Il dolce far niente: Scene della vita veneziana del secolo passato - 04

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voce argentina: — Vittore, Vittore, Vittore....
Il giovane accorse in tutta fretta, e le chiese in che cosa potesse
servirla. La fanciulla fattoselo sedere dirimpetto gli disse: — Voglio
domandarvi un consiglio.... ma in segreto. Credete voi ch'io possa
essere preoccupata da gravi pensieri?...
— Lo credo.
— Mi promettete il più profondo segreto delle mie confidenze?
— Lo prometto.
— Siete disposto a rendermi un segnalato servigio?
— Dispostissimo.
— E a rispondere francamente a tutte le mie domande?
— Dipende....
— Come dipende?
— Dipende dalle domande.
— Vi sono dunque delle domande alle quali non vorreste rispondere?
— Certamente!
— E perchè?...
— Perchè non potrei dirle la verità.
— Allora temo che la mia domanda sarà inutile!
— Si provi.
— Or bene, proverò.... Sappiate dunque che io vorrei ottenere un
consiglio da voi, intorno alla scelta del mio futuro cavaliere
servente.
— Sono dolentissimo di non poter soddisfare un tale desiderio....
— E perchè?...
— Perchè non ammetto i cavalieri serventi....
— Come?... Non ammettete nemmeno i cavalieri serventi!... Don Lio ha
dunque ragione, siete un vero originale!... e perchè non ammettete i
cavalieri serventi?...
— Perchè mi pare che debbano bastare i mariti!...
— Mio Dio! quali stranezze!... ma se i mariti non fanno mai nulla!...
— Bisogna farli fare!...
— Oh bella!... cosa direbbe il mondo, se vedesse una dama accompagnata
dal marito.... corteggiata dal marito.... non sono cose possibili....
sono idee che farebbero ridere.... la stessa cosa come se un gentiluomo
si presentasse in piazza senza coda e senza parrucca!... ma sapete che
siete un grande originale!...
— Lo so, e ci tengo, perchè il plurale è così melenso al dì d'oggi, che
preferisco il singolare.
E ridevano insieme, come di cose che non ammettono discussione,
entrambi perfettamente convinti delle proprie idee. Ma poi nella
solitudine Silvia ritornava col pensiero alle cose udite, e meditava a
fondo sulle discussioni tenute.
Una volta essa consegnò misteriosamente a Vittore un libriccino,
raccomandandogli di leggerlo con molta attenzione. Egli lo portò nella
sua stanza, gettandosi sul sofà, aperse il volume e si trovò fra le
mani: _Il giardino di poesie spirituali_, diviso in quattro parti, di
SUOR MARIA ALBERGHETTI, viniziana fondatrice delle Dimesse di Padova. —
Lesse per obbedienza, e dormì d'un sonno consolato di celesti visioni.
Era un dono della zia badessa.
Finiti i pochi libri che aveva portati dal convento, Silvia sentiva
il bisogno di nuove letture, e s'indirizzava alle amiche vicine, le
quali le consegnavano di soppiatto le opere in voga. — _La Marfisa
Bizzarra_, poema del conte CARLO GOZZI. — _II Tirsi e il Narciso_, di
APOSTOLO ZENO. — _Il Re Pastore_ e _L'Astrea placata_, di METASTASIO.
Questi libri accendevano il suo entusiasmo, allargavano il ristretto
orizzonte delle sue idee, le facevano battere il cuore, e versava
torrenti di lagrime. Nel bisogno di comunicare le sue emozioni ad un
amico, aspettava Valdrigo in giardino, lo invitava a seguirla sotto
l'ombre del boschetto, e colà narrava ingenuamente i suoi trasporti di
ammirazione per le pagine divorate nella cameretta solitaria.
Valdrigo ascoltava con un'aria di affettuosa compassione, o di muta
sorpresa; la giovinetta lo interrogava ansiosa:
— Cosa pensate di Carlo Gozzi?
