Il dolce far niente: Scene della vita veneziana del secolo passato - 07

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infiacchita dominava la repubblica, comandava a Venezia con un orgoglio
proporzionato alle glorie passate, e teneva il popolo a vile come una
razza inferiore di sangue plebeo, condannata a servire. L'oltraggio
sofferto in casa Orseolo e l'amore infelice avevano inasprito il
cuore di Valdrigo, e la sua mente esaltata esagerava l'ingiustizia
dei privilegi e i difetti del governo. Egli andava quindi meditando il
modo più opportuno d'umiliare la superbia dei nobili, di ristabilire i
diritti del popolo, di demolire i pregiudizi, di emancipare la patria
dal dominio d'una aristocrazia orgogliosa e decrepita. Succede troppo
spesso negli Stati che le passioni politiche si alimentano di privati
rancori, e gli odii diventano spietati perchè confondono il bene della
patria colla brama di particolari vendette. Ogni congiura rappresenta
un bisogno, ogni bisogno si accompagna ad interessi, nei quali talora
le speranze dell'individuo prevalgono alla fede del cittadino. Così
nessun Governo potendo soddisfare ogni suddito, ogni Stato ha i suoi
malcontenti che mormorano, pronti a denigrare le migliori intenzioni,
attenti ad esagerare ogni fallo, ad avvalorare ogni sospetto, a
spargere false notizie, ad attizzare le passioni.
Il popolo di Venezia era semplice e tranquillo, soddisfatto nei
bisogni e nei gusti della vita, lusingato da sempre nuovi passatempi,
orgoglioso delle glorie d'una patria ammirata da tutti, egli amava e
rispettava il suo governo, e giudicava le ineguaglianze sociali come un
destino inappellabile, una eterna necessità, una volontà della divina
provvidenza.
Soltanto alcune menti filosofiche che meditavano i progressi sociali
e osservavano i sistemi invecchiati, e con occhio perspicace ne
scoprivano i difetti, prevedevano gli inevitabili mutamenti del tempo.
Il movimento della Francia, non ostante le precauzioni del Governo per
tenerlo segreto, penetrava in Venezia, come la luce del mattino entra
in una stanza per gli spiragli delle imposte chiuse e delle cortine
distese.
I filosofi francesi avevano i loro seguaci nella repubblica, e le nuove
dottrine battevano in breccia l'edifizio diroccato dai secoli e guasto
dagli abusi.
Si temeva ancora la severità del Governo, ma nel segreto del gabinetto
si divoravano i libri che venivano dalla Senna, tradotti nella Svizzera
e in Olanda.
I dettami della ragione, e i diritti dianzi incontrastati, ma
finalmente analizzati con fina critica e anatomizzati con implacabile
verità scotevano dalle fondamenta le leggi avite. I frizzi, i sarcasmi
scemavano il prestigio delle antiche istituzioni, i diritti dei nobili
e i doveri dei plebei si confondevano nei diritti dell'uomo, e uno
scetticismo spietato surrogava la venerazione d'ogni autorità.
Alle ragioni dei filosofi si associavano le querele e le accuse dei
malcontenti i quali si reclutavano fra gli ambiziosi delusi, fra
gl'invidiosi, fra i rovinati dal giuoco o da cattive speculazioni, e
che speravano rifarsi disfacendo gli altri e sovvertendo l'ordine, per
abusare del disordine. Infatti tutte le umane passioni apportavano
il loro contingente alle idee di riforma, nate nelle menti sublimi
d'uomini immortali, secondate dai piccoli cervelli, dalle torbide
aspirazioni, dai minuti interessi di volgari litiganti.
L'amore deluso spinse Valdrigo nella corrente, trascinato in buona
fede dalle apparenze d'una filantropia che incominciava da sè, e d'una
politica che allo scopo di sopprimere i disordini, voleva immergere il
mondo nel caos per rifarlo. Frammischiandosi ai malcontenti e facendo
lega con loro, il giovane artista trovò facile adito nei conciliaboli
segreti, e a poco a poco guadagnando terreno meritò la stima e la
confidenza dei compagni che gli proposero d'iniziarlo nella vasta
associazione dei Franchi-Muratori.
