Il dolce far niente: Scene della vita veneziana del secolo passato - 02

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dell'artefice traducendo la natura nel marmo sapeva cogliere in un
punto il vero ed il bello, e creare delle opere divine.
Ma il giovane modesto e rispettoso lavorava in silenzio, aspettando
il tempo opportuno per spiegare il libero e sublime suo volo verso più
puri orizzonti.
Il suo vecchio nonno, il Pasino, vendeva per cento ducati l'unico
poderetto di famiglia con lo scopo di mantenere un anno a Venezia il
nipote, e il nobile Falier raccomandava il giovanetto al nobiluomo
Farsetti, che con patrizio splendore, aveva raccolto nelle sale del
suo palazzo di Venezia i migliori modelli antichi di scultura, e ne
lasciava libero l'ingresso agli studiosi. Canova profittando di tale
libertà, passava delle lunghe ore fra quelle statue, che parevano
svelargli con muti cenni, da lui solo compresi, gli arcani dell'antica
arte di Fidia, da tanti secoli smarriti.
In quel tempo due vivissime fiamme ardevano nel cuore del giovinetto
scultore, l'amore e l'arte, e si giovavano a vicenda. Una vezzosa
montanina di Possagno che egli aveva un giorno incontrata ad una festa
del villaggio, lo aveva ferito con un lampo degli occhi.
Nella sua patria si vedevano sovente, e si pascevano di sospiri, di
silenzii e di sguardi.
Nobile amore che ricercando le fibre più riposte del cuore lo rendeva
capace di generosi sentimenti, e disponeva la sua mente a concepire
sublimi pensieri, e a comprendere per intuizione i misteri del bello.
Elisabetta Biagi, e le statue del palazzo Farsetti, ebbero per Canova
una eguale influenza nelle prime rivelazioni dell'arte. Dagli occhi
della Lisa egli ricevette la scintilla che accende l'anima, e apporta
la luce necessaria alla comprensione delle linee greche, che svelano la
suprema venustà della forma negli antichi modelli.
Quella vita di studio e di affetto rendeva l'artista insensibile alle
seduzioni di Venezia.


VIII.

Nello studio del Torretti, e nelle sale Farsetti frequentava pure
Vittore Valdrigo, ma in altre condizioni di vita. Un casto affetto non
custodiva il suo cuore, e i lunghi ozii dell'infanzia lo avevano reso
inetto alle occupazioni laboriose.
Il suo spirito si evaporava in infiniti e chimerici progetti, i quali
poi si dileguavano al primo soffio di vento. Il suo ingegno versatile
lo spingeva ad abbracciare troppe cose, che abbandonava al primo
ostacolo, scoraggiato, avvilito.
La famiglia degli Orseolo lo teneva presso di sè. La munificenza
di quella casa gli largiva una pensione, e dandogli una stanza nel
palazzo, lo lasciava libero di seguire i suoi studi, e gli schiudeva
gli aditi alla vita di Venezia, alle distrazioni, agli stravizi, e
la imperiosa voce della necessità non batteva mai alla sua porta per
eccitarlo ad affrettare il lavoro.
Ciò nonostante, la feconda natura del suo ingegno lo rendeva atto ad
ogni cosa.
Disegnava con grazia e maestria, ed incominciava a dipingere con
franchezza e con forza. I suoi pennelli scorrevano sulla tela colla
arditezza d'un artista provetto, e la sua tavolozza s'impastava coi
colori della famosa scuola veneziana. Con poche linee segnate con
rimarchevole talento egli tracciava un somigliante ritratto, con pochi
tocchi di pennello lo dotava di anima e di vita.
Amante passionato della musica, aveva imparato a suonare il violino, e
lo maneggiava con destrezza e con passione, ma piuttosto per natura che
per arte, non avendo la pazienza di attendere a lunghi e severi studi,
e così mancante della istruzione necessaria per suonare un pezzo di
musica completo, egli abbandonava il suo arco sulle corde in traccia
di scucite e vaghe fantasie, di modulazioni capricciose e improvvise.