— Scipito, rispondeva Vittore con un sospiro.
— E di Apostolo Zeno?
— Noioso.
— Ah! non potete negare che Metastasio non sia uno de' più grandi poeti?
— Lo nego!
— Come! avreste il coraggio di non piangere ai suoi drammi? di non
rimanere commosso alla lettura de' suoi versi?
— Ahimè! pur troppo debbo confessare che i suoi versi mi fanno
ridere....
— Basta.... Basta.... Non vi credeva un cuore di marmo, mi fate
compassione.... voi non sentite niente!... non amate niente!...
— Niente!... rispondeva Valdrigo con un sorriso affettuoso, e se ne
andava.
Silvia ritornava alle predilette letture, e mentre il suo cuore si
disponeva alla tenerezza, udiva una musica soave uscire da una stanza
del palazzo. Era Valdrigo che trasmetteva al suo violino un'espressione
della sua anima, un pensiero di sublime dolcezza. La giovinetta
ascoltava quella voce arcana che molceva le più riposte fibre del
cuore, e sospendeva la lettura, per non perdere una nota della lontana
melodia. Poi essa pensava: — quel giovane è un mistero!
Un giorno passeggiando in giardino con lui si mise a lodare l'elegante
forma dei carpini tagliati in vasi e piramidi, e ammirando l'arte del
giardiniere si rivolse al suo compagno, e con un'aria burlesca, gli
disse:
— Ci scommetto io, che voi non amate quest'arte!...
— Ma niente affatto! rispose tranquillamente Valdrigo, anzi la detesto.
Come vuole che io ammetta Angelo Rotondo censore della natura, l'opera
di Dio!...
E qui una lunga discussione, come al solito, sulla stupidità degli usi,
sulla corruzione del gusto, e sull'eccellenza della natura, e sempre
camminando e andando a finire sotto le ombre del prediletto boschetto.
Giunti colà, Silvia, incrociate al seno le braccia, e fissando in volto
Valdrigo collo sguardo scrutatore d'un inquisitore di Stato, gli disse:
— Voglio vedere fino a qual punto giunga il vostro superbo disprezzo
per le cose tenute in venerazione dal comune degli uomini. Da
quattordici secoli la repubblica di San Marco forma l'ammirazione del
mondo, orbene, qui nessuno ci ascolta, e potete parlare senza tema del
supremo tribunale; sareste voi capace di burlarvi del Doge, serenissimo
principe della repubblica, di ridere della maestà dell'Eccellentissimo
senato, di mancare di rispetto all'Eccelso consiglio dei Dieci? sareste
capace di dubitare dell'eterna durata d'un governo fondato dai nostri
padri, guidato dalla sapienza civile e politica dei secoli, sostenuto
da una nobiltà devota alle antiche istituzioni, e da un popolo
rispettoso e felice?... rispondete.
— Come mai possono venirvi in mente tali domande?... a che possono
servirvi i miei pensieri in proposito?...
— Il desiderio di conoscervi a fondo, mi spinse a cercare nella mia
mente qualche cosa di grande dopo Dio, per vedere ove si arresti la
vostra manìa di contraddire le idee generalmente adottate; i vostri
pensieri poi mi servono a pensare tutta sola, a ragionare fra me, a
discutere nel silenzio fra le idee comuni e le vostre, a distinguere il
pregiudizio dalla verità. Ditemi francamente, ve ne prego, credete voi
ad una lunga prosperità della repubblica?...
— Non ci credo.... la repubblica è vecchia, e piena di magagne, e i
vecchi devono morire!
— Mio Dio!... mi fate paura.... e sapete cosa penso qualche volta di
voi?... penso che siete pazzo!...
