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cesto da riempire di uova e poggiandosi al bastone, curvo come se avesse
sulle spalle il peso della strada percorsa e volesse conquistare anche
col petto la strada da percorrere, a passi piccoli e frettolosi arrivava
all’Olmello, recava in cuore la tenerezza di un padre buono, la bontà di
una madre tenera, un’ansia fraterna, un desiderio di amico unico, una
cristiana voglia di confortare, un bisogno di consolarsi consolando.
— Che nuove avete? — chiedeva, rialzato il capo, fermo a mezzo dell’aia.
Talvolta gli davan da leggere una lettera, gli mostravano una cartolina.
Non perciò egli s’allietava del tutto. Troppo l’infastidivano le
lamentele della madre e l’impenetrabile aspetto del padre. L’Assunta,
che donna! Non intendeva che la guerra era la guerra.
E Stefano taceva. Che uomo! Due parole in un’ora; e da ignorante. Pareva
avesse il figlio in un’impresa tenebrosa e le tenebre fossero entrate
nel petto a lui, dove gli altri ci hanno il cuore, o nella testa, dove
gli altri ci hanno il cervello.
— No! — pensava Leonardo. — Un padre non dovrebbe essere di ghiaccio o
di macigno. No! Una madre non dovrebbe essere di ricotta. Che gente!
E si proponeva di non ricomparir all’Olmello prima che fossero passate
due o tre settimane e le galline avessero fatto assai ova. Vi tornava
invece dopo due o tre giorni. Ma se ne pentiva sempre; ripartiva sempre
con quell’uggia, quell’amarezza di un bene deluso, quel disgusto di non
essere compreso e di non poter ridurre pari al suo l’animo del padre
rude e della madre dolente.
***
Un brutto giorno, un giorno che la nebbia bagnava i panni addosso e
stillava dai rami, e i passeri, negli alberi, rabbrividavano sotto le
penne arruffate, Leonardo entrò nel campo da fuori della carraia. Co’
suoi passettini rapidi e il suo bastone, discese lungo il ciglio erboso
alla volta di Stefano che stava affondando il fosso. A vederlo, il
contadino attese, il piede sul vangile e le mani a sommo della vanga.
Perchè il vecchio non era andato in casa, prima, dalla donna? Ma il
contadino non mosse voce. Guardava senza anima manifesta, e aspettava. E
il vecchio col freddo nell’anima sorrise appena appena e disse:
— In paese si discorre d’una gran battaglia.
Stefano aspettava immobile.
— Si parla di molti feriti; di molti morti. Ma speriamo...
Poi Leonardo tacque.
Allora il padre chiese come non avesse udita l’ultima parola:
— E lui?
— Eh! Innanzi che si sappia che ne è stato, di Celso, se l’ha scappata,
come io spero, correrà un po’ di tempo.
L’altro ebbe negli occhi un’accensione d’ira; ebbe uno sguardo bieco,
quasi di odio; ed esclamò forte:
— Cosa siete dunque venuto a fare?
Cos’era venuto a fare? Leonardo non dubitò che il silenzio, lo sguardo,
la violenza mal repressa e la dimanda di colui significassero una
tremenda angoscia costretta in sè da una timidezza o da una energia
quasi selvaggia, esprimessero la pena di dover aspettare troppo a lungo
una notizia atroce. Pensò:
— Che bestia!
Cosa era venuto a fare? Non lo sapeva chiaramente nemmeno lui, povero
vecchio, il perchè era accorso subito dal paese: era accorso perchè il
cuore l’aveva portato: ecco. Bisogna dirle, domandarle certe cose? Per
dare una parola di speranza, se non per riceverla, era venuto; per
prepararsi il cuore con loro, se mai...
E impermalito, Leonardo stava per rispondere: — Non verrò più a
disturbarvi — quando dall’alto del poggio (Stefano si era rimesso a
vangare) l’Assunta chiamò, invocò:
— Leonardo! Leonardo!
Egli le andò incontro; sorridendo, al solito, disse:
— Sì. C’è stata una battaglia. Ma — aggiunse — niente paura! Avete avuto
cattive nuove? No. Dunque...
La donna lo fissò prima di piangere; per l’apprensione improvvisa ebbe
negli occhi un insolito acume, e chiese:
— Ne siete sicuro, ch’è salvo?
— Sicuro del tutto..., oggi com’oggi...