Leggeva rapidamente ogni volume che gli cadesse fra le mani, e passava
le intiere notti intorno alla lettura d'un libro che consonasse col suo
cuore, o dilettasse il suo spirito. Ogni libro grave o noioso gettava
con disprezzo, e condannava con inappellabile giudizio.
Egli sapeva a mente i più bei versi dei migliori poeti, e li declamava
con maschia energia, e con intelligente espressione. La sua infanzia
quasi selvaggia lo aveva reso indipendente dall'influenza del gusto
corrotto del giorno, ed aveva predisposto il suo cure al sentimento
della natura e del vero, cosicchè egli sentiva tutto il falso della
poesia dominante, e ne parlava con ironia e con disprezzo. E sovente
improvvisava dei versi e delle strofe ispirate che si perdeano per
l'aria, e non lasciavano che una dolce e confusa rimembranza a' suoi
amici che lo eccitavano invano a scrivere ed a pubblicare le sue
poesie.
Ma ogni suo lavoro rimaneva incompleto, non perchè gli mancasse
l'ingegno per compierlo, ma per colpevole indolenza. Le sue
ispirazioni, i suoi slanci erano fantasie passeggiere. Ad un tratto
il suo volto s'irraggiava d'un'estasi sublime, i suoi muscoli si
agitavano, i suoi occhi vibravano lampi di luce. Allora la sua mente
cercava splendide immagini, e nuovi concetti, le sue labbra proferivano
parole strane e concitate, se prendeva la matita tracciava lo schizzo
d'un quadro, che rivelava un pensiero stupendo, o se afferrava il
violino ne traeva delle note soavi, dei sospiri armoniosi, degli
accenti melodiosi che rapivano i sensi. Gli astanti rimanevano
stupefatti e commossi, ed egli si arrestava come il viandante spossato
dopo l'erta salita d'un monte, e si sedeva sfinito ed esausto.
In quei momenti d'esaltazione, quando gli si risvegliava nell'anima la
potenza creatrice, se egli avesse potuto disporre di tutte le ricchezze
del mondo, non avrebbero bastato a soddisfare gl'immensi capricci
del suo pensiero. Egli concepiva dei piani giganteschi di nuove città
meravigliose, e dava vita a nuovi mondi, a nuovi universi!... Ricaduto
nella calma trovava tutto superfluo nella vita, meno la pipa e il sofà
sul quale passava delle lunghe ore solitarie, mandando delle boccate
di fumo, e contemplando dalla aperta finestra una nuvola che passava, o
una stella che brillava nel cielo.
A' suoi amici che gli rimproveravano il vergognoso letargo egli
rispondeva: «Le delizie del dolce far niente sono un dono prezioso
impartito dal Creatore alle creature privilegiate. I sogni dell'anima
sono più belli delle prosaiche realtà della vita, come la Venere greca
è più bella della donna; e la contemplazione delle opere di Dio è
un omaggio alla divinità, superiore ad ogni più fervente preghiera.
Lasciate che io preghi ed ami secondo il mio istinto.... Ascoltate una
storia del millecinquecento:
Un muratore innalzava un muro in Val d'Arno, assistito dal suo
manovale. Uno portava i mattoni, i sassi e la calce, l'altro andava
avanti col muro. Sapete che fa caldo in Toscana! orbene, era appunto
il mese di luglio, il sudore grondava dalle fronti abbronzate dei due
lavoranti, mentre un uomo stava tranquillamente sdraiato al rezzo d'una
pianta fronzuta, e li guardava. Il muratore vide l'ozioso, e disse
sdegnato al manovale: — Guarda un po' il fannullone, che mentre noi
sudiamo al lavoro, egli si gode a far niente! — Ora sono tre secoli
che il muratore e il manovale son morti e dimenticati, il muro è
caduto, e non ne restano nemmeno le traccie, è morto anche colui che li
stava osservando senza far niente, ma è rimasto il suo nome, egli era
Michelangelo Buonarroti, che meditava una delle sue opere.