— Sicuro che sono pazzo.... egli rispose con un'aria naturale e
convinta. Esser pazzo significa vedere le cose in modo diverso dagli
altri.... Gl'inquisitori del Santo Ufficio giudicarono pazzo Galileo
Galilei, perchè sosteneva che la terra girava attorno al sole, e
l'obbligarono colla tortura a confessare la sua eresia.... Tutti i
dotti trapassati e viventi davano torto alle sue nuove teorie, ma il
dubbio era gettato, e la tortura non bastava a distruggerlo, bisognava
dimostrare il contrario con prove scientifiche.... le prove si fecero,
e dimostrarono ad evidenza che i dotti trapassati e viventi erano
asini.... compresi gl'inquisitori del Santo Uffizio.... e che Galileo
era un genio!... I Genovesi, i Portoghesi, gli Spagnuoli trattarono
da pazzo Cristoforo Colombo, che si era fissata in mente l'idea di
scoprire un nuovo continente oltre i mari conosciuti. Si figuri, se la
dotta antichità poteva ignorare qualche cosa! I dotti contemporanei
si burlavano di lui, la dotta Salamanca si sbellicava dalle risa,
egli vagava invano per l'Europa alla ricerca d'un pazzo suo pari, che
volesse aiutarlo procurandogli i mezzi di viaggiare in traccia delle
sue chimere. Finalmente la presa di Granata mise in possesso della
regina di Spagna tutte le provincie che si stendono dai Pirenei alle
frontiere del Portogallo, la buona regina Isabella trovandosi la borsa
ricolma ebbe il capriccio di gittare un poco di denaro dalla finestra,
e malgrado l'opposizione insistente del marito, mise a disposizione di
Colombo tre poveri vascelli, coi quali al dì d'oggi non si farebbe un
viaggio in Dalmazia. Ella sa il resto; l'ignoto continente esisteva,
Colombo lo ha scoperto; anche questa volta il creduto pazzo era un
genio, e gli asini si trovarono nella dotta Salamanca e nelle Accademie
scientifiche di quel tempo. Un altro pazzo era Torquato Tasso, l'autore
della _Gerusalemme liberata_, un poema che vostra eccellenza farebbe
bene di leggere, e che troverebbe certo migliore della _Marfisa
Bizzarra_ del conte Carlo Gozzi.
— E chi osò trattare da pazzo questo insigne poeta?
— Il Duca Alfonso di Ferrara, che lo tenne in prigione....
— E perchè?...
— Perchè il povero poeta aveva osato levare gli occhi alle stelle....
perchè aveva amato la Duchessa Eleonora, la sorella d'Alfonso....
— Oh ve ne prego, raccontatemi la storia degli amori del Tasso e di
Eleonora....
Vittore ignorava quasi intieramente quella storia, ma la sua fantasia
era abbastanza feconda per supplire ai documenti mancanti, e creò un
racconto interessante della fiamma del poeta per la bella duchessa,
e vi aggiunse le più tenere avventure, e le relative osservazioni
filosofiche e comparative fra la nobiltà dell'intelletto e la nobiltà
dei natali, e sul pregiudizio della nobiltà ereditaria.
Un altro giorno lesse a Silvia l'episodio d'Olindo e Sofronia,
spiegando alla fanciulla le allusioni del poeta, e disponendola
all'intelletto della vera poesia.
Tali frequenti ritrovi, resi interessanti dallo scambio reciproco
dei sentimenti e delle idee, strinsero la intimità dei due giovani,
e divennero oltremodo graditi al loro bisogno d'espansione. Silvia
andava colla cameriera Lucietta a trovare la Rosa, e colà si univano
a Vittore che le faceva correre attraverso la campagna. Osvaldo, un
fratello di Vittore, prendeva le reti, e andavano alla pesca portando
con loro delle frutta per una modesta colazione sull'erba. Talvolta
Lucietta si perdeva pei campi con uno sbarbatello dei contorni che
le prometteva di farla contessa, e allora Silvia e Vittore vagavano
solitari, conversando e questionando di mille cose diverse. Valdrigo
la proteggeva dall'ululato dei cani, dai pericoli provenienti dagli
animali pascolanti, dalle spine dei roveti. La portava attraverso
i ruscelli, la teneva per mano nelle salite più ardue, la difendeva
dal sole con dei rami degli alberi, e dal vento coprendola colla sua
giubba.
