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il vecchio non ritenesse nè brodo, nè caffè, nè ovo. — Lo salvo io!
Gli versò, per la fessura della bocca, un bicchierino pieno di cognac.
E Procolo Granari riaprì gli occhi; ricompose la faccia. Sorrise.
La prostituta era contenta come d’un miracolo compiuto da lei.
— Non avete parenti al mondo? — chiese la carbonaia. E la fruttivendola:
— Non avete nessuno?
Procolo rispose, con abbastanza voce:
— Una figlia — suora — a Lugo.
— Bene! — notò, in disparte, Figuretta.
— Un’altra — ne ho — a Firenze — moglie d’un avvocato.
— Meglio! — Figuretta disse più forte.
Pausa. Ora il vecchio, affannato, agitava una mano; che gli ricadde, di
peso.
— Non c’è niente da fare — sentenziò la fruttivendola. Se ne andava con
lo spazzaturaio.
— Un gocciolo solo! — insisteva frattanto la Romana. — Un gocciolo solo,
poveraccio!
— Se l’ubbriachi, San Pietro non gli apre la porta! — ammonì, di lì
dov’era, Figuretta.
Ma Procolo voleva parlare. Gemè:
— Anche Reno — il mio cane — mi ha — abbandonato.
E il borsaiuolo:
— Si sarà messo con una cagna borghese.
— La contessa...
Una risata delle astanti, meno la Romana.
—... la contessa... — di via Goito...
E il borsaiuolo, serio, accostandosi:
— La contessa Torselli? La conosco. Quando usavano gli abiti «tailleur»
col taschino sotto il petto — una comodità — mi regalò il suo orologino
d’oro.
Nuova risata.
— Il conte... — ripigliava Procolo — il conte... — (non ricordava
neppure questo nome, il nome del suo padrone!) — Dalla fattoria —
vecchia — mi passò — alla — nuova. — Ero sempre stato — un galantuomo. —
Le ragazze — le avevo messe — in educazione...
— Bella educazione! — Figuretta seguitava a commentare.
— Vennero a casa. — Senza la madre — spendi e spendi. — Speravo. — Il
conte si ammalò...
— Ma non crepò. — Figuretta affrettava alla conclusione.
Concludeva anche Procolo.
— Quando fummo — ai conti — mi mandò via. — Ladro.
— No! Imbecille! — corresse a bassa voce il borsaiuolo. — Un fattore che
si fa cacciar via per ladro prima d’essere arricchito, che imbecille!
Entrò un’altra della casa di tolleranza. Bionda; sentimentale. E
Figuretta le diè luogo con una mossa da gentiluomo. Ma la ragazza
inorridì. Fuggì dicendo:
— Mi par di vedere il mio babbo!
— Tutto lui! Unica differenza, che la figlia di questo babbo qui fa la
suora a Lugo.
Non sorrisero al borsaiuolo che la carbonaia e l’ostessa, mentre se ne
andavano anche loro. Non c’era, infatti, più speranza di giovar a quel
disgraziato. Moriva.
Quando arrivò, finalmente, il signor Giulione. Non glien’era riuscita
bene una. Per il cordiale bisognava una bottiglietta o una tazza. Il
medico era impegnato. Aveva detto: — Se ha fame, dategli da mangiare. —
I pompieri non si muovevano che per un infortunio. All’Ospedale
pretendevano, com’è giusto, carte in regola.
— Tanto, è inutile — mormorò la Romana, sempre china su l’agonizzante;
alle cui labbra, di tratto in tratto, appressava il bicchierino.
Ecco: — Il prete — il morente potè dire con l’ultima voce.
— Non importa. Vi assolvo io — assicurò Figuretta.
Ma questa volta la Romana gettò all’amico una truce occhiata.
— Finiscila, per li mortacci tuoi! — E alla padrona di casa: — Accendete
una candela!
————
... Rimasero soli lor due, la prostituta e Figuretta.
Lei si inginocchiò. Pregava sommessamente. Lui attese un poco; indi le
si accostò, a dirle all’orecchio:
— Romana, prestami dieci lire per andar all’Eden. Prima di sera te ne
porto cinquanta.
Seguitando a pregare, la Romana tolse dalla tasca della vestaglia la
chiave del comò; gliela diede.
Allora il giovine si chinò su Procolo Granari e piano, ma spiccando le
sillabe come per farsi udire da un sordo:
— Diteglielo a Dio, se lo vedete, che la buona gente siamo noi!