Avendo accettato con giubilo la proposta venne iniziato alla setta
con tutti i misteri allora usati. La loggia dei Franchi-Muratori si
era stabilita a Venezia in una casa posta nella deserta contrada di
San Simeone grande, in un sito appellato _Rio Marin_, di proprietà del
procurator di San Marco Contarini, allogata a pigione ad un Colombo[6].
Una notte Vittore Valdrigo fu introdotto in tale casa da due amici,
che dopo attraversata la camera detta _delle riflessioni_, lo fecero
entrare nel _Tempio_, locale bujo colle pareti tappezzate di panno
nero. Nel mezzo sorgeva un trono coperto di drappo turchino guernito
di trine d'oro; e vedevasi uno specchio con cortina di velo ceruleo,
che ad aurei caratteri aveva a trapunto la seguente iscrizione: SE
AVETE UN VERO DESIDERIO, SE AVETE CORAGGIO ED INTELLIGENZA, TIRATE
QUESTA CORTINA ED APPRENDETE A CONOSCERVI. — Un lettuccio coperto di
nera tela sopra cui stava impressa una croce bianca e rossa ed un ramo
d'ulivo; tre gradini con vari candelabri; una piramide; un quadro a
chiaroscuro rappresentante un sasso ed una squadra col motto: DIRIGIT
OBLIQUA; altro quadro nel quale era dipinta una nave trabalzata da
burrasca colla sentenza: IN SILENTIO ET SPE FORTITUDO NOSTRA; un
terzo quadro colle immagini di una colonna a spira e di una squadra,
leggendovisi sotto: IN PRÆSENTI MODO ADHUC STAT; la statua di Cupido
cogli occhi bendati, e da ultimo un telaio con una pelle tesa dipinta a
geroglifici, standovi appeso un maglio per batterla a guisa di tamburo.
Quivi gli bendarono gli occhi e lo accompagnarono nella sala vicina che
si chiamava la Loggia. Colà fattolo sedere in una scranna a braccioli
gli dissero che qualora udisse tre colpi si sbendasse. Appena uditi
i tre colpi si tolse la benda e si trovò dirimpetto ad una tavola
coperta da un bruno tappeto sopra cui stavano un teschio, un lumicino,
e la iscrizione: Pensaci bene. Pendevano intorno ai muri cazzuole
e martelline dorate, spade con elsa d'argento e di acciajo, stili,
fazzoletti bianchi macchiati di sangue, ossarii, anfore e altri oggetti
bizzarri.
Poco dopo entrarono alcuni individui coperti di lunghe vesti nere col
bavero turchino orlato di bianco, alle cui estremità risaltavano una
piccola squadra e due spadine incrociate di metallo dorato. Erano
le cariche della Loggia: il Venerabile, il Vigilante, il Fratello
terribile, il Maestro delle cerimonie, il Tesoriere, l'Elemosiniere, il
Segretario, e il Grande Esperto; il quale fattosi innanzi al candidato
gli disse: — Udite le massime principali dei Liberi Muratori, e i
tremendi castighi inflitti ai traditori, — e con voce lenta e grave, in
mezzo al generale silenzio pronunciò queste parole: — «Dio ha creato
l'uomo in libertà naturale e pienissima, siamo quindi tutti eguali.