Fra gli antichi ruderi della Campagna Romana, un capraio osservava
un bel giovine seduto a fianco d'una vaga fanciulla, e lo credeva un
ozioso; era Raffaello che studiava le pose delle sue Vergini, e le
pieghe delle vesti della Fornarina.
Il dolce far niente per le anime dei poeti e degli artisti è il
preludio delle sublimi creazioni, è la contemplazione che genera
l'ispirazione, è il sogno sublime che apparecchia l'opera divina del
genio.
E in queste stesse lagune, quanti ozii, quante ore beate di riposo
trascorsero nella tranquilla barchetta, i nostri grandi artisti
veneziani, Giorgione, Paolo Veronese, Tiziano, e tutta la gloriosa
coorte; e mentre solcavano l'onde coricati sui molli origlieri della
gondola che cullava i loro sogni, parevano assopiti da un dolce far
niente, e invece meditavano quelle stupende creazioni che sono adesso i
tesori dell'arte, ed una delle più belle glorie di Venezia.
Ed io, povero insetto della terra, nel dolce far niente dell'infanzia
ho imparato ad ammirare la potenza di Dio che faceva germogliare il
germe confidato alla terra, che provvedeva il nutrimento al falco
che mi passava sul capo nelle alte regioni dell'aria, ed all'insetto
impercettibile che faceva un lungo viaggio sopra un filo di musco. Ed
ora appoggiato al balcone, e contemplando questa azzurra laguna che si
perde nei lontani orizzonti, ora io sento...... e s'arrestava tutto
d'un tratto dando in un solenne scroscio di riso, e lasciando gli
astanti nella sorpresa e nel dubbio se avesse parlato da senno o da
burla, e staccando il violino dal muro improvvisava mille capricciose
melodie che ora imitavano i gemiti del dolore, ora il canto di
un'allegra canzone, e finivano colle note affettate d'un mellifluo
minuetto, sospeso poi da un'altra solenne risata.


IX.

Mentre che Valdrigo fantasticava coi più strani paradossi, Canova
lavorava modestamente intorno due canestri di fiori e di frutta.
Col ricavato di questo primo lavoro, eseguito per commissione del
nobile Falier, il giovane scultore ebbe agio a procurarsi un locale
conveniente a studi più vasti. Egli cercava un luogo romito e
silenzioso, e lo trovò nell'antico monastero di San Stefano.[2]
Quel chiostro eretto sui disegni di frate Maestro Gabriele di Venezia
tornava perfettamente opportuno alla quiete dello studio. L'architetto
monaco e artista aveva creato un rifugio per le anime meditabonde e
pei pensieri elevati. Contribuivano ad ispirare la mente le memorie
del passato parlanti dalle tombe d'illustri antenati; perchè colà
riposavano nell'eterno sonno le ossa gloriose di Francesco Morosini,
di Andrea Contarini, e di tanti altri, magistrati e guerrieri. Quelle
mura solitarie rammentavano i pensieri, i dolori, le speranze dei
loro abitatori. Esse avevano raccolto le anime troppo timide per
affrontare i rischi della vita, o i cuori già offesi da insanabili
ferite riportate nella lotta di mondane passioni. La fede nei misteri
della religione consolava quelle anime meste o desolate che travedevano
dopo le pene della vita, i giorni sereni d'una esistenza immortale; la
fede nella potenza dell'arte consolava Canova delle privazioni continue
e delle difficoltà del lavoro, e lasciava travedere alla sua anima il
compenso d'ogni sofferenza e d'ogni fatica nell'immortalità del suo
nome.