IL TESTAMENTO

I.

Instaurato che sia il Comunismo non si udrà più ripetere quel che nel
paese di San Giorgio al Piano fu ripetuto nei caffè, in ogni bottega, in
ogni casa, in ogni canto alla morte repentina del sindaco comm.
Ceredoli: — Ha fatto testamento? — Non l’ha fatto? — Eredi i figli e le
figlie in parti uguali? E la vedova? La legittima alla moglie?
l’usufrutto? Di quanto? — Quanto avrà lasciato? Un milioncino? Meno?
Più?
Ah sì! beati i tempi in cui le eredità saranno di soli affetti! Lásciti
di tal sorta non muoveranno torbide invidie, e s’immagina come ne
godranno i figli amanti del dolce far nulla e le figlie amanti del dolce
far qualche cosa, ma con eleganza, con lusso, e coi necessari dispendi.
In quel paese, però, prevaleva allora alla curiosità bassa e oziosa un
desiderio discreto: sapere in che modo il commendatore Ceredoli —
sindaco benvoluto da quasi tutti — si era comportato davanti alla morte:
se aveva pensato al caso di spirare all’improvviso tra le braccia di
Sant’Andrea d’Avellino. E possibile non si fosse proposto di serbar
defunto la stima che vivo aveva meritata da quasi tutti: giudizioso,
giusto, onesto, modesto, caritatevole? Non era forse stato uno di quei
borghesi (di una volta) che seguendo le vecchie tradizioni domestiche
civili e religiose sapevan conciliare la borghesia alla virtù?

II.

Solenni i funerali; con lungo séguito, al trasporto, di gente concorsa
anche dalla città e dalle campagne. C’era una carrozza carica di
ghirlande e sul feretro una di puro lauro e una di fiori candidi:
significato chiaro in questa se non in quella pur alla scarsa
intelligenza del popolo. E i preti e i frati recitavan le preci con voce
così cordiale che si sarebbero detti del tutto contenti. I discorsi alla
Porta, prima che il carro svoltasse per l’ultimo tragitto, non finivan
più; e i saluti alla salma parevan auguri d’un viaggio che nessuno degli
oratori credesse dover compiere anche lui, un giorno o l’altro. Poi, al
ritorno, l’assessore anziano interrogò i colleghi se non trovassero
opportuna l’idea di dedicare all’illustre estinto un busto di marmo, nel
giardino pubblico.
— Purchè non si oppongano le disposizioni testamentarie — osservò il
segretario del Comune.

III.

