Il dolce far niente: Scene della vita veneziana del secolo passato - 12

Total number of words is 2560
Total number of unique words is 1238
37.7 of words are in the 2000 most common words
53.2 of words are in the 5000 most common words
61.3 of words are in the 8000 most common words
Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
— Purchè sia salvo dalla prigione vada pure in esilio, purchè sia
libero e possa rivedere il sole e la campagna che egli ama tanto...
parta pure da Venezia... e... sia felice... e sia fatta la volontà di
Dio!... Voleva dire: — e siate felici, ma si avvide che non conveniva,
e mutò la frase.
Silvia intenerita da tanta annegazione, pensò: — lo ama più di me! — e
stesa la mano alla fanciulla, volle tener stretta la destra di lei in
atto di perdono e di simpatia, e le disse con sincera espressione:
— Siete una buona fanciulla... e il cielo vi proteggerà...
Questa specie di capitolazione istantanea stravolse i pensieri della
povera Maddalena, che non trovando più la forza di frenare le sue
emozioni proruppe in singhiozzi affannosi, ed in lagrime abbondanti.
Silvia avvicinatasi alla fanciulla la consolava con dolci parole, e
Maddalena sempre più intenerita, le ripeteva fra i singhiozzi e le
lagrime: — Salvatelo... salvatelo ad ogni costo... voi sola potete
salvarlo.
Così fra le varie e strazianti commozioni rimasero lunga ora, piangendo
insieme, pregando e promettendo a vicenda, sperando, e sospirando
quando un domestico venne ad annunziare alla signora che Sua Eccellenza
il conte Orseolo la aspettava nel gabinetto del conte Leoni per una
comunicazione importante.
Silvia si levò, e congedandosi dalle donne, disse loro: — Consolatevi,
mio padre deve essere andato alla legazione francese per parlare
in favore di Vittore... Ahimè! pur troppo il Serenissimo Doge,
l'Eccellentissimo Senato, e tutti i Magistrati della Repubblica, sono
oramai i vassalli della Francia nostra nemica, e dipendono dalla sua
possente volontà... a rivederci un'altra volta... Rosa, sperate...
e voi pure, Maddalena... un giorno sarete forse felice... ed io
vi prometto di cooperare alla vostra felicità, perchè sento che la
meritate... e ne avete più diritto di... di altre persone. — Voleva
dire più di me, ma corresse la frase prima di pronunciarla.


XXXV.

Quando un paese subisce gli ordini degli stranieri, l'ora della sua
morte è vicina. La neutralità disarmata, cioè il dolce far niente,
abbandonava Venezia inerme in balìa dei francesi. Spento l'antico
valore nei baccanali, e ammollite le fibre dei cittadini nella lunga
pace, nelle abitudini effeminate, nei piaceri d'una vita dilettosa,
l'indolenza aveva preso il posto dell'operosità, e la paura succedeva
al coraggio. I tempi delle guerre di Costantinopoli, Candia, Cipro
e Morea erano tramontati per sempre. Colla morte d'Angelo Emo erano
spenti gli eroi della tempra di Enrico Dandolo, di Vittor Pisani, di
Carlo Zeno, di Francesco Morosini. La vecchiaia aveva rimbambito la
Repubblica, le altere minaccie che avrebbero animato gli antichi alla