E lei rompendo in singhiozzi, disperata, con la voce di chi impreca:
— Ma allora, cosa siete venuto a fare?
***
Poichè dunque non s’intendevano; poichè lo rimproveravano invece di
ringraziarlo, Leonardo giurò, sul serio questa volta, che all’Olmello
non lo rivedrebbero più, se Celso non tornasse a casa.
E soffriva, il vecchio, a pensarci; e ci pensava sempre. Sperava. E
quando sperava, si immaginava Celso così lieto d’esser scampato alla
morte, così felice di riabbracciare i suoi, che non ne restava più, del
suo bene, per il vecchio amico. Nè il rancore e l’uggia gli cessarono
come si diffuse la voce che con parecchi morti del paese era rimasto
ferito Celso dell’Olmello.
E passò quasi un mese; e Celso gli scrisse lui, a Leonardo, che ormai
guarito del tutto veniva in licenza.
***
Il giorno che gli aveva scritto di tornare il vecchio andò alla stazione
per tempo, al mattino; e sì che il diretto che credeva porterebbe il
reduce arrivava a un’ora del pomeriggio! Essendo freddo, camminava su e
giù per il marciapiedi, fin che la mano gli si gelava sul bastone e
l’aria gli aveva tagliato abbastanza le orecchie.
Entrava allora nella sala d’aspetto a scaldarsi alla stufa. Ma non
potendo resistere al tanfo di chiuso, usciva di nuovo.
Passò un treno merci. S’arrestò, più tardi, un treno omnibus. E, dopo,
una tradotta. Da questa Leonardo vide scendere un soldato; poi non vide
più nulla perchè aveva visto che era lui. Nella sua mente confusa, nel
suo animo sbalordito fu come l’imminenza d’un destino che si compieva...
E a sentirsi dire: — Voi qui, Leonardo? —, a sentirsi abbracciare, a
sentirsi chiedere: — E i miei? —, tornò in sè ma non per rispondere: per
ridere, ridere di contentezza. Pareva ebbro.
Intanto alcuni conoscenti attorniavano il giovine, e mentre questi
scambiava qualche parola il vecchio si fe’ largo, lo tirò per una
manica; e sollecitava:
— Andiamo, Celso! A casa! Via!
Nè volle attraversare il paese.
— Tua madre ha pianto tanto...; tuo padre... Bisogna andar subito a
casa! A casa! Via! Presto!
Per i campi, volle che andassero, soli, liberi. Felice!
E quando fu sicuro che nessuno glielo rapirebbe, Leonardo si fermò un
istante; alzò lo sguardo incontro allo sguardo del giovine; chiese:
— E lassù?
Celso si mise a parlare della guerra; senza esagerazioni.
Ai Casetti, s’interruppe. Disse: — Due salti, e vado a salutar la mia
bionda.
— T’aspetto — fece l’altro. E l’aspettò lì, al freddo, tossendo.
***
Ma a casa, quando arrivarono finalmente a casa, Leonardo ebbe la
rivelazione. Dal modo con cui il ragazzo si comportò con i suoi, capì
che non s’era sbagliato ad affezionarglisi tanto, e dal modo che i suoi,
del ragazzo, si comportarono, capì che li aveva mal giudicati.
Celso si stringeva la madre al petto con la forza d’un bambino e la
chiamava: — la mia mamma! la mia vecchia —; e la baciava non sazio. Indi
rivolto al padre, che gli disse — gli disse solo: — Sei qui, Celso? —,
contenne con un visibile sforzo la commozione e disse, disse solo:
— Come state, pa’?
Finalmente era chiarito il mistero!
Sì: il difetto della madre era la troppa tenerezza, e durezza il difetto
del padre; ma il vecchio comprese che si comportavan così anche per una
reazione vicendevole e involontaria, e comprese che il difetto dell’uno
e dell’altra si eran temperati nell’animo di Celso a una virtù che lui,
povero vecchio, aveva sentita senza rendersene ragione. Era la stessa
sua virtù istintiva: bontà e forza.
***
E quel giorno Leonardo si ammalò. La notte la casigliana che abitava una
stanzaccia attigua alla sua l’udì tossire e vaneggiare. Faticosamente,
nei giorni dopo, egli scendeva e saliva le ripide scale: sedeva sui
gradini e, sorpreso, fingeva di star là a perdere il tempo; per non
parer mal ridotto, cantarellava piano piano. La tosse lo riassaliva
secca, soffocante.