Sempre allegro, Agosti, il segretario del Comune, sudava a non ridere
nelle gravi circostanze perchè ne rilevava, a sè stesso e agli altri, i
contrasti comici. Così ammoniva: — Siamo seri — appunto quando più
presentiva il pericolo di scoppiare in una risata aperta o in singhiozzi
di riso irrefrenabile. — Siamo seri — susurrò all’orecchio dell’amico
assessore dell’Igiene entrando nel salotto di casa Ceredoli. L’intera
Giunta ci era venuta per la visita di condoglianza alla vedova e per
informarsi intorno al testamento.
Ed ecco aprirsi l’uscio e presentarsi la vedova accompagnata dalla luce
della gran vetrata di contro. Agosti, che teneva gli occhi bassi (—
siamo seri! —), ebbe da quella luce una rivelazione, uno spettacolo
strano e inatteso. La signora aveva indossato in fretta la veste nera
senza pensare che la tenuità del tessuto la rendeva trasparente. E
mostrava come velate impudicamente le gambe. E che gambe! due colonne
calzate d’un colore dubbio e basate su due piedini in scarpine lucide.
Bastò. Sentendo che gli sarebbe vano ogni ritegno il segretario si
volse, e col fazzoletto al viso andò a scoppiare presso l’altra
finestra. I suoi singhiozzi ruppero il silenzio di quegli istanti, e
l’assessore anziano, mentre egli e i colleghi s’inchinavano, ne
approfittò a proferir belle parole d’occasione.
— La commozione così sincera del nostro segretario le dimostra, signora,
quanto il suo signor marito era amato dai dipendenti e come grande debba
essere il cordoglio dei suoi colleghi del Consiglio comunale che noi,
qui, abbiamo l’onore di rappresentare.
— Grazie..., s’accomodino... — balbettava la vedova col fazzoletto in
mano.
E tutti sedettero, tranne Agosti che le commoventi parole dell’assessore
anziano indussero a singhiozzare più forte.
— La Giunta anzi — seguitò il capo della Giunta — ha in animo di
proporre al Consiglio che le virtù dell’illustre estinto e il compianto
della cittadinanza siano ricordati in un monumento, in un busto...: se
pure le disposizioni testamentarie di un uomo tanto modesto non vi si
oppongano e non dimostrino preferenza per le opere di pietà. Nel qual
caso...
— Ma il testamento non si è ancora trovato — interruppe la vedova
asciugandosi gli occhi. — Non sappiamo se l’abbia fatto...
Meraviglia in silenzio. Possibile? E l’uscio dell’altra camera si
riaperse e ad uno ad uno, con successivi inchini, entrarono il figlio
del defunto e i tre generi. Il segretario che si era quietato, cercò di
far largo scostando sedie e poltrone. E si mordeva ferocemente la
lingua.
Strette di mano, in silenzio.
— Possibile? — disse l’assessore anziano rivolto alla vedova.
Essa riferì ai venuti l’argomento del discorso.
— Impossibile che non l’abbia fatto! — rispose il figlio. — Un uomo come
mio padre...
— La previdenza, la prudenza in persona...
— Ma — obiettò il più lungo dei generi — se avesse avuta l’intenzione di
testare il povero commendatore non ne avrebbe avvertita la sua signora,
per cui non aveva segreti?
— Ah! questo è vero! — la signora disse asciugandosi gli occhi.
— Ma — obiettò il più piccolo dei generi col tenue sorriso di chi si
lascia scappare una castroneria —: a far testamento ci si tira, dicono,
la morte addosso.
Oh! Protestarono. — Il povero commendatore non aveva di questi
pregiudizi!
— Ma — obiettò il genero di mezzo per accomodar la topica dell’altro —:
il povero commendatore forse dubitò di spiacere alla signora. — Già:
come a dire che la superstiziosa era lei! Altre proteste. Il segretario
sgattaiolò a prender aria.
— Mi viene il dubbio — intervenne a questo punto l’assessore anziano —
che se non è presso il notaio Tibaldi, il testamento sia nel gabinetto
del sindaco.
— Questo sì! — Ipotesi verosimile.
E subito si deliberò di mandare una commissione in municipio.
— Segretario! segretario!
Agosti rientrò con faccia dolente. Egli e il figlio Ceredoli, un genero
e due degli assessori se ne andarono alla ricerca in municipio.
Tra i rimasti c’era l’assessore dell’Igiene, che sino allora non aveva
aperto bocca. Qualche cosa bisognava pur dire! Disse avanzando una nuova
ipotesi:
— E non hanno interrogato il canonico Bonerba? Era così amico del povero
commendatore! Forse lui ne conosce le intenzioni.
— Perbacco! — fecero i due generi ch’eran rimasti lì seduti.
Come mai non ci avevan pensato?
E lor due con quello dell’Igiene se ne andarono subito subito in cerca
del canonico Bonerba, alla cattedrale.

IV.