lotta, facevano piangere l'ultimo Doge. Spento ogni vigore di governo,
la città si divideva in partiti.
I sostenitori delle antiche leggi e degli aviti costumi, si stempravano
in lamenti imbelli e odiavano i francesi; ma alle armi che invadevano
lo Stato, rispondevano con impotenti proteste. I partigiani entusiasti
delle nuove idee spingevano la patria alla rovina, colla stolta fidanza
di trovare la libertà nella perdita della indipendenza. Fra questi
estremi in lotta si agitava il partito che si solleva in tutte le
rivoluzioni, come la schiuma nel mare burrascoso, e barcheggiando fra
gli uni e gli altri, cerca di cavarne il denaro, e gli onori.
Il governo mandava deputati a Bonaparte vincitore, il quale rispondeva:
— «Io sarò un Attila per lo Stato Veneto. Non voglio più Senato, non
voglio più inquisizione. Verrò io a rompere i piombi, barbarie dei
tempi antichi... le opinioni devono essere libere!» —
Tutto era perduto!... Mancava la forza per resistere e il genio per
governare; dovevasi aprire la porla alla libertà, e chiuderla in faccia
agli stranieri. Hanno fatto tutto al contrario!...
Il giorno 12 maggio 1797 fu l'ultimo per la repubblica che da Paolo
Lucio Anafesto a Lodovico Manin visse quattordici secoli indipendente e
gloriosa!
Una colonia di famiglie sfuggite alle stragi dei barbari venne a
piantare le sue tende sulle isolette deserte della laguna. Povera,
ma laboriosa fabbricò le sue piccole dimore di legno, e le modeste
barchette necessarie alla sussistenza dei pochi abitanti.
Crebbe a poco a poco col traffico, abbellì la sua modesta dimora
col frutto degli onesti guadagni. Aumentata la popolazione e la
ricchezza, ampliò le case fino a che giunse a fabbricarle coi marmi
dell'Oriente, ad abbellirle colle statue della antica Grecia; le
barchette pescareccie diventarono forti navigli, che percorsero i mari,
e tornarono in patria onusti di tesori e di gloria. Dapprima marinaia,
commerciante e guerriera, fu poi madre e nutrice di sapienza e d'arti
gentili.
Ma l'acquisto di Cipro le apportò colla ricchezza l'amore della
voluttà, le morbidezze di corrotti costumi; la scoperta d'America le fu
fatale al commercio. Giunta all'apogeo della fortuna s'arrestò a godere
la conquistata grandezza.
Ma chi s'arresta è sorpassato da chi avanza. Venezia cinta del gemmato
diadema si adagiò mollemente sul manto ducale, e immersa in voluttuosi
pensieri mentre il leone ammansato dormiva ricevette gli omaggi del
mondo che ammirava lo splendore della sua bellezza. Nei giorni del
pericolo la sua spada irrugginita e il braccio infiacchito rifiutarono
il loro uffizio, essa non aveva più forze, il suo leone non aveva più
ruggiti. Allora fidente nella costanza della fortuna e nel prestigio
de' suoi vezzi, si cinse di fiori, e assopita dal dolce far niente,
chiuse gli occhi... — Quando li riaperse lo scettro e il diadema erano
scomparsi, i fiori s'erano mutati in catene, il leone, ferito nel
cuore, spirava... Fece uno sforzo per difendersi, ma troppo tardi!...
la regina era divenuta una schiava...