Celso che non dubitava fosse ammalato, non veniva in paese; preferiva
far all’amore ai Casetti con la bionda. Rincasando, però, dimandava ogni
volta: — E Leonardo non s’è visto?
Arrivò all’Olmello un pomeriggio. Con la tosse, sudato, affannoso,
affranto.
— Il ragazzo dimanda di voi — l’Assunta gli disse. — Lui sorrideva.
Chiese delle uova.
Di ritorno col cesto, l’Assunta gli disse anche, senza piangere, che il
ragazzo presto ripartirebbe. Senza piangere! E Stefano quel giorno parlò
di molte cose. Stefano parlò!
Ma il vecchio non aveva nemmen più la forza di meravigliarsi. E se
avviandosi si fosse voltato indietro, avrebbe scorto il contadino
scuotere il capo, mentre la donna mormorava: — Quello è un uomo che se
ne va.
Leonardo se ne andava infatti, zampicando, col suo bastone, come verso
un destino che si compieva. Quando la sera fu, per grazia di Dio, in
paese, si fermò dal notaio; offerse le uova che l’Assunta gli aveva date
e sorridendo pregò:
— Vorrei fare, signor dottore, testamento... adesso.
La mattina dopo Celso venne a cercarlo per salutarlo. Partiva.
Sulla porta la casigliana gli disse:
— Stanotte non l’ho sentito tossire.
E aggiunse: — È un uomo che se ne va.
Salirono insieme. Batterono. Silenzio.
Tirata la cordicella e aperto l’uscio, lo videro, nel letto; videro che
se n’era già andato.
E il soldato, l’erede, gli chiuse gli occhi.


NELLA ROMAGNA D’UNA VOLTA

A ricevere la seconda lettera con cui, goffamente, Nino Galastri le
chiedeva di sposarla, Livia perdè la pazienza e rispose un semplice
_no_. Inesperta, com’era, del mondo, non riflettè ai diversi gradi di
tono e di significato che, sino alla ripulsa oltraggiosa, può assumere
un _no_ scritto; castigando una indiscreta vanità, non ebbe il dubbio di
offendere l’orgoglio paesano, il quale, ferito, ferisce col morso e il
veleno della vipera; e conoscendo la fierezza del nonno, non domo dagli
anni, dubitò invece di far male a rivelar la cosa a lui. Nè la vendetta
tardò a giungerle: terribile perchè l’armava la pubblica malignità,
perchè la sosteneva un’accusa copertamente diffusa e inoppugnabile,
perchè disonorava il suo nome.
Già delusa nella felicità quale aveva immaginato trovar fuori del
collegio e predisposta alla solitudine, più che dalla sensibilità
materna e dalla sventurata condizione di orfana, dal rude costume della
razza da cui scendeva, Livia Antoni ricorse col pensiero e con l’anima
al luogo dove era cresciuta, in una clausura quasi monacale, e presentì
che in nessun altro luogo e in nessun altro modo avrebbe potuto vivere
senza il peso addosso dell’onta o del sospetto dell’onta. E segnò essa
stessa il suo destino in un dilemma: o l’accusa che si faceva al nonno
non era vera, e valeva meglio scampare da un mondo così tristo; o era
vera, e la rinuncia di lei apparirebbe come un sacrificio riparatore,
una rinuncia sublime in lei, giovine, bella, ricchissima.
«Se un’idea entra nella testa di un Antoni non c’è più santo che gliela
cavi», pensò la più vecchia delle domestiche, quando Livia le disse che
aveva intenzione di farsi suora.
Ma quando quella donna, incerta come chi teme di dare un avviso che
addolori troppo, ne parlò al padrone, egli la fissò, poi scosse le
spalle quasi a udir cosa di nessuna importanza. Solo, die’ ordine di
cominciar subito i lavori di sterro sul poggio, ove sorgerebbe la nuova
villa. E lo stesso giorno vi condusse la nipote.
— Guarda! — le disse accennando alla vallata stupenda.
La vita brillava nell’aria, serenava nei lontani monti, palpitava nei
colli rinverditi, fluiva e rabbrividiva placida fra il greto del fiume.
— Io sarò morto allora — soggiunse il vecchio —. Ma tu vivrai qui sposa
e madre felice.
La ragazza tacque. E sentì che il momento di manifestare il suo
proposito era quello, e raccolse tutta la forza per dissimulare
l’affanno e dire dolcemente:
— La ringrazio, nonno. Io però non ho intenzione di maritarmi.