Dal municipio tornarono con un fascio di carte inutili: fatica
particolare, a portarlo, del segretario Agosti, il quale si tenne punito
così della sua ilarità intempestiva, e rideva ripensandoci. Ma dalla
cattedrale gli altri messi recarono di meglio.
Quel sant’uomo del canonico Bonerba arrivò rosso e sbuffante (non è
legge che tutti i santi debbano avere il ventre smilzo) e chiese di
parlare da solo a sola con la vedova. Allora gli estranei alla famiglia
si mossero a salutare, per assentarsi.
— No no — esclamò il canonico —: la loro presenza, quali rappresentanti
del Comune, è forse più che conveniente, necessaria tra poco.
E quindi tutti, fuorchè i due — il sacerdote e la signora — passarono
nella camera da desinare. Ivi erano in perfetto lutto le figlie e la
nuora del defunto.
— Desideravo d’essere chiamato per uscire di perplessità — continuò il
sacerdote. — Non che io sappia se il mio povero amico abbia o no
testato, ma so quali erano le sue intenzioni testamentarie e rispetto
alla chiesa e rispetto alla beneficenza, alle opere pie.
— Ah — sospirò la vedova — se l’ha fatto, il testamento, dove l’avrà
dunque depositato?
— Ecco...; appunto... Il mio povero amico aveva una preoccupazione sola:
non turbare l’armonia della sua famiglia veramente esemplare. Si sa...;
i beni di questo mondo generano dissidi, alle volte, fin tra le persone
più affezionate. E Ceredoli era così delicato, così sensibile, che aveva
quasi il pudore della sua saggezza, della sua giustizia, della sua
prudenza. Mi spiego?
— Ah! — sospirò la vedova asciugandosi gli occhi.
— Voglio dire che se fece testamento forse lo nascose perchè il figlio e
le figlie non sapessero che l’aveva fatto e non ne pensassero male (pur
troppo la fragilità umana...). E il Signore nel chiamarlo a sè non gli
lasciò tempo di avvisare lei o me o altri del luogo ove aveva riposto il
documento.
«Riposto»? Potere di una parola! La vedova a udirla ebbe un lampo di
chiaroveggenza in un istantaneo risveglio della memoria. Ricordò la
cassapanca secentesca ai piedi del letto nuziale e la cassettina che
v’era dentro, antica anch’essa, in forma di bauletto o di cofano.
Balzò in piedi esclamando:
— È nel cofano dentro la cassapanca del seicento!
Il sacerdote la trattenne con dolcezza nell’atto e nella voce.
— Aspetti, signora. O il testamento si trova dove lei dice, o non vi si
trova. Se non si trova neppur lì io mi credo in obbligo di dichiarare
oggi stesso, con le cautele consigliate, anzi imposte dalla legge, quali
erano le intenzioni del mio amico. Per questo ho pregato i membri della
Giunta di rimanere. E se il testamento si trova, non le par bene che sia
aperto da mano di notaio? Non le par conveniente mandare prima di tutto
per il dottor Tibaldi?
La signora annuì. Un servo fu mandato per il dottor Tibaldi. Quindi
essa, la vedova, portò nella camera da desinare e vi depose su la tavola
il cofano avito. Era chiuso. Ne mancava la piccola chiave.

V.

Il canonico, la vedova, il figlio, le tre figlie, i tre generi, la
nuora, i quattro assessori e il segretario...: 15. In quindici, nella
camera da desinare, aspettavano il notaio.
Che venne, finalmente.
— Siamo seri — mormorò Agosti all’orecchio dell’assessore d’Igiene; e
col coltello in mano si pose, ritto in piedi, dietro la seggiola in cui,
a capo della tavola, siederebbe l’uomo del Diritto. Davanti, aspettava
il cofano. E gli porse — il segretario al notaio, appena questo fu al
posto — il suo coltello da caccia, per forzare la debole serratura. Di
qua e di là della tavola, stavano, in piedi il figlio e i generi; di
fronte, le signore e il canonico, e più indietro, in piedi, i
rappresentanti del Comune.
Momenti di aspettazione ansiosa, dissimulata da facce serie e sguardi
severi.
— Constatato che nel cofano che si presume contenga il testamento del fu
comm. Antonio Cerédoli manca la chiave idonea ad aprirlo — il notaio
chiese — tutti gli aventi diritto, senza eccezione, consentono che si
sforzi la serratura?
— Sì! sì! — tutti risposero.
E _cric_ fece al passar della lama il concavo coperchio. Aperto subito;
senza sforzo. E...
— Eh? cosa? — disse il dottor Tibaldi voltandosi indietro quasi il
segretario avesse parlato. Rossi erano; congestionati, sembravano, tutti
e due. Ma Agosti non aveva parlato; aveva veduto quel che il notaio
aveva veduto.
— Eh? cosa? — Scappò via, Agosti, fuori della stanza, come se ci avesse
veduto un leone a bocca spalancata o una leonessa, dentro il cofano. Per
dir meglio, più semplicemente — con scandalo dell’assemblea — scappò via
come uno che non può più resistere.
— Cosa? cos’è stato? Cosa c’è? — adesso significavan nello stupore
enorme tutte le facce, mentre il notaio rialzava appena appena il
coperchio e si accertava che le carte lì dentro erano tutte della stessa
sorte.
Sì, tutte della stessa, sorte! della stessa natura!
Il povero uomo del Diritto cercò il modo e le parole per trarsi
d’imbroglio. Trovò. Parlò con voce tremula:
— Quanto è contenuto qui dentro non è ostensibile. — Non è ostensibile —
ripetè —; non ammette alcun atto legale, e solo a un amico intimo della
famiglia spetta consigliar il da farne.
Così dicendo il dottor Tibaldi venne col cofano dal canonico, lo depose
sull’ampio seno di lui; e susurrate che ebbe due paroline all’orecchio
del sant’uomo, scappò via lui pure quale uno che non ne può più.