Dopo lungo cammino si siedevano a riprender lena sotto agli alberi, e
Silvia scherzando gli diceva: — Riposiamoci un poco, ma poi andiamo
avanti, avanti, sempre avanti fino a quei monti lontani, e dopo
varcheremo anche i monti, e sempre avanti....
Egli le prendeva la mano, e la guardava negli occhi tacendo. Tacendo
colla parola, perchè gli occhi parlavano abbastanza, e le anime si
trovavano in armonia, come due arpe che mandano il medesimo suono.
L'ingenuità della fanciulla la rendeva sacra a Valdrigo che la
circondava del rispetto dovuto dai mortali verso gli angeli. Quella
pura ammirazione era una sorgente d'ispirazioni novelle, di pensieri
elevati. Nella sua tranquilla cameretta egli tracciava delle immagini
celesti degne della matita di Raffaello; e traea dal violino dei
canti di suprema dolcezza, e sovente improvvisava dei versi sublimi
riboccanti d'entusiasmo e di gemiti, che si perdeano per l'aria, e
svaporavano come diamanti consumati dalla combustione. Cosicchè non
restava mai nulla di tante effimere creazioni. Nessuno era presente per
colpire sul fatto le idee del poeta o le note del suonatore, ed egli
stesso obliava ogni cosa quando cessata quella specie di ebbrezza che
agitava il suo spirito, si lasciava cadere sopra il letto, sfinito ed
esausto.
Anche gli abbozzi sparivano, nei momenti di scoramento, quando
misurando le difficoltà che avrebbe incontrate nella completa
esecuzione di pensieri appena accennati, egli distruggeva quelle forme
indeterminate, come aborti indegni dell'arte.
Una mattina d'ottobre uscì per tempo a respirare l'aria aperta.
Le foglie cadendo dagli alberi disponevano la mente ai pensieri
melanconici, entrò nel boschetto e si trovò dirimpetto di Silvia.
Una lagrima scendeva sulle guancie della fanciulla, che vedendosi
sorpresa si passò rapidamente una mano sul volto, e finse un sorriso.
Ma Valdrigo se n'era avveduto e fattosele incontro, le chiese
con affettuoso interesse il motivo della sua tristezza. Essa negò
fermamente d'aver pianto, e volle rassicurarlo che nulla agitava il suo
spirito. Passeggiarono insieme qualche tempo, in silenzio, poi Silvia
volle uscire dal boschetto, Valdrigo la pregava a rimanere, ma essa gli
rispose con aria risoluta:
— Usciamo, ve ne prego, non dite una parola di più....
Si separarono in giardino, Silvia, rientrò nel palazzo, Valdrigo uscì
alla campagna, in traccia di solitudine.


XVI.

Vi sono dei giorni d'autunno ne' quali sembra che la natura si disponga
a dare un ultimo addio alla bella stagione, avanti il sonno delle
piante, avanti le brine del verno. Il sole risplende in un cielo
perfettamente sereno, l'aria è tranquilla, gli uccelli cantano sugli
alberi, i fiori emanano le più soavi esalazioni, tutta la campagna
presenta un aspetto di pace e di felicità. L'indomani dell'ultimo
incontro di Silvia e di Vittore era uno di quei giorni. Ogni volta
che i due giovani uscivano in giardino i loro passi si dirigevano
verso l'ombrose macchie del bosco, quasi vi fossero attirati da una
forza misteriosa; talvolta, appena entrati, Silvia voleva ritornare
in giardino, e sembrava dominata da due genii contrari, uno che la
invitava, l'altro che la respingeva da quel delizioso recesso. Quella
mattina pareva che i genii si fossero messi d'accordo, perchè i due
giovani entrarono francamente nel bosco, senza esitanza, e Silvia,
sedutasi ai piedi d'un albero, disse a Vittore: — Qui non saremo
disturbati, e la quiete che ne circonda in questo luogo romito, si
presta perfettamente all'intento. Leggete dunque i versi che avete
composti ier mattina passeggiando per la campagna, dopo la vostra
pretesa scoperta.