XXXVI.

L'ultimo giorno della repubblica, caduto l'antico governo avanti che il
nuovo regime entrasse in funzione, Venezia fu in preda all'anarchia.
Il popolo sommosso commise violenze e saccheggi guidato da alcuni
capi frenetici ed avidi di bottino, che eccitavano gli animi con
declamazioni violente, e si trascinavano dietro una folla esaltata da
tutte le passioni sfrenate.
Si apersero le carceri, e Valdrigo si trovò liberato al grido di viva
la libertà e l'eguaglianza! e sceso in piazza fra il popolo agitato,
apprese la caduta della repubblica. I diversi partiti minacciavano la
guerra civile, e gli scaltri birboni si studiavano di approfittarne
gridando ora viva san Marco, ora viva la libertà, tanto da fomentare
le discordie, la confusione e le ire. Alcuni cialtroni indemoniati
calunniando i vinti provocavano le vendette per trarne il loro
vantaggio, e si mettevano alla testa delle orde furibonde per guidarle
al saccheggio.
Al grido — morte all'aristocratico Leoni, morte al nemico del popolo,
— Valdrigo che si era incamminato verso la sua dimora si arrestò
commosso dall'indignazione e dal raccapriccio, e mutata strada seguì
la ciurmaglia scapestrata che correva armata di picche e di fucili ad
assalire il palazzo.
Deciso di difendere la dimora del suo protettore, egli si faceva largo
fra la folla, per giungere fra i primi, e il pensiero che forse avrebbe
potuto salvare la Silvia dall'imminente pericolo, animava il suo
coraggio. Quell'orda ubbriaca di truffatori mandava urli minacciosi,
imprecazioni e bestemmie, e Valdrigo ringraziava la Provvidenza
d'averlo riservato alla sorte fortunata di esporre la vita per la donna
che dominava il suo cuore.
Trovato chiuso il portone del palazzo si misero ad abbatterlo a colpi
di martello e di scure ed ogni colpo risuonava nell'anima di Valdrigo
con dolorosa impressione.
Gettata abbasso la porta, i saccheggiatori invasero il palazzo,
Valdrigo li seguì, e penetrando di soppiatto in una stanza che
conduceva agli appartamenti di Silvia, chiuse l'uscio dietro di sè, e
si mise a correre per quelle camere deserte, senza trovare nessuno.
Allora uscito per un'altra porta salì al piano superiore, ma ogni
appartamento era deserto, che gli abitanti avvertiti in tempo erano
usciti per una porta di dietro e si erano rifugiati in casa Orseolo.
Intanto il palazzo era stato invaso da ogni parte, gli armadi venivano
infranti e depredati, ogni cosa manomessa, in preda della distruzione
e della rapina. Valdrigo vagava come forsennato, coi capelli irti
sul capo, cogli occhi spaventati, sospinto dall'onda degli invasori,
ludibrio di forze irresistibili, spettatore impotente di tanta
desolazione.
Confinato dalla folla irrompente, nel vano d'una finestra, vide con
indescrivibile spavento delle nubi di fumo uscire vorticose dal lato
della galleria.
Gl'infami predatori, non potendo forzare le porte le avevano
incendiate, e il fuoco s'era appiccato ai quadri e distruggeva le opere
preziose dei più insigni pittori.
All'anima dilaniata dalla vista delle profanazioni di tanti oggetti
consacrati dalla sua venerazione e dal suo amore, s'aggiunse lo
spettacolo dell'arte violata e distrutta dalla barbara brutalità degli
scellerati. L'amante e l'artista erano parimente colpiti.
La sua esaltazione giunse al colmo; egli sentì il delirio della collera
che gli invadeva il cervello, e gli metteva in oscillazione tutte le
membra frementi spingendolo alla vendetta.
Era disarmato, ma dato di piglio ad un brandone di legno staccato da
un mobile infranto si fece largo fra la folla, e sceso nella galleria
cogli occhi che gli uscivano dalle orbite s'arrestò nel luogo ove
pochi mesi prima aveva collocato il suo quadro dei pescatori. — La
tela era stata distrutta dall'incendio, ed appena una parte della
cornice pendeva ancora dal muro!... Il fuoco era stato spento dagli
stessi incendiari, i quali temendo di non poter uscire per l'ingombro
della folla, spaventati dall'idea di morire bruciati, ed anche spinti
dall'avidità del furto, avevano soffocate le fiamme.
Vittore, divenuto come pazzo dalla disperazione di veder distrutta
un'opera che gli costò tanta fatica, si mise a menare dei colpi
disperati nelle gambe, nelle schiene e nelle teste dei birboni, che
tagliavano le tele per distaccarle più presto dalle cornici.
Ai primi colpi, spaventati o colpiti, vollero fuggire, ma poi rianimati
dai compagni che udito il tafferuglio erano corsi in aiuto, e resi
audaci dall'isolamento dell'assalitore, gli si scagliarono contro coi
coltelli.
Mentre ferveva la lotta, alcuni cittadini, armati in fretta per
ristabilire l'ordine turbato, seguiti dai buoni arsenalotti e da un
drappello di bombardieri accorrevano al palazzo Leoni per frenare il
furore del popolo. All'intervento della forza regolare i saccheggiatori
sgombrarono dal luogo, abbandonando Valdrigo disteso sul pavimento
della galleria, privo di sensi ed innondato di sangue.


XXXVII.