La libertà non si restringe senza grave ingiuria verso Colui che a
tutti la diede. Per questa pienissima libertà naturale a noi tutti così
benignamente impartita, Dio s'appaga dell'omaggio degli atti interiori,
e non cura le esterne cerimonie. A Lui solo spetta il dominio assoluto
della terra ove pose l'uomo il quale violando la libertà naturale della
creatura, insulta il Creatore. Ora la Maestà suprema di Dio è stata
lesa, e l'umana libertà poco meno che distrutta dalla malvagità degli
usurpatori del diritto comune, che con colpevole violenza assunsero
gli attributi dell'Essere Supremo, e dominarono sulla ignoranza degli
uomini, i quali permisero tale usurpazione a proprio danno, e ad
oltraggio della giustizia di Dio! È dunque grande e nobile impresa, e
degna d'uomini onorati ed onesti quella di togliere l'umanità dalle
tenebre dell'ignoranza e dalle pressure della tirannide, è un sacro
dovere l'armarsi contro gl'infami usurpatori, ed anche ucciderli
essendo rei d'usurpazione verso i diritti degli uomini e la divina
podestà! Nè cotanto nobile e generosa impresa viene interdetta
all'ebreo, al protestante, al cattolico, al maomettano o a qualsiasi
setta, avvegnachè a tutti interessi altamente l'umana libertà e la
divina potenza! Ardua però e tremenda è l'impresa, dovendosi lottare
con forze organizzate e possenti, laonde si rende necessaria la scelta
d'uomini di solida tempra, di spirito forte ed ardito. Il segreto deve
essere inviolabile, pena la morte! piuttosto che svelare l'arcano e
tradire la nostra società, il fratello deve lasciarsi estirpare le
viscere e svellere il cuore dal petto senza proferire un accento; chi
non si sente forte abbastanza per giurare sulla sua anima di conservare
il silenzio anche a queste condizioni, si alzi, e si allontani...»
Valdrigo rimase fermo al suo posto. Allora il Fratello terribile
snudandogli un braccio ed una gamba, e bendatolo di nuovo lo condusse
in altra stanza. Colà gli venne chiesto il nome, il cognome, il padre,
la patria, la professione, e gli annunziarono un salasso e delle botte
di fuoco. Valdrigo rimase imperterrito, e non gli fecero niente. Allora
una voce profonda gli chiese cosa volesse, ed egli rispose — la luce
— che così gli avevano prima insegnato. Allora toltagli nuovamente la
benda si vide in faccia d'una fiamma, circondato da spade colle punte
rivolte verso il suo petto, e la solita voce gli diceva: — In qualunque
tempo della vita sarete difeso — e avanzatosi d'un passo gli venne
ordinato di appoggiare una mano sul vangelo aperto sopra un tavolo,
e di giurare obbedienza e fedeltà. Dopo di che chiamandolo fratello e
baciandolo in volto gl'indicarono i toccamenti o segnali per conoscere
i soci, che consistevano nel mettersi una mano sotto la gola; o colla
mano sinistra prendere l'indice della destra e dargli col pollice
tre colpi. Gl'insegnarono inoltre una parola d'ordine, e il modo di
servirsene. Finite le cerimonie si sedettero ad un banchetto fraterno
ed alla parola — mano all'arme — fuoco — bevettero porgendo un brindisi
al fratello principe di Brunswich, alla madre Loggia di Londra, e ai
fratelli di Venezia![7]
Valdrigo dopo quel giorno prese parte esattamente a tutti i segreti
convegni della setta, ed ebbe libri e comunicazioni importanti sui
movimenti della rivoluzione francese. Le notizie estere venivano
raccolte da viaggiatori espressamente spediti, i quali talvolta
appartenevano alle classi sociali più elevate. Angelo Quirini che
sedeva in Senato faceva parte della Loggia, e visitò i confratelli
della Svizzera e di alcune città della Francia, e venne accolto ed
ospitato a Ferney da Voltaire. Altri viaggi in varie parti d'Italia,
in Germania ed in Svizzera vennero fatti dai due Liberi Muratori
Sebastiano Grotta e Francesco Battagia, ragguardevolissimi patrizii,
e i gran Maestri e graduati convennero in una Dieta Generale Massonica
aperta a Wilhemsbad nel granducato di Assia-Darmstadt[8].