Nei silenzii notturni di quel chiostro, che più non risuonavano di
lente salmodie, egli avrà veduto coll'ardente fantasia le pallide ombre
di quei frati, attraversare i lunghi corridoi, prosternarsi sulle tombe
degli antichi Veneziani, e coll'immagine della morte frenare i battiti
del cuore eccitati dalle tentazioni di mondane cupidigie.
Molti artefici insigni avevano illustrato quel convento colle loro
opere; e fra gli altri Giannantonio Regillo da Pordenone aveva
apportato in quella pacifica dimora il genio del pittore e le passioni
dell'uomo. Dipingendo nella corte alcune sacre storie, egli animava
il suo pennello col vigore della gelosia che lo rodeva, del grande
Tiziano. Ma il vento degli anni trasportò la polvere sollevata da' suoi
passi, e rese muto anche l'eco che ripeteva sotto agli archi la voce di
Canova.
Nella cella dell'ultimo frate disceso nella tomba, apportò il giovane
scultore il corpo nudo di Euridice; il cui modello in creta, eseguito a
Possagno, era il suo primo studio dal vero. Quivi poi scolpì in marmo
l'Orfeo, disperato d'aver perduto per sempre la sua donna, ma sotto
quella pietra parlante non scorreva il sangue del nume, e forse in
altri tempi, nella medesima cella, sotto allo scapolare d'un frate,
batteva il vero cuore d'Orfeo!


X.

Valdrigo ammirava i progressi dell'amico, ma non aveva la forza
d'imitarlo nella assiduità al lavoro, nel disprezzo d'ogni piacere
che non venisse dall'arte. Sfuggiva la fatica, e appena prodotto
qualche saggio incompleto che rilevava il suo genio, lo distruggeva
malcontento, trovando l'opera mancata, confessando la sua impotenza
a dar vita al concetto sublime che gli balenava nello spirito e
scoraggiato si arrestava a maledire sè stesso, ad imprecare contro
le difficoltà materiali dell'arte, a bestemmiare contro al facile
contentamento dell'altrui dappocaggine. Egli sogghignava con
disprezzante cipiglio davanti alle opere manierate e convenzionali
degli artisti viventi; e comparandole alle opere antiche sentenziava la
generale decadenza delle arti, del costume e della patria.
Invano Canova gli ripeteva quelle massime che diressero sempre la sua
nobile vita. Lo consigliava amichevolmente ad essere più indulgente, ed
a correggere i difetti degli altri piuttosto coll'esempio del meglio
che con le acri invettive, e le critiche amare. E soggiungeva essere
più facile la critica d'un'opera insigne, che la produzione d'un
mediocre lavoro. Valdrigo voleva sostenere che il genio deve creare
senza fatica, e che il lungo studio è il retaggio dei mediocri. —
«Queste sono tutte ciarle,» rispondeva Canova, e annoverando gli uomini
illustri incominciando da Giotto e da Cimabue, gli dimostrava che le
loro opere erano il frutto della fatica e del lavoro.[3]
Sovente visitavano insieme gl'insigni monumenti delle arti che adornano
le chiese ed i palazzi di Venezia, e Canova arrestandosi davanti il
quadro d'un famoso pennello, esclamava: «Vedi quest'opera? chi l'ha
fatta non andava girando divertendosi come noi facciamo.»[4]
Le semplici e ragionevoli osservazioni dello scultore, calmavano i
sensi agitati del suo amico, il quale si proponeva mille stupendi
progetti di nuova vita, di lunga abnegazione, di ritiro completo, di
abbandono assoluto agli snervanti piaceri di Venezia, e deliberava
d'intraprendere lunghi e difficili studi, precursori di grandi lavori.
Ma ogni giorno trovava i più futili pretesti per rimandare ad altro
momento l'esecuzione de' suoi piani. Se brillava uno splendido sole,
egli usciva, per una passeggiata al lido in traccia d'ispirazioni, e
rientrava affaticato e distratto. Se il tempo nuvoloso si disponeva
alla pioggia, egli aspettava il sereno per mettersi al lavoro.
