero di gustare in pace quel
silenzio e quella solitudine era un grande conforto al suo cuore.
Vane illusioni! I bravi possagnesi volevano onorare il loro esimio
concittadino divenuto famoso in Europa. Canova giunto a Bassano in
compagnia del suo amico Antonio D'Este, trovò il Senatore Rezzonico
che lo aspettava per onorarlo con sontuose accoglienze. Le cerimonie
incominciavano a intorbidare la gioja del viaggio. A Crespano
sboccavano da tutte le vie i curiosi che accorrevano a vederlo. Colà
scese di vettura per montare a cavallo, le strade essendo impraticabili
ai ruotabili, e poco dopo s'incontrò con un drappello di giovani suoi
compatrioti che venivano a riceverlo, e fargli scorta d'onore. — Addio,
solitudine! — Erano una quarantina sopra cavalli adorni di alloro,
ed avevano il capo incoronato di fiori. Canova voleva sollevarli
dall'incomodo, ma il suo amico D'Este gli mostrava l'impossibilità di
calmare il loro entusiasmo. Bisognò dunque galoppare di conserva fra
la brigata trionfale, e giunti al confine del territorio di Crespano,
dopo il quale s'entra nel comune di Possagno, trovarono «la strada
coperta di lauro, di mirto e di fiori; e ai lati della medesima, un
folto popolo d'ambo i sessi, che con rami di lauro, battendo le palme
gridavano: _Viva il Canova.... Viva il patriotta_[11].»
A misura che avanzavano crescevano gli applausi e la folla, e giunti
finalmente al paese il popolo accorso era immenso, e il frastuono degli
evviva, e dei trasporti di allegrezza si confondeva col suono festivo
delle campane, colle allegre musiche, e lo scoppio dei mortaretti! —
Addio, silenzio!
Arrivati sulla Piazza i rappresentanti del Comune e del Clero si
fecero innanzi con grave incesso ad ossequiare la vittima della gloria,
che in quel momento avrebbe pagato la più bella delle sue statue per
trovarsi sulla cima inaccessibile della più alla montagna del globo.
Ma le patrie onoranze non erano finite, e fu costretto di subire un
discorso «commoventissimo, e molte poetiche composizioni in vari metri
che terminarono con un sonetto di Marco Bastasini in dialetto del
paese»[12].
Non mancava altro!... ma l'eco di quella festosa e cordiale accoglienza
risuonava ancora molti anni dopo la sua morte nelle pagine d'Antonio
D'Este che ne faceva un grottesco racconto[13].
Rimase due settimane a Possagno, invocando invano la pace e il
riposo. I conviti succedevano ai conviti, i versi piovevano sui
lauti banchetti, e i soliti numi dell'Olimpo scendevano dagli Elisi
ad onorare l'artista. Il ritorno attraverso l'Italia venne parimenti
onorato da continui trionfi, che pesavano a Canova, il quale lamentava
il tempo perduto e i lavori sospesi.
Ritornato finalmente in mezzo ai prediletti studi di Roma, il suo genio
riprese il volo sublime nelle regioni supreme dell'arte, e diede vita a
nuove e immortali creazioni.


XXVIII.

Un alito del genio alacre di Canova, aveva dato l'impulso al genio
inerte di Valdrigo. Ripreso il lavoro, e richiamati i modelli, non
deponeva la tavolozza che poche ore, per cibarsi o dormire, non usciva
più di casa e pareva dominato da uno spirito creatore che sostenesse
le sue forze. Serio, concentrato, intento a trattare i pennelli con
un'attenzione sostenuta, pareva isolato dal mondo, e reso insensibile
ad ogni impressione che non avesse un'influenza diretta al suo scopo.
Maddalena raggiante di gioja gli stava di rimpetto silenziosa per non
turbare quel sublime raccoglimento, e mentre egli dava gli ultimi
tocchi alla tela, essa ammirava sul volto del pittore le traccie
d'un'anima soddisfatta dalla coscienza del proprio valore.
Un giorno aveva radunato nella stanza tutti i modelli che collocati
nella rispettiva posizione presentavano l'aspetto generale del quadro;
tutto ad un tratto Valdrigo saltando in piedi sullo scanno sul quale
stava seduto gettò in aria la tavolozza e i pennelli e gridò — basta!