Vittore rispose: — Manterrò la promessa.... — e spiegando un foglietto
si mise a leggere una poesia che aveva per titolo: _Le lagrime d'una
fanciulla_.
Egli leggeva con una voce dolce e commossa, e la giovinetta
impallidiva, il suo seno si sollevava agitato, le labbra semichiuse
reprimevano invano i sospiri, e gli occhi umidetti non potevano
rattenere le stille che le irrigavano le guancie. Finita la lettura.
Vittore fece in mille brani il foglietto, e disperdendolo al vento,
esclamò: «Andate, poveri sogni, nel regno dei fantasmi, questa
vita non è fatta per la poesia!...» Silvia levatasi con un rapido
slancio voleva arrestare Valdrigo, ma troppo tardi, che già i piccoli
frammenti scendevano al suolo fra le foglie secche degli alberi. Allora
trapassando con repentino movimento dall'emozione alla collera: —
Ebbene, disse, addio!... mi avete dato una ferita mortale, e per voi
sono morta!... — e si mise in via per uscire.
Valdrigo sbalordito dalla sorpresa le corse presso, la ritenne per la
mano, la ricondusse sotto l'albero, la fece sedere nuovamente, ma essa
non lo guardava, e non rispondeva alle sue scuse. Allora, disperato
d'averla offesa, disperato d'aver perduto quello sguardo che gli
penetrava nell'anima come un raggio di luce divina, si gettò a' suoi
piedi in ginocchio, e colle mani giunte, e le lagrime del pentimento
sul ciglio, gli ripeteva: — Perdonate, Silvia, perdonate, io non
credeva quei versi degni di voi, la vostra collera mi uccide, ogni
vostro desiderio è sacro per me, voi avrete quei versi che io tengo
nella mente, ne avrete ancora degli altri, se non mi negate quello
sguardo che m'ispira i più sublimi pensieri. — Allora Silvia volgendo
lentamente la testa verso Vittore lo guardò e lo vide sconvolto
dal dolore, cogli occhi infuocati pieni di lagrime, che domandavano
pietà. Commossa fino al fondo del cuore, gli pose una mano sul capo,
e pronunciando la dolce parola: vi perdono, avvicinò il suo volto
a quello del giovane, ed entrambi, trasportati da quell'estasi che
inebbria le anime giovanili, suggellarono con un bacio reciproco la
pace, e rimasero un minuto fuori del mondo.
Ma ohimè! la realtà della vita li richiamava sulla terra per mezzo
d'un fastidioso accidente. Uno scroscio di risa ruppe istantaneamente
l'incanto, come lo scoppio di un fulmine che sveglia dal sonno e
disperde i sogni beati da soavi visioni. Don Lio aveva sorpreso i due
giovani nell'atto del bacio, e ne menava uno scalpore indiavolato.
— Bravi, ripeteva battendo le mani, bravissimi!... Brava la futura
sposa del conte Leoni, bravo il nemico delle muse, lo schernitore di
Cupido! Egli confida nel silenzio delle Amadriadi e simile a Prometeo
tenta la salita del cielo per rapire il fuoco divino!