Finalmente un purissimo cielo, un'aria imbalsamata lo mettevano in
buone disposizioni quando la visita d'un amico, lo sguardo d'una
vicina, un rumore della strada mettevano in fuga l'occasione, ed il
principio degli studi veniva rimandato al domani.
Ma all'indomani era venerdì, giorno nefasto per principiare qualche
cosa; il sabato essendo l'ultimo giorno della settimana, gli sembrava
ridicolo che dovesse essere il primo d'una nuova esistenza. La domenica
è giorno di riposo, anche per quelli che non fanno mai niente ed egli
aspettava ansiosamente il lunedì, con fermo e tenace proposito.
Sventuratamente al lunedì si rinnovavano gli ostacoli per impreveduti
accidenti; e così passavano i giorni inerti, le settimane improduttive,
e fuggivano gli anni. La sua cameretta collocata al quarto piano
dell'antico palazzo degli Orseolo, portava tutte le traccie del suo
talento e della sua accidia. Il disordine d'una stanza di studio
indica sovente le prolungate veglie, o l'assiduo lavoro, ma il caos
sarà sempre l'indizio del perpetuo abbandono. Sul tavolo, sul sofà,
sulle sedie rovesciate e per terra giacevano confusi e sconvolti mille
oggetti diversi. Di qua libri aperti e chiusi fra i manoscritti, i
disegni, la musica, il tutto sovrapposto a dei vasi di majolica, a
delle vesti abbandonate, a dei pennelli sostenuti da frammenti di
stoviglie. Di là giubbe e pannilini accanto al calamajo, in fianco d'un
mazzolino di fiori inariditi e d'una spazzola. Sui muri si vedevano
appesi insieme il violino, uno spadone, il busto d'una Venere, una
corazza irrugginita, e una barbuta sostenente una vecchia parrucca
incipriata. Il cavalletto per dipingere era incoronato da un vecchio
cappello tricuspide, e sosteneva una tavolozza imbrattata da colori
confusi e disseccati, l'archetto del violino, e una pipa turca.
Parecchie tele appena sbozzate, o lasciate in abbandono a lavoro
avanzato, pendevano parimente dai muri, o si ammonticchiavano negli
angoli, fra le tele dei ragni, presso un armadio semichiuso dal quale
uscivano le falde o le maniche d'una veste. Un tale miscuglio d'oggetti
costituiva un completo labirinto, fra il quale bisognava raggirarsi
con infinite precauzioni per giungere al letto nel fondo della stanza,
ove il giovane artista meditava le sue opere future, fra mezzo ai saggi
dispersi del suo genio, del suo disordine e della sua infingardaggine.


XI.

Il giorno della Ascensione del 1779 Venezia brillava di straordinario
splendore. Tutte le campane della città suonavano a festa, tuonavano
le artiglierie dalle navi e dai porti. L'aria che spirava dal mare
apportava di tratto in tratto il suono festoso di musicali concenti, la
folla accorreva premurosa sul molo zeppo di gente.
Era il giorno della gran festa nazionale, nella quale il Doge recavasi
in pompa solenne agli sponsali del mare. Venezia risplendeva di
tutta la sua antica potenza, l'amore e l'orgoglio della patria univa
tutti i cittadini in festosa concordia, ed eccitava negli stranieri
l'ammirazione e il rispetto. Il Bucintoro che solcava maestosamente
quelle onde coi suoi fianchi dorati, dirimpetto alla città
meravigliosa, era il simbolo della grandezza della antica repubblica.
La poppa raffigurava una Vittoria navale coi suoi trofei. Le pareti
esterne erano tutte adorne di bassorilievi dorati, rappresentanti le
virtù e le arti.