A tal grido, Maddalena che conosceva le ubbie del pittore divenne
pallida pallida, e stava certo per cadere svenuta dal dolore d'un nuovo
capriccio del bizzarro suo ospite, quando egli soggiunse: — basta, ho
finito!
Un profondo sospiro sollevò il cuore oppresso della povera fanciulla,
ed una lagrima di gioja le bagnava le guancie, mentre le sue labbra si
atteggiavano al più soave sorriso.
I pescatori circondavano il quadro, guardandosi ed ammirandosi
riprodotti sulla tela, e lodando il pittore che sempre in piedi sullo
scanno dominava le loro teste e rideva allegramente delle ingenue
osservazioni, e degli applausi sollevati dal più sincero entusiasmo.
Poi saltando sul pavimento li baciava tutti dalla gioja incominciando
dalla nonna Marta, e terminando colla Maddalena, la quale al tocco di
quelle labbra sentì una burrasca interna e il capogiro, ma egli come
al solito non avvedendosi di nulla, stava vuotando le sue tasche sul
tavolo, dalle quali uscivano gli ultimi ducati, una bella giustina
d'argento, un'osella cogli orli frastagliati e alcuni traeri anneriti e
consunti, e invitando Beppo a raccogliere questo suo fondo di cassa gli
diceva:
— Invito tutti a pranzo, va a provvedere i bocconi più ghiotti, i vini
più morelli, evviva l'arte e l'allegria!... — Evviva Evviva! ripetevano
i convitati fra gli applausi universali, e le risa sgangherate che
facevano tremare le pareti; e tutti se ne andarono lieti e contenti
aspettando l'ora del banchetto; il quale non è a dirsi se fu allegro e
clamoroso. Basti il sapere che tutti erano soddisfatti, e il vino buono
e abbondante.
Quando la tela fu asciutta, Valdrigo vi distese sopra una bella mano di
vernice che fece risortire le velature, e le luci, ed avendo trovato da
un intagliatore una magnifica cornice dorata, potè ottenerla a credito
colla promessa di pagarla dopo venduto il dipinto, che collocato al suo
posto produceva un effetto veramente meraviglioso.
Pochi giorni dopo, il quadro colla sua cornice figurava al balcone
d'una delle più belle botteghe di Piazza San Marco, con sotto il
nome di Vittore Valdrigo, e attirava da ogni parte i curiosi, che si
affollavano per contemplarlo e applaudirlo.
Il pittore penetrava spesso fra la gente, e s'inebbriava del trionfo,
maledicendo gli anni sprecati a far nulla. Maddalena volle vedere il
quadro esposto al pubblico, v'andò in segreto con una amica, godendo,
degli elogi fatti all'artista come d'un bene suo proprio, ma dovette
allontanarsi in fretta dagli sguardi delle persone che avevano subito
riconosciuto il modello principale, e gli scoccavano degli epigrammi un
po' troppo arguti e indiscreti.
Intanto il nome di Valdrigo si diffondeva per Venezia, e l'esposizione
del quadro era divenuta un piccolo avvenimento. La folla attirava la
folla, tutti volevano vedere l'opera della quale avevano uditi gli
elogi, gli artisti discutevano fra loro sui meriti del disegno e del
colorito, il popolo ammirava i suoi costumi nazionali riprodotti con
inusata verità, e i nobili nelle loro radunanze esaltando il talento di
Valdrigo, onoravano la loro classe che lo aveva tratto dalla oscurità,
e protetto nei primi passi dell'arte. E si diceva da per tutto: —
i nobili sono i benefattori degli artisti, i Falier hanno sostenuto
Antonio Canova, gli Orseolo hanno assistito Vittore Valdrigo. — Il
museo Farsetti ha cooperato allo sviluppo di due geni che saranno nuova
gloria alla patria, i patrizi veneziani mostrarono sempre un amore
vivissimo alle arti belle, ne siano prova le chiese, i palazzi e le
gallerie che formano di Venezia una meraviglia del mondo.
Molli ricchi patrizi entrarono nella bottega per acquistare il dipinto,
il negoziante scriveva il loro nome e rispondeva: — Non so se il quadro
sia già venduto, in ogni modo farò noto al pittore il desiderio di
vostra eccellenza.