Seguì ancora un attimo di silenzio: insopportabile nell’incerta
aspettazione della loro anima. Il vecchio non parlò; dovè parlar di
nuovo Livia, per dire, bianca in viso, con le labbra esangui:
— Ho la vocazione di farmi monaca.
Allora il vecchio, che a ottant’anni teneva in soggezione tutti anche
quando non usava i modi della sua ferrea volontà e la mitigava con
l’espansiva energia del suo gran cuore, tremò a nervo a nervo.
Paventava d’essere debole davanti a una giovinetta esile come un giunco,
o d’esser travolto dall’ira come avrebbe fatto davanti a un minacciato
assassinio?
Le afferrò un braccio, la costrinse a guardarlo negli occhi, e disse
soltanto:
— Bada, bambina!
Quegli occhi, quelle due parole avrebbero piegato chiunque altra,
d’altro sangue. La giovinetta che aveva nelle vene il sangue degli
Antoni fu invece inanimata alla resistenza e alla difesa.
— Se lei vuol sapermi contenta, deve consentire alla mia volontà.
— Non dire la tua volontà! — gridò il vecchio prorompendo —. Di’ l’idea
stupida che ti han messa in testa là dentro, dove io non ti avrei mai
rinchiusa!
Il rimprovero, che toccava la memoria di sua madre, accrebbe ardire in
Livia.
Esclamò:
— Le giuro, nonno, che questa idea mi è venuta dopo che sono uscita di
collegio.
E soggiunse subito:
— Mi sono convinta che il mondo è brutto e cattivo.
— No! — il vecchio ribattè forte —: il mondo è buono, è bello per chi ci
sappia vivere. Che esperienza puoi averne tu?
A fatica Livia compresse in cuore il suo segreto; frenò l’angoscia;
trattenne le lagrime. E rispose:
— Basta guardarsi attorno e ascoltare.
Il sospetto si affacciò ora alla mente dell’Antoni. E chiese:
— Ascoltar che cosa?
— Il dolore degli altri — disse lei. — Chi non ha da lamentarsi del male
che riceve?
— E fra quattro mura tu credi di evitar il male e goder il bene della
vita?
Nè attese risposta. Quasi per strapparsi a una enormezza egli si
allontanò. E Livia gli tenne dietro singhiozzando sommessamente.
Otto giorni dopo era costretta ad accompagnar il nonno in un lungo
viaggio.
***
Meraviglie di ogni sorta, spettacoli indimenticabili; ma non una notte
la giovinetta si addormentò prima d’aver pensato: «Non mi divertirei
come il nonno crede che io mi diverta se non fossi ricca; e non sarei
ricca se lui...».
Dal viaggio tornò così stordita e stanca da parere intimamente mutata,
queta e remissiva, e il vecchio sperò di guarirla del tutto continuando
il rimedio.
Anche l’antica casa parve mutar anima: risonò di feste; risplendè di
signorile ospitalità.
E alla giovine non mancarono corteggiatori. Li respingeva con ferma
freddezza.
Intanto si compivano i lavori della villa, che un giorno avrebbe dovuto
vederla sposa e madre felice. Ma lei non andava una volta a Belpoggio
che non pensasse: «Ancora due anni, poi sarò padrona della mia volontà».
E quante volte si ripeteva: «Oh, vivere di solo pane, senza dubitare che
sia di origine impura!».
Questo pensiero diventò un’ossessione nella sua mente, tanto più
ostinata quanto più caparbio essa giudicava il nonno a non volerla
comprendere.
Così non doveva tardar molto il giorno che di quelle due volontà in
conflitto l’una si convincerebbe o illuderebbe di aver vinta l’altra.
***
Cesare Antoni, come soleva, una mattina uscì di casa con lo schioppo a
tracolla. Scorgendolo dalla finestra Livia patì, violento, quale non
mai, il riscontro delle due imagini. Pensò: «Il Passatore!».
E per non piangere si morse le labbra, e non pianse.
Ma più tardi, senza un appiglio, senza un pretesto, osò chiedere al
vecchio:
— Mia madre cosa ebbe in dote?
Egli la guardò negli occhi; essa ne sostenne lo sguardo.
— Niente ebbe. Perchè?