Le sue declamazioni mitologiche attirarono servi, la confusione si
diffuse per la casa. Silvia umiliata si ritirò nella sua stanza,
Vittore tentò invano di giustificare la fanciulla. Don Lio fu
l'implacabile accusatore del delitto. Il nobile Almorò degli Orseolo,
intimò a Valdrigo lo sgombro immediato dalla casa. La nobildonna
Fulvia non poteva darsi pace d'un tale scandalo, il cavaliere
servente Partecipazio ne strabiliava. Don Lio accusava il seduttore
d'insaziabile ambizione, Partecipazio sosteneva che il popolo è
divenuto oltremodo vizioso, che non bisognava troppo proteggere la
gente bassa, e rimproverava alla nobildonna la sua debolezza, il suo
capriccio di tollerare in famiglia un villano, e dichiarava che tutti
devono rimanere al loro posto, i bifolchi alla marra, i nobili alla
toga. — Per quanto farete, egli andava ripetendo, i villani resteranno
sempre villani, il sangue non si cambia, la nobiltà dell'uomo scorre
nelle vene. Il mondo sarà sempre così! e Don Lio approvava abbassando
la testa, sollevando le braccia e agitandole in segno di profondo
convincimento.
La figlia colpevole dovette comparire davanti alla madre, alla quale
spiegò ingenuamente il motivo di quel bacio tanto fatale. La madre
la minacciò di rimetterla in convento fino al ritorno dello sposo,
al minimo indizio di civetteria; la ammonì a tenersi in riserva, e
soggiunse: — Se Valdrigo fosse stato un nostro pari, certo non avrei
permesso la vostra intimità, ma come poteva io sospettare che un uomo
senza nascita potesse farvi discendere sino a lui? Quando sarà finita
questa benedetta missione diplomatica del conte Leoni faremo subito
il matrimonio, ed allora sarete libera; ben inteso, sempre nei limiti
delle convenienze, scegliendo il vostro corteggio nel libro d'oro, e
possibilmente fra quelli di antica data.


XVII.

Vittore Valdrigo si rifugiò nel seno di sua madre. La povera donna
piangeva con lui, e si desolavano entrambi, non per la perduta
protezione, ma per le false accuse colle quali interpretavano uno
slancio di sentimento non disgiunto dal più profondo rispetto. La
povera Rosa consolava suo figlio con ingenue ma affettuose parole,
perchè il suo linguaggio era quello della semplice natura.
Dopo il primo sfogo violento dell'anima offesa, Valdrigo scrisse una
lettera ai nobili Orseolo nella quale giustificava la sua condotta,
e dichiarava la sua eterna riconoscenza dei benefici ricevuti.
Non risposero, ma gli fecero pervenire tutti gli oggetti che gli
appartenevano, come ultimo indizio di completo abbandono. Rosa sgombrò
la stanza della torre, la fece imbiancare, vi collocò un buon letto,
un tavolo, due sedie, e vi depose con religiosa attenzione tutte le
quisquiglie da rigattiere che costituivano il corredo del figlio.
Egli si abbandonò ad una profonda tristezza, ad un letargo che
pareva assopire il suo dolore, ma non era che l'effetto d'un vuoto
immenso che isolava la sua esistenza. La buona Rosa lo osservava di
sottovia, rispettava i suoi lunghi silenzi, lo serviva colla assiduità
instancabile dell'affetto materno. Alle sue parole di riconoscenza
rispondeva con un bacio, alle sue domande d'acqua gli portava del vino,
e gli metteva sul tavolo del pane caldo, dell'uva secca, delle frutta.
Per lui ci doveva essere ogni giorno la panna, il butirro fresco, e
si dovevano raccogliere nel pollajo le uova ancora tiepide. Zammaria
brontolava, ma Rosa levava la testa e gli faceva certi occhiacci che
dovevano significare una spaventosa minaccia, perchè a quel cenno
il marito cessava da ogni lamento ed usciva zufolando un'arietta
concitata, ma inoffensiva.
Quando le sembrava di poter parlare senza essere importuna, la Rosa
si studiava di consolare suo figlio, dicendo: — Fatti animo che non
siamo poi tanto poveretti, quantunque contadini. Gli animali della
stalla sono tutti nostri, e qualche bel zecchino l'ho messo da parte
colla mia economia. Nel fondo del cassone ho un involto di ducati
nascosto in un pajo di calze, e tu potrai disporne a tua voglia.