Nelle riunioni dei Franchi Muratori Valdrigo riconobbe con sorpresa
molti veneti patrizii che aveva veduti in casa Orseolo, e che erano
stimati solidi sostegni del Governo e degli abusi prevalsi. Fra questi
egli notava Girolamo Giustinian, Bernardo e Lorenzo Memmo, Alvise
Pisani, Morosini, Soranzo, Falier Erizzo, Andrea Tron e Giovanni
Pindemonte. V'erano tre parrochi, quello di San Michele Arcangelo,
di San Maurizio, e di San Giovanni Crisostomo, e perfino un Gesuita
Agostino, Signoretti[9].
Strinse particolare amicizia coi due fratelli Giuseppe ed Alessandro
Albrizzi, distinti amatori di belle arti, e quindi legati d'intimità
coi migliori artisti di Venezia.
Allo scopo di propagare le massime adottate, Valdrigo si frammischiava
col popolo; e per non eccitare sospetti indossava le vesti dei
pescatori. Portava i zoccoli di legno cogli alti talloni, le calze
lunge sopra i calzoni, la maglia a larghe righe bianche e cerulee, il
ruvido cappotto col cappuccio, il berretto dei chioggiotti. Seduto
con Beppo e gli altri battellieri intorno ai tavoli delle bettole
affumicate trincava alla salute dell'avvenire, mentre il presente se
ne andava coi vortici di fumo della sua pipa di terra cotta. Le teorie
dell'eguaglianza sociale solleticavano generalmente i gondolieri senza
impiego, i pescivendoli senza soldi, e incontravano la diffidenza
e le opposizioni di quelli che trovandosi al servizio delle case
patrizie gavazzavano nell'abbondanza, e si sentivano dei bei ducati in
saccoccia.
Pochi intendevano il vero senso delle dottrine propagate da Valdrigo,
pochissimi avevano fiducia nelle sue promesse, e in un mutamento
qualunque. Per altro qualche parola gettata per caso, qualche lamento
circolante oscurava l'orizzonte, e si sentiva in aria un certo che
d'inusitato e di strano. I vecchi rimpiangevano i giorni beati della
loro gioventù, i bei tempi passati, ed accusavano i giovani di perdere
il rispetto all'autorità e alla vecchiaja, di mettere in derisione gli
usi e i costumi della patria, di riscaldarsi la testa con novità da
sognatori e da matti.
Valdrigo censurava l'albagia dei nobili, le loro pretese, i privilegi
usurpati al popolo, e sforzandosi di pensare alla patria, pensava a
Silvia, e l'amore soffiava nella politica gonfiando gli argomenti.
Maddalena sollecitava invano il giovane pittore a riprendere il lavoro,
egli rispondeva col solito _domani_ che aveva servito di risposta alle
preghiere materne, oppure metteva in campo pretesti d'occupazioni più
gravi e più utili, o voleva dimostrarle la vanità di un'opera che certo
non avrebbe raggiunto il merito dei più insigni pittori; e quindi egli
soggiungeva: quando nelle arti non si perviene a trovare la perfezione,
è meglio far niente.
E usciva con Beppo, e talvolta giungeva a persuadere la Maddalena ad
accompagnarli alla pesca; essa non resisteva gran tratto e lieta di
passare alcune ore con lui s'imbarcava coi pescatori, e uscivano dal
porto.
La pronta intelligenza serve l'uomo in ogni occasione; e Valdrigo
non aveva impiegato molto tempo a diventar marinajo. La vita del mare
aveva fortificato le sue membra, e abbrunato il suo volto. Nei facili
tragitti egli era in caso di dirigere il timone, ed aveva imparato ad
issare e ad ammainare le vele, a legar le sarte all'antenna, a gettare
e raccogliere le reti.
Egli non usciva alla pesca quale semplice spettatore, ma prendeva parte
alle fatiche dei compagni, e divideva con loro le lotte contro i furori
del mare.