Il salone coperto di velluto cremisino, era ornato di frangia, galloni
e fiocchi d'oro. Verso la poppa s'innalzava sopra due gradini il seggio
ducale fiancheggiato da due figure rappresentanti la Prudenza e la
Forza; colle quali la politica Veneta seppe sostenere il governo pel
lungo corso di quattordici secoli.
Il Doge si presentava al pubblico in tutta la pompa delle sue vesti,
coperte d'oro e di gemme; accompagnato dalla Signoria, dal Senato,
dal Maggiore Consiglio, e dagli ambasciatori delle primarie Corti
d'Europa. Seguivano il ducale corteggio numerose galee, le barche
dorate del dominio, le lancie ed i caicchi degli ufficiali di mare, i
capi principali del commercio, fra i quali primeggiavano le eleganti
peote dell'arte Vetraia, e delle Conterie di Murano, e finalmente una
infinita quantità di gondole e di barchette che ricoprivano la laguna
da San Marco fino al lido, adorne di festoni di fiori, di rami di
lauro, rallegrate dalla musica e dalle canzoni d'un popolo soddisfatto.
I vascelli di guerra e le navi mercantili, ancorati lungo la riva degli
Schiavoni, salutavano il corteggio cogli spari delle loro artiglierie.
Fra i vortici del fumo, e le onde agitate, le belle Veneziane passavano
intrepide nell'agile gondoletta, e mollemente adagiate sui cuscini
di piume, sfoggiavano il lusso delle seriche vesti, la grazia dei
seducenti sorrisi, il fascino ammaliante degli occhi.
Il giorno ebbe termine col solenne banchetto del palazzo ducale, al
quale furono convitate le primarie autorità dello Stato e il Corpo
diplomatico. Sua Serenità sedeva sul seggio ducale circondato dagli
ambasciatori, dopo dei quali venivano in ordine i Consiglieri, i capi
del Consiglio dei Dieci, gli Avvogadori, i presidenti dei Tribunali
giudiziari, e gli alti Magistrati che avevano assistito dal Bucintoro
allo sposalizio del mare. Il pubblico, durante il primo servizio, aveva
libero l'ingresso nella sala, ove accorreva ad ammirare lo splendore
degli arredi, e il lusso delle laute imbandigioni. Uscito il pubblico,
entravano i musici della Cappella ducale che rallegravano il convitto
con armoniosi concerti.
Alla sera la piazza di San Marco offriva lo spettacolo meraviglioso
d'una folla brulicante, briosa, ma ordinata e cortese. Fra un bisbiglio
di voci liete e graziose, si vedevano i più bizzarri contrasti di
colori e di costumi. I nobili e i magistrati colle sfarzose loro vesti,
i cittadini coi mantelli bianchi o scarlatti, coi cappellini piumati
a tre spicchi, le gentildonne in guardinfante e collo strascico, gli
ambasciatori e i forestieri coi loro costumi nazionali, fra i quali
risaltavano particolarmente i Turchi, i Greci gli Armeni.
Le donne sciorinavano i più ricchi abbigliamenti, stoffe di raso
e di seta a larghe fioriture, con trapunti in oro, o ricami, con
maniche e collari di merletti e di pizzi di meravigliosa fattura. Le
alte pettinature brillavano di preziosi giojelli. Accanto alle gravi
e magnifiche matrone sfilavano le vezzose e vispe lustrissime dal
misterioso zendaletto, o dalla ricca bauta e offuscavano lo splendore
dei brillanti delle gentildonne colla luce degli occhi parlanti; e
una semplice rosa sul crine incipriato ornava talvolta quelle fronti
giovanili, con più effetto d'un diadema. Le livree dei domestici, i
costumi dei gondolieri e dei marinai, le donnicciuole del popolo di
Burano e di Chioggia con le gonnelle sul capo, formavano un quadro d'un
carattere originale, unico al mondo.