Niente! Dunque non avrebbe potuto dir suo, non impuro, neanche un tozzo
del pane che sino allora aveva ingoiato e che per due anni dovrebbe
ingoiare! E al colpo inatteso, Livia abbassò gli occhi, affranta.
— Perchè? — insistette l’altro, ancora forzandola a risollevar gli occhi
e a rispondere.
— Son decisa a disubbidirle; e avrei desiderato evitare che lei, fra due
anni, m’incolpasse d’ingratitudine.
A ricevere uno schiaffo l’Antoni avrebbe reagito con minor impeto.
Infiammato in faccia e nelle pupille, diritto, alto, imponente
vegliardo, avanzò come per arrestare nella sciagurata il pensiero
colpevole prima che cadesse nel pentimento. E l’investì:
— Ti sei svelata, una buona volta! L’ho avuta la prova manifesta del tuo
cuore, della tua religione, della tua pietà! Tu non vuoi obblighi di
gratitudine e di affetto; tu mi odii! Peggio: l’odio vincola, e tu non
vuoi vincoli! Hai capito che io ho una volontà di ferro; hai temuto che
la mia volontà sia più forte della morte e io possa dominarti sempre,
finchè vivrai, e per ribellarti, per essere libera, minacci di farti
suora! Ma non t’accorgi, sciagurata, della contraddizione mostruosa; non
t’accorgi che sei pazza d’egoismo? Pazza! — le gridò contro.
Ella tacque; tremante; reggendosi a stento in piedi: ma con lo sguardo
immoto.
E il nonno, men violento oramai che disperato, aggiunse:
— Già si dice! Nino Galastri a chi dimandava, al caffè, perchè tu non
trovi chi ti sposi, ha detto: — «Non sapete che l’Antoni è matta?».
Lui? Nino Galastri?
— Lui? — fe’ la ragazza, il volto improntato di un sarcasmo che la
svisava come una smorfia atroce.
— Sì. Presto o tardi se ne pentirà; ma l’ha detto!
E allora ella corse nella camera attigua, trasse da uno stipo la lettera
dell’innamorato respinto, e tornò porgendola.
Il vecchio l’afferrò. Mentre la leggeva lei si aspettava che cadesse
morto di colpo: leggeva: «... sposandola, signorina, io avrei offesa
l’opinione pubblica; si sarebbe detto che la sposavo per godere i
marenghi del Passatore».
Invece il nonno gettò il foglio e rise.
— Ah, ah! E tu la conosci tutta, la storia? Non la conosci bene? No? —
Essa non rispondeva. — Te la racconterò io! A Belpoggio, proprio dove ho
fabbricato la villa per te, per la tua felicità, c’era una casupola
mezza in rovina; e io l’avevo affittata a un manutengolo o a un collega
del Passatore. Dopo che questo fu ammazzato, colui fu preso e condannato
non so a quanti anni di galera. E di là scriveva alla moglie, che non
sapeva leggere e veniva da me a farsi leggere le scritture del marito.
Ma io, furbo, le leggevo prima per conto mio. E una volta vidi che il
ladro raccomandava alla moglie di non abbandonar mai la casa ove stava.
Io, zitto!; e diedi subito commiato alla donna. E mi misi a scavare.
Scavai una, dieci, cento pentole piene di marenghi rubati dal Passatore,
e così... Hai inteso?
— Gl’invidiosi, gli oziosi, gli ignoranti, i maligni, i vigliacchi —
seguitò l’Antoni, di nuovo sopraffatto, nell’ironia, dall’ira — non
comprendevano, non comprendono la origine di una ricchezza acquistata
con le fatiche, con gli studi, l’ingegno, la forza della volontà e dei
nervi, e m’han dato, a me, per collega il demonio, e hanno inventata
l’infamia e ci credono! E tu vuoi farti suora per questo!
Per questo. La storia non era vera? E come negare che era bene uscire da
un mondo ove si commettevano coteste infamie, deturpando il nome di una
famiglia, affliggendo la vita intera di un uomo, senza castigo?
— Sì, nonno: per questo! — Livia fu sul punto di rispondere. Ma a veder
il vecchio divenuto livido, in una attesa di passione mortale, gli si
gettò d’impeto nelle braccia piangendo:
— Lo credo! Lo credo, nonno, che lei sia innocente!
***
Cominciò da allora l’equivoco che doveva durar due anni.
Ritennero l’una e l’altra di aver vinto. «Si rassegna alla volontà di
Dio», pensava la ragazza. «Si rassegna alla mia volontà», pensava il
vecchio. Ed ella non urtata più, cedeva nei modi; s’inteneriva; diceva
tra sè: «povero vecchio!».