La lista degli aspiranti all'acquisto venne infatti presentata a
Valdrigo, il quale; percorrendola rapidamente, si arrestò tutto ad
un tratto davanti al nome del conte Alberto Leoni. Era evidente che
acquistando il primo lavoro di Valdrigo, il conte Leoni subiva una
influenza. Naturalmente gli Orseolo gli avevano lasciato ignorare la
scena del boschetto, e Don Lio celebrando nel suo Epitalamio il candore
della sposa, era convinto della necessità d'usare una tale licenza
poetica, ma ne sogghignava maliziosamente sottecchi.
Ma certo il nobile carattere di Silvia consigliando al marito
l'acquisto del quadro, intendeva soddisfare un dovere di giustizia,
dimostrando a Vittore che essa non era complice della calunnia che lo
aveva colpito. — Il sentimento delicato della donna riparava i torti
dell'altero casato, riabilitando l'onestà offesa ingiustamente, e
rendendo omaggio al genio derelitto che trionfava d'ogni ostacolo colla
sola forza del proprio valore.
Che se scrutando i più reconditi ripostigli di quel cuore generoso,
si avesse scoperto un istinto più intimo che animava i suoi nobili
impulsi, la purezza d'un tale sentimento non avrebbe punto offuscata la
virtù, nè scemato il pregio della Sua nobile condotta.
Valdrigo comprese il significato di quel nome, ne fu commosso nel
profondo del cuore, e ordinò che il quadro venisse subito portato in
casa del conte Leoni.
All'indomani il giovane pittore riceveva un bel gruppetto di zecchini
accompagnato da una lettera di elogi, che terminavano colla preghiera
al pittore, di volersi recare al palazzo Leoni per collocare egli
stesso il suo quadro nella luce più vantaggiosa.
Dopo lunghe meditazioni sulle sue nuove fortune, Vittore pensò a
sua madre, a' suoi ospiti, a sè stesso. Mandò a Saltore del denaro
e dei doni, fece un bel presente a Maddalena, e chiamato un sarto
che vestiva i più eleganti damerini di Venezia, gli commise un
vestito completo d'ultimo gusto, coi bottoni diamantati. Uno dei
millecinquecento parrucchieri[14] che in quell'epoca acconciavano le
teste dei veneziani, gli pettinò una zazzera incipriata da zerbinotto
vaporoso, un calzolajo rinomato gli calzò un pajo di scarpini colle
fibbie, un cappellajo gli fornì una leggiadra schiaccina da tenere
sotto il braccio, ed ecco in pochi giorni un uomo rifatto e degno della
più eletta società. Alcuni suoi conoscenti, che pochi giorni prima
scontrandolo per via lo salutavano appena, vedendolo in così splendido
arnese gli facevano delle profonde riverenze, e i suoi fornitori
che dapprima lo tormentavano per un minimo credito, gli andavano
poi incontro per offrirgli del denaro. Così va il mondo! malgrado il
proverbio che l'abito non fa il monaco.
Trovatosi in tutto punto, Valdrigo accorse trepidante al palazzo Leoni.
Nel salire le ampie scale gli vacillavano le ginocchia per modo che
dovette arrestarsi alquanto a prender lena. Il cuore gli palpitava con
violenza e gli battevano i polsi al punto da offuscargli la vista. Un
servo lo condusse dall'entrata all'anticamera, era un vecchio cameriere
in gran livrea gallonata, gli si fece incontro con un profondo
inchino, e chiestogli il nome gli aperse l'uscio della stanza vicina,
annunziando:
— L'illustrissimo signor Vittore Valdrigo.
Vittore si avanzò lentamente, il cameriere chiuse l'uscio. Un
soavissimo profumo dominava la tiepida atmosfera, debolmente
rischiarata da una luce rosea, trapelante attraverso pesanti
cortinaggi. Nel fondo della stanza, Silvia stava seduta in un ampio
seggiolone e leggeva. Il libro le cadde dalle mani, mentre Valdrigo
rispettoso s'inchinava e con voce tremante balbettava un complimento.
Essa con un cenno della mano lo invitava a sedere, quando aprendosi
una porta, entrò il conte Leoni. Silvia presentò il pittore al marito,
il quale fattosegli incontro col tratto d'un gentiluomo avvezzo alle
maniere di Corte, animò la timida esitazione del giovane colla più
benevola accoglienza, e lo colmò d'elogi e d'incoraggianti promesse.