Venivano tutti col pretesto della Fiera dell'Ascensione, splendido
mercato che si teneva in piazza San Marco, ma l'ammirazione non era
esclusivamente concentrata sulle merci esposte in vendita, chè gli
avidi sguardi dei giovani miravano maggiormente gli oggetti che non
si potevano acquistare a denaro, ma che talvolta si conquistavano con
un assedio perseverante di sguardi pietosi, e con l'arcana potenza di
qualche parola furtiva.
Tutte le celebrità di quell'epoca intervenivano pompose nella piazza,
come in una meravigliosa sala, comune a tutti, cittadini o stranieri,
e passeggiavano lentamente fra gli sguardi rispettosi della folla, le
ripetute riverenze e i profondissimi inchini.
Per di qua si vedeva fra un corteggio di eleganti incipriati, la bella
e briosa gentildonna Giustina Renier, da quattro anni soltanto sposa
al patrizio Marcantonio Michiel. Tutti ammiravano il lusso e le grazie
della nipote del Doge, che rivolgeva la parola a suo zio materno
Lodovico Manin, predestinato dalla sorte a seppellire la repubblica.
Di là usciva dalla procurativa, seguita da un codazzo d'ossequiosi
cicisbei, e si pavoneggiava per la piazza la pomposa matrona Caterina
Dolfin Tron, sorridendo a diritta all'eccellentissimo Quirini,
giunto apposta per la festa dalla sua deliziosa villa d'Altichiero,
o scherzando alla sinistra col vecchio e curvo conte Gaspare Gozzi,
canzonandolo con un piglio fra l'indifferente e il geloso sulla sua
inclinazione per la francese Sara Cenet.
L'arguto poeta e gazzettiere, se ne scusava con motti piccanti e fini,
e si rivolgeva come ad un appello decisivo, al potente procuratore
marito, che li seguiva da vicino, corteggiato da una caterva di
adoratori della moglie.
Passava un altro gruppo d'eleganti, facendo gran chiasso per lo
splendore delle vesti, e il numeroso e scelto corteggio. Era la vezzosa
gentildonna Contarina Barbarigo, la potente ed ammirata veneziana, che
due anni prima aveva vinto l'Imperatore Giuseppe II in una graziosa
lotta di spirito e di galanteria. La circondavano il cavaliere
procuratore Alvise Pisani, Francesco Pesaro, e Nicolò Barbarigo, ed
altri, astri minori, ma tutti brillanti di quell'epoca.
La vecchia gentildonna poetessa Cornelia Barbaro Gritti camminava
cautamente, sostenendosi al braccio del figlio Francesco, parimenti
poeta; come una stanca musa che invoca l'ajuto d'Apollo per salire al
Parnaso. La vecchia musa in toppè era pastorella d'Arcadia, e veniva
conosciuta dai pastorelli suoi amici, Algarotti, Metastasio, Frugoni e
Goldoni, col dolce nome di Eurisbe Tarsense.
Ma in fianco a questi nobili avanzi di caduca poesia passeggiava un
uomo antico, che con la mano ferma sull'elsa della spada parea sfidare
i nemici della patria. Era l'illustre capitano Angelo Emo, ultima
gloria delle geste militari di San Marco.
Infatti tutti i più bei nomi di Venezia si incontravano in quel ricinto
di marmi, e spiccavano fra la folla mista d'ogni classe sociale.
Ma anche nel ceto cittadino e popolare non mancavano rimarchevoli
individui. Un grande originale era il burbero e sospettoso Carlo Gozzi,
che sfilava brontolando fra gli archi delle Procuratie, desolato da un
fatale contrattempo.
Il popolo indicava a dito il rivale di Goldoni, l'applaudito autore
delle favole drammatiche, il quale dopo le sventure del perseguitato
Gratariol, vittima delle _Droghe d'Amore_, sfuggiva gli sguardi della
Ricci, attrice di moda, e suo malgrado la scontrava a ogni svolta
di calle, accompagnata dal vecchio capocomico Sacchi, il più famoso
arlecchino di quei tempi.