VI.

Che cosa conteneva il cofano?
Conteneva...
(— Dentro la mia casa e dentro la mia coscienza ci si può guardare come
se avessero le pareti di vetro puro — soleva ripetere il povero comm.
Cerédoli. Questa l’arma che l’aveva difeso da ogni più feroce attacco
partigiano, da ogni più forte avversione, da ogni più recondita
insidia).
Il cofano conteneva...
(— Il bene sociale riposa sul bene della famiglia — spesso ammoniva il
canonico Bonerba —; e il bene della famiglia riposa su la virtù e sul
buon costume, su la rettitudine e sul buon esempio: guardate la famiglia
del comm. Cerédoli).
Conteneva...
(E il figlio Cerédoli diceva spesso: — In fatto di moralità con mio
padre non si scherza; è fin eccessivo. — )
Conteneva...
(E la madre Cerédoli raccomandava, di quando in quando, ai generi: —
Specchiatevi nel commendatore, e renderete felici le mie figliuole. — ).
Conteneva...
(— Ah il babbo! — esclamavan le figliuole alzando gli occhi al cielo).
Conteneva, insomma, dei ritratti...
Eh? cosa?
... ritratti di donne...
(— Ah il nostro sindaco! — esclamavano i cittadini di San Giorgio al
Piano, alzando gli occhi alle finestre di lui —. La sua casa è come se
fosse tutta di vetro puro —).
... ritratti i quali, sebbene non avessero vesti a determinarne l’epoca,
si vedeva che erano modernissimi.
Eh? cosa?
Appunto: nella cassapanca del seicento, ai piedi del letto nuziale,
dentro il cofano che aveva forse accolti i mistici o verginei segreti di
qualche avola, il povero comm. Cerédoli ci teneva delle fotografie —
concludendo con le due paroline dal dottore Tibaldi mormorate
all’orecchio del santo uomo —... fotografie oscene.


CHE COSA E’ IL MONDO?