Maddalena lo contemplava con sorpresa, e ammirava la versatilità
di quell'uomo, deplorando vivamente che la mobilità del carattere
gli rendesse impossibile la perseveranza e la fermezza nelle cose
intraprese.
Nelle ore di bonaccia egli si gettava sul ponte vicino a Maddalena e
le faceva osservare la sublimità dell'infinito davanti la solitudine,
e le spiegava i piaceri della navigazione, la libertà del mare, la
superiorità di quei silenzi, sui silenzi della terra, la bellezza
di quelle acque azzurre e di quel cielo sereno. Essa lo ascoltava
con religioso raccoglimento, al tocco delle sue mani fremeva, al suo
alitare sentiva un tremito in tutte membra, lo fissava in volto con uno
sguardo d'adorazione, ed egli levando gli occhi al cielo varcava gli
spazii sulle ali della fantasia, e pensava... alla Silvia.


XXIV.

Silvia era diventata la stella di Venezia. La nascita cospicua e
l'illustre maritaggio l'aveano collocata al primo rango della nobiltà,
la grande opulenza del conte Leoni la metteva al pari colle più ricche
famiglie, le grazie della persona, e i vaghi lineamenti del volto le
assicuravano il primo posto della bellezza, ed era infatto riconosciuta
da tutti come la più bella fra le belle.
Quando compariva nelle pubbliche feste colla fronte sfolgorante di
brillanti che davano un singolare risalto al languore degli occhi
trasparenti e profondi, vestita di ricche stoffe ricoperte di pizzi
preziosi e di gemme, la folla rispettosa le cedeva il passo e un
confuso mormorio d'ammirazione irresistibile seguiva il suo passaggio.
Un sorriso misterioso muoveva le sue labbra esprimente la bontà
rassegnata d'un'anima priva di letizia, e un velo di melanconia
cresceva la bella espressione de' suoi sguardi.
Dal giorno che l'abbiamo lasciata fanciulla, vittima d'un ingenuo
impulso del cuore, lunga sarebbe la storia de' suoi intimi pensieri,
breve quella dei fatti.
La natura e l'educazione, l'istinto e il pregiudizio lottarono nella
sua candida coscienza con tutta la forza d'una passione segreta. Un
arcano misterioso s'era svelato con un bacio, il bacio del perdono era
divenuto il bacio dell'amore, e quelle labbra congiunte per un minuto
avevano lasciata una traccia indelebile. Quel bacio era un nodo stretto
dalla natura, rotto istantaneamente dagli uomini; quella lacerazione
aveva prodotto una piaga e un intenso dolore; i farmachi impiegati per
sanare la ferita la inasprivano, non erano balsami ma fiele; l'ironia,
lo scherno, la minaccia.
La fanciulla offesa aveva nascoste le sue pene nei più impenetrabili
recessi dell'anima, decisa di custodire le sue sensazioni per sè, di
cedere al mondo quello che il mondo reclama, le apparenze esterne,
il sorriso delle labbra, le parole di convenzione. — La sua mente
perspicace, illuminata dai discorsi dei parenti, dagli esempi e dai
consigli delle amiche, le dimostrava chiaramente l'inutilità d'una
lotta colla famiglia, e colle convenzioni sociali, lotta ineguale,
impossibile; che cosa avrebbe potuto ottenere una voce del cuore contro
il sistema sociale e politico, contro le tradizioni dei secoli, contro
l'autorità assoluta dei genitori, e la loro onnipotente volontà?
D'altronde una opposizione tenace l'avrebbe confinata in un chiostro, e
quale sarebbe il vantaggio di tanto sagrifizio?... la tomba prima della
morte!...