Nemmeno, nel suo segreto, lo rimproverava d’essere ostinatamente rimasto
in mezzo a gente sì perfida, perchè allontanarsi con l’onta addosso
sarebbe stata, per uomo di tal fatta, viltà; sarebbe stata la maggiore
ignominia.
Alla proposta di passar l’inverno altrove, ella si rifiutò: e il nonno
ne fu lieto.
E come Dio volle, rifiorì la primavera. Il nonno con vigile cuore vedeva
rifulgere quegli occhi, splendere quel sorriso di gioventù. Si celava
dietro le macchie del giardino a spiar la nipote allorchè andava per il
prato a raccogliere fiori umili, e non più dubitando l’udiva
cantarellare.
Gli pareva salva. Non comprendeva che ella gioiva quale chi aspetti una
prossima gioia, più grande; non capiva perchè l’anima di lei esultava in
tal modo.
Passò, similmente, l’estate; passò un altro inverno. Poi andarono ad
abitare nella villa nuova.
***
E giunse finalmente quel giorno. Livia era maggiorenne.
Il nonno l’attendeva nella loggia, per dirle:
— Adesso sei arbitra di te, di me, di quanto possiedo. Non mi
abbandonare, Livia!
Ma quando ella uscì, anzi che morire di colpo a vederla, il vecchio ebbe
uno strano senso di sollievo: gli parve cessare la sua agonia. Livia (e
una carrozza da nolo avanzò nella corte), Livia era vestita da viaggio.
Risoluta; padrona di sè, disse:
— Addio, nonno!
Maledetta?
A mani in croce, a scorgere la maledizione nei terribili occhi, ella
scongiurò:
— Mi perdoni!
Egli non parlò. Si volse a guardare i bei luoghi che Livia non
rivedrebbe mai più, quasi egli non dovesse rivederli mai più; i monti
sereni, i colli verdi e il bianco fiume.
Poi disse:
— Ti perdono.
E le porse il braccio, e tra le serve e i servi e gli operai attoniti,
diritto, alto, imponente vecchio, venne con lei nella corte, la condusse
fino alla carrozza.
Livia si chinò ad abbracciarlo, a baciarlo. Egli l’abbracciò; la baciò.
Sorrise. Disse:
— Addio!
***
Indi, partita, Cesare Antoni tornò in casa; imbracciò, secondo soleva,
lo schioppo; diede ordini, al solito; e prese la via del paese: ove,
ogni giorno verso le nove, Nino Galastri usciva di casa, traversava la
strada, ed entrava nel caffè.
Quando fu alla bottega del tabaccaio, poco distante dal caffè, il
vecchione entrò a comperar sigari; e scegliendoli, e di tratto in tratto
sogguardando fuori, motteggiava con la tabaccaia.
— Sempre allegro, lei!
Uscì. E si fermò ad accendere un sigaro. Alcuni paesani, che
conversavano in gruppo, salutarono. Non buono il primo sigaro, lo gettò
via; ne tolse un altro. Gettò via anche quello: e... (Nino Galastri!):
d’un lampo, afferrato lo schioppo, gridando che tutti udissero: — Il
Passatore avrebbe fatto così! — Cesare Antoni, puntò, sparò.
Il Passatore mirava dritto.


VALENTINO E LUCILIO

L’auriga Libanio in carcere! Forse condannato a morire per la rivalità
del padrone. Ne amava una bella schiava, giovinetta. Questa la sua
colpa! E Boterico, il barbaro divenuto governatore a Tessalonica, aveva
dunque ricevuto il battesimo per essere più crudele? cristiano, trattava
così i suoi servi? ascoltava così gli ammonimenti dell’imperatore: che
governasse con prudente consiglio e cuor buono?
Gelosia d’amore e di gloria. Perchè maggior gloria aveva acquistato
Libanio auriga nel circo che in guerra Boterico luogotenente di Teodosio
il Grande: ecco quel che gravava la colpa del povero giovine. Dal
servizio del governatore assunto a condur nelle corse i cavalli della
fazione «prasina», aveva meritato tal favore dal popolo che neppure le
altre fazioni gli volevan male; lo vantavano anch’esse vittorioso o
vinto. E per lui le corse di Tessalonica levavan grido, oltre la
Macedonia, a Costantinopoli, a Roma, a Milano.