Dopo breve conversazione lo condusse a visitare la galleria, ove
Valdrigo collocò il suo dipinto; e invitandolo a pranzo per un altro
giorno, lo accompagnò fino alla porla della scala, ove prese congedo
con un cortese complimento.
Il giorno del pranzo si trovò in un'ampia sala in mezzo alla più
scelta nobiltà, fra la quale gli Orseolo, come lo avessero lasciato
amichevolmente il giorno prima, lo trattarono con famigliare cortesia,
e Don Lio che adorava sempre l'astro nascente, volle onorare il pittore
riabilitato, con un sonetto, nel quale chiamava Valdrigo figlio di
Minerva, e lo invitava a salire sul Pegaso per recarsi in Elicona a
visitare Apollo e le Muse. Valdrigo lo ringraziava colle labbra, ma col
cuore lo mandava al diavolo co' suoi sonetti granelleschi e mitologici.
Ritornava spesso al palazzo colla speranza d'incontrarsi solo con
Silvia, ma la trovava sempre circondata dalle visite o dai parenti;
fosse il caso o un progetto meditato, questo poi era un mistero.
Maddalena sapeva molte cose dallo stesso Valdrigo ed altre ne
indovinava, e fremeva. Ma con quale diritto sarebbesi ella opposta
alle visite del pittore in casa Leoni?... Chiudeva dunque in seno il
dispetto e la gelosia e sperava che la condizione elevata di Silvia
l'avrebbe tenuta sempre lontana dall'intimità del pittore, il quale
stanco delle vane aspirazioni e umiliato dal disinganno, avrebbe
finalmente aperti gli occhi e trovato nella sua condizione una creatura
degna di lui, ambiziosa del suo affetto, che ad altro non aspirava che
a renderlo felice e beato coi trasporti dell'amore, colle gioje della
famiglia.
Ma ben altre speranze alimentava l'amore di Valdrigo, irritato dagli
ostacoli superati, acceso dalle nuove probabilità, fomentato dalle
frequenti visite, nelle quali i suoi occhi incontrandosi con quelli di
Silvia si scambiavano delle ferite invano dissimulate da lei, sotto
un aspetto di affettata indifferenza. Per aumentare le occasioni di
vederla, Valdrigo s'era dato intieramente alla vita della migliore
società, e si faceva presentare nelle case frequentate dalla famiglia
Leoni, e fra le altre ebbe la somma fortuna di conoscere e di
apprezzare la più distinta riunione di quei tempi, la conversazione
d'Elisabetta Marini.


XXIX.

Elisabetta Teotocchi-Marini, che fu poi Isabella Albrizzi, donna di
sangue e di bellezza greca, veneziana d'indole e di spirito, accoglieva
a circolo in sua casa un'eletta società. Le sue conversazioni di
Venezia possono compararsi ai celebrali ritrovi del famoso palazzo
Rambouillet di Parigi. Isabella Albrizzi ebbe molte rassomiglianze
colla illustre marchese, la quale, scrive Tallement de Reaux[15], fu
«bella, saggia e ragionevole.» D'Isabella scrive Ippolito Pindemonte
«saggia, bella, amabil donna, di caldo cuore e d'ingegno felice.» Un
francese[16] asserisce che la Marchesa fu «ammirabile, buona, dolce,
benefica, cortese e aveva lo spirito giusto e retto.» Un italiano[17]
assicura che Isabella aveva «l'animo benefico, e che l'avvenenza della
sua persona andava di pari passo colla coltura e colle grazie dello
spirito.»
Madama di Rambouillet, amava passionatamente gli uomini di spirito[18];
però nulla d'importante lasciò scritto; l'Albrizzi circondata sempre
dagli uomini più dotti e più stimati della sua epoca, si occupò
di letteratura nazionale e straniera, e pubblicò alcuni scritti
d'immaginazione e di critica assai stimati al suo tempo. Lord Byron
la proclamò la Staël di Venezia[19]. Dobbiamo poi osservare per onore
d'Italia, che la famosa marchesa di Rambouillet, della cui grazia
e cortesia tanto scrissero i francesi, fu di puro sangue italiano,
essendo stato suo padre Vivone Pisani, e sua madre una Savelli[20].