Che cosa chiedeva il suo animo?... un affetto per Vittore. Che era
l'affetto?... Un pensiero perenne, un'arcana aspirazione, una tenerezza
misteriosa, un'adorazione sublime... e tutto questo era possibile
nell'intimo segreto della vita interna, senza turbare l'andamento delle
cose terrene e l'irrefragabile volontà del destino.
Visse dunque sommessa in apparenza, ma ribelle nel fondo alle
leggi della sua classe, aspettò il conte Leoni, come si aspetta la
fatalità, come si aspetta la morte, e pensò a Valdrigo come si pensa
all'impossibile, o alle cose d'un altro mondo, all'eternità, al
paradiso.
Era sorvegliata col rigore dei prigionieri di Stato, non parlò mai più
con Valdrigo; non lo vide che rare volte, da lontano, alla finestra
per un secondo, o di passaggio alla chiesa. Nessuno se ne avvedeva,
soltanto i due giovani si scambiavano uno sguardo, un lampo!... ma
quel lampo teneva vivo il fuoco sacro, ed equivaleva ad un linguaggio
sublime, il quale bastava ad occuparli intiere settimane nella
traduzione talora impossibile dei concetti trasmessi.
Così passarono dei mesi, e il tempo, che distrugge gl'imperi e le
nazioni, esercitava la sua lenta ma inevitabile potenza anche sul
cuore di Silvia. Il tempo scema ogni dolore e medica ogni piaga, ed
ogni malato deve sottomettersi al supremo destino di guarire o morire.
Silvia non guarì interamente, ma la piaga divenne cicatrice segnando un
solco profondo e incancellabile.
Intanto il conte Leoni, terminata la lunga missione diplomatica che
lo teneva lontano da Venezia, ritornò in patria, si presentò alla
futura sposa, e vennero fissate le nozze. Quest'uomo era immerso nella
politica segreta, e nei raggiri diplomatici di quei tempi minacciosi.
Conservatore per educazione e per nascita, apparteneva a quel partito
che non voleva transigere colle novità della Francia, e giudicava un
pericolo la minima concessione. Passava quindi per implacabile nemico
d'ogni più ragionevole riforma, ed era odiato dai partigiani della
libertà, e dalle sètte che volevano abbattere i privilegi e proclamar
l'eguaglianza. Di ricco censo, avvezzo al lusso delle Corti e splendido
per le avite tradizioni, egli presentò alla sposa i doni nuziali colla
prodigalità d'un principe, e gli Orseolo avevano apparecchiata una dote
degna dell'illustre prosapia, gareggiando collo sposo nella sontuosità
degli arredi e delle gemme; di modo che il proemio al matrimonio non fu
per Silvia che una lunga tortura di sartore e modiste che le provavano
le vesti, e spiegavano davanti ai suoi sguardi le magnificenze delle
arti, che più solleticavano la vista. I preziosi smanigli, le filze di
perle, i diademi di brillanti, gli abbigliamenti di broccato, i rasi
ricamati, gli sciamiti di seta doppia trapunta d'oro, i pizzi e i veli
trasparenti e leggiadri per vaghezza di disegno, i nastri, le nappe,
le pelliccie, ed una varietà innumerevole di pannilini d'ogni foggia e
d'ogni uso.
Il dire che Silvia rimanesse indifferente davanti a tante meraviglie,
non sarebbe l'espressione del vero, che anzi assorta nella
contemplazione di tali accessorii, essa dimenticava il principale.
Cosicchè il giorno delle nozze giunse come improvviso, e la pompa
solenne parve un sogno alla fanciulla sbigottita dagli omaggi delle
matrone e dei patrizii, e sbalordita dalle cerimonie religiose e
domestiche. Alla consacrazione davanti l'altare succedettero senza
posa i rinfreschi, il banchetto, le danze, la musica, e la sua mente
vacillava confusa fra il bagliore delle faci, il fruscio delle vesti,
il bisbiglio misterioso e confuso della folla elegante.