Nessuno infatti, da quando s’eran visti cavalli e carri nel circo,
nessuno vi aveva mai dimostrata arte pari alla sua.
Guidava i poledri più focosi e indocili quasi fossero attempati
nell’evitar gl’impedimenti e girar le mete; pareva che il più lieve
tocco delle sue dita alle redini rilassate avesse una prodigiosa virtù
di moderazione o, se bisognava, d’incitamento; ogni studio di agitatori
e ogni audacia di giocolieri, compri dagli emuli perchè interrompesse il
galoppo, perdesse terreno, si rovesciasse, tornava inutile. E agitava la
frusta, ma non percuoteva.
Bello era a vederlo, il ginocchio sinistro fermo all’appoggio del carro,
la gamba destra tesa col piede puntato nell’estremo limite a tenersi
inconcusso, il petto chino all’innanzi quasi a empirsi dell’ebbrezza de’
suoi corsieri, e il capo drizzato a scorgere, con sguardo imperioso e
sereno, certa la gara, libera la vittoria.
— Libanio! Libanio! — acclamava il popolo. Non gridava: — Prasina! —
quasi non vedesse più in lui la fazione, ma vedesse lui solo; e
l’ansietà delle scommesse era superata dall’ammirazione; e il sole
riflettuto dall’elmo, dalla tunica di seta verde e dalle cinghie che la
stringevano e increspavano sembrava irradiargli il viso.
Agli occhi di quel pubblico oramai tutto cristiano rifulgeva una
apollinea imagine.
Ma adesso Libanio sospirava in una carcere stretta ed oscura; eran
spente le feste che dovevan celebrare Teodosio vincitore di Massimo,
Teodosio trionfante a Roma.
— A morte Boterico! A morte l’ingiusto! l’indegno!
Imprecazioni e minacce passavano di bocca in bocca; e si diceva che come
l’imperatore aveva perdonata la sedizione di Antiochia, ove era stata
abbattuta fin la statua dell’imperatrice, perdonerebbe a Tessalonica se
osasse castigare il governatore malvagio.
Prima però di osare tanto, i cittadini più saggi e cospicui speravano
d’indur lui stesso, Boterico, al perdono. Che lode gli verrebbe, di uomo
generoso, a trar dalla carcere il giovine caro al popolo, e per
intercessione della città intera concedergli ciò che era inumano
proibire: la felicità dell’amore e delle nozze!
No. L’empio rispose no.
A morte! E nulla più può trattenere la folla: irrompe al palazzo: le
guardie cadono trucidate. Boterico si fa innanzi; alza la mano per
dire... Troppo tardi dire: perdóno. È trucidato.
E sono aperte le porte della carcere.

II.

Quando ebbe notizia della sedizione di Tessalonica Teodosio stava per
entrare in Milano, di dove muoveva a incontrarlo Ambrogio, il santo
Vescovo. L’ira dell’imperatore cedè alla parola di lui, che era la
parola d’un santo. Ma dopo, nel consiglio, parlò il Gran maestro di
Palazzo: — Se anche Tessalonica restava impunita, tutto l’impero
rovinerebbe, e la storia ne chiederebbe conto all’ultimo imperatore, che
aveva vinti i nemici e non aveva saputo vincere i ribelli; che si era
addolcito della pietà dei vescovi e non si era inasprito per la licenza
del popolo.
Nè gli altri consiglieri furono da meno a rimproverare e a esortare.
Teodosio, alla fine, diè l’ordine. Soldati fossero subito mandati a
Tessalonica; di là il mondo avesse nuovo, terribile esempio che non
s’offendeva senza pena l’autorità imperiale, sebbene l’erede di Roma si
facesse ora il segno della Croce.
E non sarebbe l’ultimo imperatore di Roma Teodosio il Grande! Gli
ufficiali che ebbero tale missione dal Sovrano e dalla Storia ne
godettero, e pensarono di adempierla con neroniana letizia: nel circo,
tra la folla festosa, ignara della strage imminente, plaudente
all’auriga per il quale Boterico era morto.

III.

Affrancata dal novello Governatore, la giovinetta schiava che Libanio
amava diventò sposa a Libanio. Dunque nessun dubbio che Tessalonica
fosse perdonata come già Antiochia. I mercenari testè venuti
aumenterebbero le milizie di Boterico solo per resistere ai barbari.
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