In un angolo della piazza un cavadenti vantava ai curiosi i miracoli
d'un suo elisire, mentre dietro una colonna un individuo segnava in una
carta quel gruppo. Questi era il pittore Pietro Longhi che studiava dal
vero i costumi veneziani dell'epoca.
Il giovane Antonio Lamberti inseguiva da vicino la bionda Marina
Benzon, e ispirato dalle grazie dell'avvenente persona e da qualche
sguardo incoraggiante, andava componendo le strofe della canzonetta
veneziana, divenuta tanto popolare: _La biondina in gondoletta_.
Un altro giovane poeta, che viveva in quei tempi in Venezia di un
modestissimo impiego, andava in traccia d'Irene. Era il bassanese
Jacopo Vittorelli, già celebre pel suo poema sul Toppè, allora
innamorato d'Irene e dei maccheroni, che celebrava egualmente colle sue
rime. Ma Irene in bruno zendaletto si confondeva fra la gente, e cogli
occhi furbetti rispondeva ad altri sguardi. Noncurante della gloria
futura la vispa popolana, sedotta da un piattello di calde frittelle,
fuggiva con Fileno fra le braccia dell'Imeneo, lasciando che il poeta
abbandonato morisse d'amore in piazza San Marco, e dopo morto cantasse
a suo bell'agio:
Non t'accostare all'urna
Che il cener mio rinserra
e terminasse la sua funebre anacreontica prima di salire al letto
deserto, dicendo all'infida Irene:
Rispetta un'ombra mesta
E lasciala dormir!
La folla aumentava sotto le loggie della fiera, che si componevano di
vaste ed eleganti botteghe mobili, in legno, che venivano levate al
termine delle feste. Era una pubblica mostra delle merci più pregiate,
e delle migliori produzioni delle arti. Vi si vedevano a profusione i
prodotti naturali ed industriali dell'Oriente, accanto delle produzioni
nazionali. Abbondavano i broccati d'oro, le stoffe sontuose, i giojelli
e i merletti. Vi si ammiravano dei ricchi arredi, dei mobili e delle
cornici d'intaglio, l'arte vetraria spiegava tutto il lusso delle
varie sue opere, le perle, i lampadari di cristallo, gli specchi tanto
famosi.
Il gusto naturale dei Veneziani per le arti guidava ogni anno
gl'intelligenti nel riparto consacrato all'esposizione dei lavori
degli artisti viventi, ove si collocavano le incisioni, i quadri, le
statue. In quell'anno la folla che circondava il locale destinato alle
arti belle era talmente stipata ed incessante, che riusciva malagevole
avvicinarsi alla meta. Eppure un solo gruppo attirava tutti gli
sguardi, ed eclissava ogni altro lavoro. Questo gruppo rappresentava
Dedalo ed Icaro, scolpiti in marmo da Antonio Canova.
Era la natura riprodotta in plastica con verità impareggiabile. Pareva
che il sangue scorresse sotto la pelle rugosa del vecchio, il quale
adattando le ali alle membra giovanili del figlio, mostrava la sua
agitazione, colla contrazione delle linee del volto. Il fanciullo
Icaro colla sua ingenuità pareva lieto dell'idea paterna, e sorrideva
al pensiero di sciogliere il volo nelle regioni dell'aria. La folla
si accalcava intorno a quel gruppo, e ripeteva con rispetto il nome
dell'artefice insigne.
Filippo Farsetti, il fondatore della Galleria di Scultura nella
quale studiava il Canova, accorreva ad ammirare il lavoro, insieme
al Senatore Giovanni Falier, il protettore del giovane artista. Si
scontravano per via col Procuratore Pietro Vittore Pisani che aveva
allogato il bel gruppo, e che andava superbo di poter abbellire le sue
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