È enorme il mistero dell’Infinito, ma è enorme anche il naso del signor
Petronio. Dicono che in origine non era così, che lo trasformò una
malattia; e certo chi lo veda, quel naso, la prima volta, pensa subito a
una di quelle conflagrazioni di sostanze misteriose e recondite, a una
di quelle eruzioni vulcaniche o a uno di quei terremoti per cui una
bella montagna andò sottosopra e rimase tutt’un disordine di lavine e
rocce, anfratti e magagne, precipizi e rupi; non senza le tracce che in
tali rovesci lascian gli uragani e vi rinnovan le tempeste. (Fuori di
similitudine, l’uragano o la tempesta potrebbe essere il vin buono!).
Ma errerebbe chi non avendo mai visto il signor Petronio lo immaginasse,
dalla descrizione del suo naso, un brutto vecchio. Tutt’altro! è
simpatico. La persona alta e ben proporzionata serba ancora, oltre ai
settant’anni, vigoria e salute; la perfetta canizie dei capelli, delle
ciglia e dei baffi mitiga il rosso della carnagione e la vastità delle
orecchie; e soprattutto piacciono la pacatezza del suo parlare, indizio
di animo onesto e il sorriso dei suoi piccoli occhi, indizio di sicura
fede. Qual fede? In sè stesso: la fede più consolante e più invidiabile.
Mentre sul mercato il signor Petronio passa per sensale in granaglie,
nella vita intima e tra gli amici discorre da filosofo che sa di non
errare, sapiente. E sì che egli non sa nè leggere nè scrivere! Pare un
miracolo; eppure durante mezzo secolo ha potuto commerciare in
granoturco, riso e fagiuoli, restando galantuomo, sebbene analfabeta, e
avanzandosi dei soldi. Quanto alla filosofia, il suo difetto
d’istruzione o non è difetto o è lacuna che si ripara con altro mezzo.
Perchè si noti anche questo: chi legge ubbidisce più o meno a chi ha
scritto; chi va a scuola ubbidisce al professore. E credete voi che
tutti quelli che tengon la penna in mano abbiano giudizio? Eh!, buon
senso ci vuole! Il buon senso è il rimedio del signor Petronio, è la
forza della filosofia; e se qualche filosofo non lo crede, poco importa:
lo crede lui, e basta; appunto perchè lui non sa nè leggere nè scrivere
e la pensa a modo suo.
Naturalmente a chi scorge chiara, chiarissima ogni cosa nel mondo e ogni
faccenda dell’universo, talvolta rincresce gli manchi il più acconcio
mezzo di persuader gli altri, che san leggere: il signor Petronio ha chi
lo ascolta e l’approva ma, purtroppo, solo al caffè, non in Parlamento,
non in Senato, non al Ministero, non alle corti di Europa, non agli
imperi d’Oriente e alle repubbliche d’America, non a casa del diavolo
laggiù, al Transvaal o in China.
E ripete con desolata invidia:
— Che fortuna saper di lettere! — Si consola però subito. — Io non ne so
e ci rimedio: col buon senso.
Così, quando al caffè ode leggere dagli amici il giornale e ode i
commenti alle notizie politiche e alle miserie pubbliche, si riconforta,
si libera a giusto interprete di quel foglio stampato con inesplicabili
caratteri, e la sua stessa deficienza gli sembra una conseguenza logica
della sua filosofia e della legge che la sostiene: egli, cioè, non
comprende un’acca del giornale e comprende tutto l’universo, al
contrario di chi guarda al sole e non vede più nulla. O come a dire: i
giornalisti, i letterati, gli scienziati scrivono quel che sanno e
(salvo il rispetto) non sanno quel che scrivono; e i governanti
pretendono di condurre per la strada diritta e non s’accorgono che
girano in tondo! In tondo girano; in tondo giriamo: è la legge!
Infatti: oggi corre innanzi un uomo o un popolo, e domani un altro;
finchè il primo torna a precedere. Oggi a me, domani a te. — Il figlio
del dottore farà lo spazzacamino, e il figlio dello spazzacamino sarà
dottore. — Sempre non è seren, sempre non piove. — L’uomo crea e l’uomo
distrugge. — Progresso, eppoi regresso. — Tutto è equilibrio; tutto è
armonia; tutto su e giù. — E la conclusione sta nell’unico principio in
cui riposa il sistema del signor Petronio:
— Il mondo è una ruota che prilla! — Ecco tutto!
Direte che non è una concezione nuova. Grazie tante!; essa raccoglie le
dottrine di Pitagora, quel delle sfere in musica, e di Galileo, quel del
pendolo; le dottrine di Newton, quello a cui cadde la mela sul naso, e
di Darwin, quello dell’evoluzione e delle azioni e reazioni per cui da
una scimmia balzò fuori l’umanità. Ma prima di tutto, se non è originale
il sistema, è originale il signor Petronio, che nessuno potrà mai
incolpare d’aver copiati quei gran filosofi. In secondo luogo, quanti
secoli saranno che morì Pitagora? Mettiamo venti, trenta secoli. Ebbene,
se dopo trenta secoli, al giorno d’oggi, il signor Petronio la pensa
press’a poco come il gran Pitagora, ecco la più bella prova che il mondo
è proprio una ruota che gira. In terzo luogo, sia di Tizio, sia di
Sempronio o del signor Petronio, questo sistema è il più semplice, il