E quivi gioverà rilevare una cosa, fino ad ora poco o nulla rimarcata,
ed è che la tanto celebrata pulitezza dei francesi, l'eleganza,
la cortesia delle loro maniere, che pure gode ancora l'ammirazione
del mondo, essi l'ebbero, come molte altre cose, in retaggio dagli
italiani, e di questo ne conviene il celebre Vittore Cousin, il quale
dichiara che la pulitezza e la leggiadria dei costumi furono apportate
in Francia da Caterina de' Medici[21].
Alle barbare guerre civili, alla licenza dei costumi dei tempi di
Enrico IV succedette in Francia il gusto delle cose di spirito, dei
piaceri delicati e delle occupazioni eleganti. Il potente Richelieu
coltivò questo fiore rinascente delle belle lettere e dei gentili
costumi, e nel palazzo Rambouillet, giunse al sommo splendore ed alla
massima fragranza. Nella splendida sala azzurra[22] si radunavano
le persone più distinte per il bel garbo, lo spirito e la coltura, e
vi venivano accolti con pari cortesia i principi e le principesse di
sangue reale, ed i modesti letterati.
A Venezia la conversazione d'Isabella si componeva di quanto di più
illustre potevano vantare il patriziato, le scienze, le lettere, le
arti belle. La sua stanza di ricevimento era un Areopago, nel quale
sedevano a giudici e dettavano leggi non solo quanti di più famosi
vantava l'Italia, ma l'Europa.
La società del palazzo Rambouillet, giunta al sommo della grazia, cadde
nell'affettato e meritossi la sferza di Molière che colpì senza pietà
le _Preziose ridicole_. Le conversazioni dell'Albrizzi si mantennero
senza degenerare fino alla morte d'Isabella, e in mezzo agli stravizi
d'una vergognosa decadenza, furono come un'oasi di sociale urbanità e
di gentili costumi. Goldoni non trovò argomenti che si prestassero al
ridicolo nelle elette adunanze di Venezia, e dovette scendere fra il
basso popolo per iscoprire le _Donne curiose_.
Sul finire del secolo scorso le conversazioni della nobildonna
Elisabetta Marini brillavano di vivacissima luce. L'emigrazione
francese accolta cortesemente dall'ospitalità veneziana, vi univa lo
spirito di Parigi al brio garbato di Venezia.
Vispi e bizzarri caratteri forestieri, accanto di garbati e dotti
italiani formavano un circolo originale, animatissimo. La saggia
Isabella «tutta amore e indulgenza per tutti»[23], colle maniere
cortesi e la geniale sua voce, dominava quegli spiriti diversi,
trovava per ciascuno una parola gentile, frenava i troppo audaci con
uno sguardo pietoso, animava i timidi con una lode incoraggiante,
ed eccitava lo spirito di tutti con un baleno degli occhi bruni e
scintillanti.
I celebri Maury e Lally Tollendal sfogavano le loro collere contro
la rivoluzione francese, mentre un giovane visconte rovinato dalla
confisca, cercava di consolare le noje dell'esiglio facendo la corte
alle gentildonne di Venezia, colla speranza che il prestigio delle sue
sventure politiche lo attirasse nella via delle buone fortune galanti.
Ma la sua ignoranza della lingua italiana e dei costumi veneziani, lo
rendeva un personaggio ridicolo, e l'Isabella con prudenti consigli lo
compensava dei disinganni d'amore.
Crussol e Polignac consolavano colle loro promesse di prossime
vittorie la elegante marchesa De Groslier, amica calunniata della
regina Maria-Antonietta, cantata da Voltaire, il quale conquiso dallo
spirito di lei, le offerse di appropriarsi quell'oggetto della sua
dimora di Ferney, che meglio le piacesse, ed essa scelse e conservò
la penna dell'illustre filosofo. Era poetessa ammirata in Francia e
pittrice distinta, Canova la chiamò il Raffaello dei fiori. Sedeva fra
i suoi compatriotti il marchese di Maisonfort, vero tipo dell'emigrato
francese, dice Valéry, per la sua indolenza, per la leggerezza dei
costumi, e l'Isabella colla sua naturale benevolenza lo giudicava «un
francese di Luigi XIV, per la preziosa gentilezza ed urbanità, per la
vivezza e la rapidità delle idee, dotto senza intolleranza, ingegnoso
senza artifizio, fornito di squisitissimo gusto; pel cui animo
affettuosissimo, era vera morte l'indifferenza, vita l'amore»[24].