Zammaria ripete sempre al padrone che gli anni sono cattivi, ma non è
vero, naturalmente queste cose si debbono dire perchè non crescano gli
affitti, ma coll'ajuto del cielo, si vive, e si mette anche qualche
cosa da parte.
Egli ringraziava sua madre, e dichiarava non aver bisogno di nulla.
A poco a poco l'abitudine prese il suo dominio; e i giorni passavano
vuoti di opere ma ripieni di pensieri, di contemplazioni, di sogni.
I progetti tenevano luogo dei fatti, chè Valdrigo vedeva bene
gl'inconvenienti d'un ozio prolungato, e confessava a sè stesso che la
sua educazione, e il suo genio lo chiamavano altrove, che il momentaneo
ritiro nella solitudine doveva essere una specie di cura medica delle
ferite del cuore, non mai l'ultimo destino della sua vita. Ma la cura
era fallata e invece di sanare le piaghe inacerbiva le ferite. La
solitudine ingrandisce i fantasmi, stende un velo sul mondo positivo,
e dischiude l'adito al regno dei sogni. Nella solitudine Silvia gli
sembrava più bella, e nel vasto universo deserto, essa dominava con
tutta la forza del mistero. Agli occhi di Valdrigo essa non era più
donna, ma apparteneva alle fantastiche legioni degli angeli, anime
tutte divine, vestite di candide forme e di eterei sembianti. Nella
solitudine l'amore diventa una religione, e gli amanti simili ai devoti
eremiti si lasciano assorbire dalla adorazione degli idoli, ingranditi
ai loro sguardi per l'effetto dell'esaltazione mentale. Questa vita
di contemplazione bastava al suo spirito. Intanto venne l'inverno, e
sua madre tentava invano di fargli abbandonare la campagna deserta,
e invano ogni giorno gli offriva del denaro perchè potesse recarsi a
Venezia o almeno a Treviso per seguire il suo destino, e guadagnarsi
una vita onorata con un lavoro adeguato alla sua educazione ed alla sua
capacità. Egli le prometteva sempre di partire, ma rimaneva.
Le nostre cortesi leggitrici, se avremo l'alto onore di averne,
diranno: — Ma che cosa poteva fare un artista alla campagna, d'inverno
in una bicocca di contadini, nella più profonda solitudine?... —
Gentilissime signore, riflettete un momento che gl'innamorati non sono
mai soli, e gli artisti nemmeno. Valdrigo passeggiava in compagnia
d'una donna immaginaria, la più bella fra le belle, la più sommessa fra
le schiave. Ella era tutta sua, e gli teneva luogo d'un popolo: quelle
solitudini abbellite dalle sue chimere erano il suo dominio, e gli
tenevano luogo d'un regno. Egli faceva un sogno delizioso e non voleva
essere risvegliato. E quante volte, cortesi leggitrici, non avete
trovato voi stesse i vostri sogni segreti più belli della realtà!
Permettete dunque che Valdrigo rimanga qualche tempo in campagna,
malgrado la perversità della stagione, che egli però trovava secondo
i suoi gusti. I rami secchi degli alberi, le foglie cadute, il cielo
nebbioso, la natura morta convengono perfettamente a certe condizioni
dell'animo, quando un pensiero e un'immagine riempiono il cuore. Le
anime leggere e i cuori vuoti cercano avidamente i frivoli piaceri del
mondo, i balli, i teatri, le feste. Ciascheduno ha bisogno della folla
per cercare un compagno. Chi l'ha trovato, chi l'ha perduto per sempre
può vivere nella solitudine.