Rosa e Maddalena, appena udita la liberazione dei prigionieri, erano
accorse verso le carceri per incontrare Valdrigo. Giunte in Piazzetta,
lo cercarono inutilmente fra la folla, ed avendo inteso parlare
d'una ciurma minacciosa che s'era indirizzata al palazzo Leoni,
congetturarono tosto che si fosse recato colà per prestare la mano alla
difesa. Vi giunsero qualche tempo dopo l'arrivo de' soldati, mentre
un medico assistito da qualche altra persona, collocava Valdrigo sopra
un letto, apportato nella stessa galleria, non giudicando prudente di
trasportare il ferito. È più facile immaginare che descrivere la loro
desolazione, però la necessità del momento le obbligò a soffocare ogni
dolore per darsi all'assistenza del povero giovane, che aperti gli
occhi parve consolarsi della vista della madre e della fanciulla, come
della apparizione di due angeli discesi dal cielo in suo ajuto.
Ripararono alla meglio il disordine del locale in parte saccheggiato,
in parte guasto dalle fiamme, in parte ancora adorno di stupendi
dipinti.
Essendo infrante le invetriate, chiusero le finestre colle porte
degli appartamenti vicini, e con dei frammenti di tappeti, lacerati
dagli invasori, cercarono d'impedire l'ingresso dell'aria. Il chirurgo
medicando le gravi ferite scuoteva il capo in alto di sfiducia; Rosa e
Maddalena gli prestavano la più affettuosa assistenza. Alcuni cordiali
opportunamente somministrati parvero giovare alquanto al malato, e la
speranza ravvivò lo spirito affranto delle povere donne.
Sulla sera, Silvia accompagnata dai suoi parenti dai quali s'era
ricoverata nel momento del pericolo, rientrò nel suo palazzo
scompigliato dal saccheggio, attristato dalle lagrime e dal sangue,
e accorse subito a visitare il ferito che alla sua vista atteggiò il
pallido volto ad un mesto sorriso, che pareva volesse esprimere il
seguente pensiero:
— Sono lieto di morire, perchè non sono stato degno di vivere....
Silvia pensando con raccapriccio al passato, ai pericoli incorsi
nella sua vita, ed alla tremenda catastrofe del giorno, osservava con
pietoso sentimento lo sguardo eloquente di Vittore, e pareva che gli
rispondesse col muto linguaggio dell'anima:
— Tutto svanisce nella mia vita!... il primo, l'unico amore! — la
gioventù — la speranza di giorni migliori — la patria e le glorie degli
avi, calpestate dal furore del popolo.... non ho serbato che una cosa
sola, la virtù!... essa mi darà la forza di sopportare ogni disgrazia,
e di aspettare senza rimorsi.... il giorno del riposo.... l'eternità!
Alla notte le tre donne si chiusero nella galleria, e vegliarono
intorno al letto dell'infermo, rischiarate da una lampada che mandava
una languida luce su quella scena di dolore.
Valdrigo con l'occhio del moribondo guardava ora l'uno ora l'altro
di quei volti che assistevano con tanta pietà alle sue pene. Gli si
leggevano i pensieri sui lineamenti sparuti, agitati a seconda delle
sensazioni.
Fissava la Rosa con un'espressione d'affanno. La madre gli ricordava
la famiglia, le gioje innocenti dell'infanzia, la pace serena dei
campi illuminati dal sole, l'alito della vita che moveva le piante
e gli animali con un fremito arcano, sottomessa alla sublime volontà
della natura. Rivolto a Silvia, l'occhio semispento si animava d'una
scintilla, le labbra tremolavano d'un fremito convulso. Essa gli
rappresentava l'amore sublime, l'aspirazione perenne della sua anima
verso una felicità inarrivabile, il pensiero animatore della sua
esistenza. Guardando la Maddalena egli volgeva la testa verso il quadro
distrutto, ed una lagrima inumidiva le sue ciglia. Essa era stata per
lui il tipo perfetto dell'arte, il modello de' suoi studi, la causa del
suo trionfo d'artista. — Tutto era perduto!... Le gioje della vita, la
felicità dell'amore, le glorie dell'arte!...
Il moribondo chiudeva gli occhi, e il rantolo dell'agonia gli opprimeva
il respiro. — Allora forse un rimorso gli mordeva la coscienza e
amareggiava i suoi ultimi istanti. — L'apatia, l'indolenza, l'inerzia
avevano dominata la sua vita e soggiogato il suo genio! — La natura
lo aveva dotato di rari doni, egli li aveva sprecati. Nell'arte voleva
raggiungere la perfezione, nell'amore aspirava all'impossibile, della
vita non coltivava che le chimere ed i sogni!...
La contemplazione inoperosa, il dolce far niente, gli rendeva amara
la morte, il pensiero di non avere recato alcun vantaggio colla sua
esistenza, di non lasciare veruna traccia del suo passaggio sulla
terra, era il tormento della sua ultima ora. Alla mattina aperse
gli occhi, e quando il sole salutava i campi coi primi suoi raggi,
egli coll'estremo anelito della vita proferiva queste parole che
riassumevano il suo destino: — Ho aspirato a cose troppo sublimi! — e
abbandonato il capo sull'origliere, spirava.


XXXVIII.

La bruna gondoletta che menava all'estrema dimora Vittore Valdrigo
tracciava un solco nella laguna, che appena aperto svaniva senza
lasciare veruna traccia del suo passaggio. Tale fu la vita di lui,
tale è l'esistenza di chi perde i giorni nell'ozio, e spreca le ore in
vuoti vaneggiamenti e in chimere. Ciascheduno deve il suo tributo alla
società in ragione delle sue forze. Il dolce far niente è la rovina
degli individui, delle famiglie, e degli Stati.
Nel giorno che il giovane pittore scendeva nella tomba, lo scultore suo
compagno di studi, esponeva in Roma la bella statua di Psiche, nella
quale aveva trasfusa la sua anima.
La vita operosa gli fruttava onori e ricchezze. Egli visse ancora molti
anni circondato dall'ammirazione del mondo, eresse sui colli del suo
paesello nativo un tempio che rivela il suo amore per la patria e per
l'arte, e scolpì delle statue e dei monumenti che lo ricorderanno alla
più tarda posterità. Morendo lasciò i beni della fortuna alla famiglia,
e trasmise all'Italia il glorioso retaggio delle sue opere e del suo
nome immortale.

Villa Saltore, gennaio 1869.

FINE.
You have read 1 text from Italian literature.