Rimarchevole fra gli originali era D'Hancarville «con parrucca in testa
per forma e per colore bizzarra, con tabarro rovescio indosso e tutto
cadente da un lato, con curva schiena e passo frettoloso....»[25]
Ignorava il suo secolo, e viveva nel passato che conosceva a
meraviglia. Prodigo ed affabile nella goduta opulenza, era sobrio ed
altero nella povertà. Antiquario, pubblicò opere erudite; sibarita
diede alla luce un libro osceno.
Il commendatore di Châteauneuf, costantemente distratto da sembrare
stupido, era invece dotto e studioso. Avido di lodi, queste non
gli sembravano mai esagerate. Spingeva la sua mania di declamare la
tragedia fino a rendersi ridicolo. Un giorno sorpreso a gesticolare fra
due porte, gli fu chiesto se si sentisse male: — non è niente, rispose,
mi agito per ispirarmi.
Il cavaliere Vivante-Denon, gentiluomo ordinario di camera di Luigi
XV e Luigi XVI, perseguitato come aristocratico in Francia, emigrò
a Venezia ove venne perseguitato come giacobino[26]. Diplomatico,
artista, letterato «ameno e felice parlatore sempre vero e naturale»
l'Isabella comparandolo a Voltaire al quale rassomigliava, trovava
comune ai due francesi «lo spirito, la vivacità, il movimento e quel
non so che di malizioso nello sguardo che tanto si teme e che pur tanto
piace[27].»
Ma lasciando nell'ombra i meno illustri stranieri, passiamo agli
italiani. Fra i primi apparisce la curiosa persona d'Ippolito
Pindemonte. Ora poeta «acceso d'estro Febeo» ora macchina di regolari
ed invariabili abitudini. Viaggiatore e misantropo, platonicamente
innamorato della saggia Isabella. «Non mai scompagnato da lieto e
soavissimo sorriso, il suo metodo di vita è così inalterabilmente
uniforme, che non si sa bene distinguere, dice l'Albrizzi[28], s'egli
siasi fatto schiavo del tempo, o se abbia reso il tempo schiavo di sè.»
Ascoltava attentamente un discorso interessante, ma sul più bello della
narrazione, udendo scoccare l'ora da lui preventivamente fissata alla
partenza, si levava ed usciva, abbandonando ad un tratto il narratore,
sbalordito ed offeso. La cortese Isabella lo scusava dicendo: — «Egli
va a dipingersi»[29], volendo dire che andava a scrivere i suoi versi,
dai quali traspariva chiaramente la sua indole mite e indolente. Reduce
da lunghi viaggi in Italia, Francia, Inghilterra e Germania, scrisse un
lungo carme per burlarsi dei viaggiatori, e persuadere la gente a non
uscire di casa propria. Egli ingenuamente confessa che «il desiderio
delle cose lontane, il tedio delle vicine e la vaghezza di raccontare
un dì sul patrio fiume le meraviglie viste, lo condusse fuori de' suoi
colli e gli fece varcare i monti nevosi. «Ahi! quale errore!...» egli
esclama, e faceva giuramento ai suoi colli romiti, alle brune foreste,
alle argentee fonti, di non più partire. Ardeva incendio di guerra
per tutto, l'Europa si destava dal lungo torpore, i popoli gridavano
all'armi! all'armi! ed egli ritiravasi «nelle valli segrete, nei
taciti boschi, fra i suoi riposi e gli ozii tranquilli, fra i buoni
agricoltori e l'innocente popolo degli augelletti e degli armenti, e in
compagnia delle celesti muse a vivere una vita secura, erma, pensosa,
e sparsa di pensieri melanconici»[30]. Però quando egli era in vena di
raccontare, rammentava le memorie delle sue peregrinazioni, il silenzio
dominava la sala, e tutti pendevano dal suo labbro gentile. Essendo
vissuto a Parigi famigliare all'Alfieri, egli narrava gli strani
capricci e gli slanci intemperanti del famoso Astigiano, e l'affabile
bontà della sua nobile amica Luisa Stolberg contessa d'Albany, che
gli raddolciva l'animo amareggiato e sapeva farsi amare teneramente da
quell'anima fiera. Il molle e verecondo Ippolito correggeva talvolta
gli scritti ardenti e robusti del tragico, il quale poi presentava il
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