Valdrigo usciva a passeggiare pei campi deserti, quando l'aria gelata
aveva cristallizzata la nebbia sugli alberi. Quella scena era per lui
uno spettacolo fantastico, un mondo di cristallo. I rami delle piante,
le siepi, l'erba secca delle rive si trasformavano in lucidi brillanti,
i salici piangenti parevano diventati fiocchi giganteschi di candida
ciniglia, il ghiaccio dei fossi presentava l'apparenza dei moarri
di Lione che servono di veste alle regine, ma che sono una debole
imitazione della natura. E i giorni di neve le vaste campagne coperte
da un bianco tappeto mandavano dei riflessi azzurri, e presentavano
l'aspetto di quei deserti del polo, che ci vengono descritti dagli
arditi viaggiatori. E alla notte la luna battendo sulla neve i suoi
raggi raddoppiava la luce pel riflesso della bianca terra, e faceva
brillare uno strato infinito di diamanti. Chi non ha veduto la campagna
d'inverno non conosce uno spettacolo degno d'ammirazione.
Venne la primavera, coi fiori delle siepi, col canto degli uccelli,
cogli aliti imbalsamati pregni di amorose malìe. Chi avrebbe
abbandonata la natura nel momento incantevole che si desta dal sopore
del verno?... Non certo un innamorato, un poeta, un sognatore. L'estate
offriva al pittore i più vaghi motivi d'ombra e di luce. La falciatura
dei prati gli apportava il profumo dei fieni recenti, la mietitura
del frumento gli mostrava l'effetto della porpora sull'oro, per mezzo
dei rossi papaveri confusi ai covoni delle spiche mature. Il canto
dell'allodola pareva rispondere alla canzone della spigolatrice,
entrambe solitarie, e forse entrambe innamorate. L'autunno lo riteneva
col prestigio delle sue frutta, col gajo spettacolo dei pampini carichi
d'uve, colle tinte variopinte delle foglie.
Egli osservava e ammirava, voleva imitare le armonie della natura
col suono del violino, e colla matita disegnava i gruppi degli alberi
antichi, le movenze degli animali pascolanti, gli atteggiamenti delle
rustiche fanciulle che danzavano sul prato, o andavano alla pesca
lungo le rive, o nelle acque cristalline. Così passò il primo anno.
All'autunno i nobili Orseolo vennero a villeggiare senza Silvia. La
nobildonna Fulvia, per salvarla dalle supposte insidie dell'ambizioso
Valdrigo, l'aveva confidata ad una amica elegante che villeggiava sulla
Brenta in mezzo a numeroso corteggio di sdolcinati cicisbei.
Vittore si decise di ritornare a Venezia, terminato l'autunno, ma i
giorni di novembre erano così belli di tristezza che lo ritennero con
una forza insormontabile. Alla madre che gli chiedeva il giorno preciso
della partenza per le ultime disposizioni da prendersi egli rispondeva:
— Domani. — Domani! arcana parola, giorno indeterminato che esiste
ma non è iscritto precisamente in nessun mese dell'anno, in nessuna
divisione della settimana! Domani vuol dire il futuro misterioso,
l'avvenire che sta in mano di Dio! Tutti abbiamo un domani fatale; oggi
la vita, domani la morte! oggi i lampi del genio, domani le tenebre
della tomba!
Il domani di Valdrigo non arrivava mai. Oh! l'indolenza delle anime
quanti furti commette verso la patria. Quante opere insigni, non si
fecero per aspettare un domani il quale non giunse che per annunziare
la vanità degli umani progetti! — Domani diceva Valdrigo, e accendendo
la pipa si gettava sull'erba fra i vortici di fumo. L'indolenza
è una malattia dell'anima raramente acuta, quasi sempre cronica e
incurabile. Quando s'incomincia a far niente, non si esce dall'incanto
di quella dolcezza senza una scossa violenta. È la storia di Rinaldo
nei giardini di Armida. Chiunque avrà provato in sua vita la malattia
del far niente, non sarà punto sorpreso al nostro annunzio che Valdrigo
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