All'indomani della festa, un'infelice di più imprecava alla amara
sorte riservata alla nobiltà ed alla ricchezza, e invidiava i modesti
sponsali del popolo consigliati da reciproche attrattive e consolati da
un amore concorde.
Ma il popolo alla sua volta, mancando spesso del necessario, invidiava
il superfluo dei nobili e così pochi erano contenti. Questa è la sorte
comune della società, e ancora non si è trovato un sistema di governo
che renda tutti felici, e crediamo non si troverà così presto; quindi
la rassegnazione è stata sempre e sarà ancora per lunga pezza una delle
più belle ed utili virtù.
Silvia, che certo non mancava del superfluo, fra il quale considerava
anche l'epitalamio di Don Lio, si trovava priva del necessario, che per
lei era un cuor giovane e amoroso che rispondesse a' suoi sentimenti.
Legata per legge divina ed umana ai destini d'un estraneo al suo
affetto, essa soffriva il matrimonio come una malattia della sua razza
e ne cercava qualche rimedio adottando francamente la vita di Venezia
che moltiplicando le veglie, i piaceri e le feste, teneva lontani i
mariti, e liberava le mogli dalle loro noiose assiduità, giudicate
ridicole dai costumi eleganti, e assolutamente proscritte dalla società
dei patrizii e rilegate tra le abitudini volgari del popolo.
Così essa trovava la libertà nei legami del matrimonio, tanto è vero
che le leggi che si allontanano dai dettami di natura non ottengono
lo scopo che si propongono, e si conservano apparenti nella forma, ma
illusorie nel fondo. Di tale libertà però Silvia non abusava, chè se
i tempi corrotti autorizzavano e rendevano facili gl'intrighi, l'amor
vero non ha mai congiurato contro l'onore per deliberazione spontanea,
ed è rimasto sempre il guardiano del pudore e della virtù. Chi ama non
ardisce, e chi ardisce non ama, disse un sapiente scrittore, e appunto
Silvia amava, e non ardiva confessarlo a sè stessa. Però schiava del
dovere e dell'onestà, non poteva nè voleva raffrenare la libertà del
pensiero, il quale correva senza ostacoli alle memorie del passato,
e nelle ore di solitudine vagava in traccia d'un'anima sorella nel
dolore e nelle aspirazioni, del pari solinga e abbandonata dall'avverso
destino!... Infatti Silvia pensava sovente a Valdrigo.


XXV.

Esistono forse dei rapporti arcani, e una voce misteriosa che metta
in comunicazione due anime unite dalla simpatia e allontanate dal
destino?... Questo è ancora un problema oscuro, ma sembra che il
fenomeno esista, e se la scienza non ha saputo fino ad ora spiegarlo,
l'empirismo degli amanti ci crede. Si raccontano su questo rapporto
dei casi strani e meravigliosi di sensazioni lontane ma unisone, di
presentimenti profetici, e si narrano storie bizzarre di fatti creduti
sovrumani che nel Medio Evo si attribuivano alle streghe, e ai tempi
presenti si dichiarano effetti del magnetismo animale.
Forse alcuni fenomeni d'una apparenza sopranaturale sono naturalissimi
e normali, ma la dabbenaggine umana grida al miracolo, perchè ne
ignora le cause, ma l'uomo nel breve corso di sua vita mortale non
può conoscere tutte le leggi immortali dell'universo. Dopo una lunga
serie di secoli nella quale la scienza umana si arricchì di numerose e
sorprendenti scoperte, quanti sublimi misteri si celano ancora nelle
tenebre, quante leggi naturali rimangono ancora nascoste ai nostri
sguardi!...
Questa dissertazione metafisica ha lo scopo di avvertire il lettore
che Silvia e Valdrigo non si vedevano mai, ma si parlavano attraverso
gli spazi, attraverso i muri di Venezia, a grandissime distanze,
senza comunicazioni materiali, e le cose suddette giustificano la
nostra ignoranza con l'ignoranza universale, incapace di spiegare il
misterioso fenomeno. Ma il fatto esisteva, e forse esiste tuttora od
esistette fra la persona che legge queste povere pagine e qualche anima
lontana. Non è vero che si parla attraverso le montagne e l'oceano?...