più intelligibile, il più spiccio per risolvere tutti i problemi fisici,
morali, economici, sociali, politici. Il cielo è tondo, il sole è tondo,
la luna è tonda; dunque la terra deve esser tonda. È la legge! Le
stagioni da un pezzo in qua non combinan fra loro? Dunque presto
torneremo a godere della primavera e dell’autunno. È la legge!
Quest’anno son care le patate: quest’altr’anno saran cari i fagiuoli. È
la legge.
Concepito il mondo così, ogni cosa procede liscia. Nemmeno il progresso
e le scoperte della scienza turbano la fantasia, e un vecchio
settantenne può sinceramente lodare il presente in confronto del suo
passato. Automobili, tram, biciclette trascorrono davanti agli occhi del
signor Petronio lasciandolo pago, quasi ci avesse avuto la sua parte a
inventarli. Pacifico, egli ragiona: — si è sempre detto che in China la
macchina a vapore esisteva mille anni prima che da noi; e chi vi dice
che non ci esistessero anche i tramvai o gli aeroplani? E viaggeremo
tutti per aria e gli aeroplani saran così fitti che succederanno scontri
e disgrazie, e si buscheranno malattie come a viaggiare in terra, tali e
quali. Ma, pur troppo, torneranno i giorni della barbarie, e i nipoti
dei miei nipoti, poverini, patiranno come me quand’ero ragazzo, che
pigliavo scapaccioni per paga se aiutavo qualche soldato «dal becco di
legno» a levar la ruggine dal fucile. È questione di buon senso: è la
legge. —
Infine, quando tutti concepissero il mondo così, ci sarebbero meno
birbanti, ricchi e poveri, e meno scioperi: per l’armonia politica non
si avrebbero tanti senatori o deputati sempre pronti con i loro tromboni
o i loro argomenti e le loro grida a fracassarsi la testa da cari
colleghi; e per l’armonia famigliare non si contenterebbero tante
stonature e tanti corni e scorni e suicidi in due. Ad esempio, voi, con
una donna quale la moglie del signor Petronio, vi sareste affogato nel
fiume per liberarvene! Tutto il santo giorno: — Petronio, ho male qui;
Petronio ho male qua —; quasi un filosofo avesse obbligo di esser medico
e quasi i medici possedessero l’arte di guarire un male qui e un male
qua! Lui invece esorta la sua signora a rassegnarsi, a gettar nel pozzo
quella morfina maledetta che le fa far tante smorfie, contorsioni e
sussulti, a bere vin buono e a sorbir aria fresca, insieme con suo
marito che d’inverno spalanca finestra e bocca appena giorno perchè il
freddo gli ammazzi tutti i microbi nella camera, nello stomaco, e magari
sul naso. Ma son vani consigli; nè giova ripetere, per consolarla:
— È una ruota, Càrola; una ruota che gira. Una volta tutte le donne
avevano il convulso: adesso han l’isterismo... (La signora Càrola è sui
settanta anche lei)... Una volta non c’era altro rimedio che l’_Aceto
dei sette ladri_; adesso, la morfina. Ma non dubitate che si tornerà
all’aceto e al convulso: soltanto, ladrerie e donne saran sempre quelle!
***
A proposito della signora Càrola la biografia del signor Petronio
contiene un aneddoto che rivela l’uomo e nell’uomo rivela insieme il
buon marito e il pensatore profondo. Ma bisogna, per questo, risalire a
diciassette o diciott’anni or sono, quando il mondo pareva aggravato
dalla guerra giapponese cinese. I medici — i quali san leggere ma non
capiscon nulla — consigliavano l’inferma signora Càrola a distrarsi; e
un giorno che il marito doveva andare a Bazzano per contrattare, là
presso, una partita di granturco, dàlli dàlli, riuscì a caricare la
moglie in treno e a distrarla dal finestrino con lo spettacolo della
campagna ancora estiva e dei casolari e dei villaggi pieni di gente
allegra. Arrivati che furono, entrarono in paese. Lei si abbandonò su di
una seggiola del caffè, e fra un sorso e l’altro di vermouth cominciò a
sbigottir la caffettiera con le smorfie, le scosse e la storia dei suoi
malanni. Egli intanto prese la via del monte; giunse in mezz’ora alla
cascina, e in quattro e quattro otto s’accordò col venditore. Una
bottiglia di lambrusco aiuta ad appianar gli affari non meno che un giro
di ruota a comprender l’universo.
Di ritorno, il signor Petronio non pensava più affatto al frumentone; e
il suo sguardo navigava inconscio nella gran luce del pomeriggio, che
avvolgeva la terra e infondeva sin nelle pietre un calore di vita
gioiosa e feconda. Sebbene non ci fosse ombra di bosco e la strada
polverosa, ardente e deserta difilasse aliena da frescura di fonte o da
soavità di rivo, un poeta avrebbe scorte chi sa quante amadriadri e
ninfe a tentarlo procaci e scappargli via proterve. Il signor Petronio
se ne veniva lemme lemme, catelon catelone, non badando neppure ai
piccoli ciottoli in mezzo al suo cammino. Sorrideva a sè medesimo,
intanto che a ogni curva o svolta l’ombrello perdeva la direzione del
sole e, inutilmente aperto, lasciava riscaldare nel cranio sottoposto il
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