Sicuro che il linguaggio di due spiriti non è composto di accenti
comuni e volgari, sicuro che quella voce arcana non dice: — Buon
giorno, signore, come sta lei?... vorrebbe favorirmi i numeri che si
cavano al lotto?... o dirmi il corso dei valori di borsa?.. — Queste
cose le può dire il telegrafo!... — Il telegrafo elettrico!... chi ci
avrebbe creduto nel Medio Evo?... Orbene, abbandoniamo la spiegazione
del telegrafo amoroso alle future elucubrazioni della scienza, e per
ora teniamoci paghi del fatto. Il fatto, quantunque misterioso, è
incontrastabile.
Silvia seduta mollemente in un ampio seggiolone a bracciuoli, in
una magnifica stanza tappezzata di antichi arazzi, e colle finestre
ricoperte da impenetrabili cortinaggi di ricche stoffe, stava tutta
sola pensando. Valdrigo cullato dai flutti del mare, coricato sul
cassero d'una barca peschereccia, contemplava il cielo sereno. A
poco a poco una corrente misteriosa d'idee gettava un filo invisibile
dal cuore di Valdrigo al cuore di Silvia; ecco il telegrafo amoroso
fissato, sul quale i sentimenti facevano i loro uffici, come le
parole attraverso il filo metallico del telegrafo elettrico. Che
cosa dicevano? Erano pensieri intangibili, sensazioni inesprimibili,
fantasie vaporose, aspirazioni vaghe indefinite, estasi e rapimenti che
si possono comprendere soltanto da chi li abbia provati.
La povera Maddalena, innamorata al pari di Silvia, non incontrava nel
cuore di Valdrigo che una elettricità negativa, egli si trovava a un
passo dalla bella popolana e a cinque miglia da Silvia; ma parlava
a questa e la vedeva parlante, e l'altra così vicina, gli era mille
miglia lontana dal cuore. O misteri della vita!...


XXVI.

Un giorno il nostro pittore s'era seduto in faccia al quadro dei
pescatori, e lo andava contemplando. — Non ci sarebbe troppo male!...
egli ripeteva fra sè, ma ci vorrebbe il coraggio di finirlo. Chi mi
darà questo coraggio?... e sospirava.
Alcuni colpi vigorosi del battente di casa lo scossero dai suoi
pensieri, e udendo una voce che chiedeva di lui, saltò in piedi, corse
precipitosamente ad aprire la porta della stanza.... e vide Antonio
Canova.
Reduce da Roma ove aveva scolpito il Teseo sul Minotauro, una statua
di Marte, un Amorino, Venere che inghirlanda Adone di rose, la Psiche,
vari bassirilievi e finalmente il grandioso Mausoleo di papa Clemente
XIII, collocato nella basilica di san Pietro, lo scultore era venuto
a Venezia per rivedere gli amici, e recarsi a respirare l'aria nativa
dei suoi colli di Possagno, per ristorare le forze affrante dalle
lunghe fatiche. Il Doge ed il Senato lo avevano accolto come un figlio
prediletto, e i più illustri patrizii andavano a gara per onorarlo
come una nuova gloria della patria, e gli allogarono il monumento
dell'illustre capitano Angelo Emo.
Fedele alle sue affezioni d'infanzia, Canova volle abbracciare
Valdrigo, e lo sorprese nel suo alloggio. Quella visita inaspettata
sbalordì Vittore, stupefatto ad un punto dalla gioia e dalla vergogna.
La fama gli aveva narrate le opere dell'amico; che cosa aveva egli
da contrapporre a tante insigni produzioni?.... nulla! Il piacere di
stringere fra le braccia un antico collega era dunque avvelenato dal
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