Top - 06

Total number of words is 4416
Total number of unique words is 1723
36.2 of words are in the 2000 most common words
50.6 of words are in the 5000 most common words
57.6 of words are in the 8000 most common words
Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
Nessun sospetto. C’era anzi nell’animo popolare quell’aperto consenso di
fiducia e di gioia a cui sopra tutto pareva attendere Teodosio
trionfatore, Teodosio il Grande.
Furono riprese le feste. E mai corse annunciate nel circo suscitarono
tanta aspettazione. Appena i «russati» o rossi e i «veneti» o azzurri
avevan saputo che la fazione «albata» o bianca lancerebbe quattro
cavalli degli allevamenti di Cappadocia, avevano affrettate richieste a
Costantinopoli. Giunsero, per loro, fin poledri di razza araba,
dall’Asia Minore. Ma la fazione verde o «prasina» non cercò mutamenti di
corridori e di auriga: le bastavano i suoi cavalli armeni, le bastava
Libanio.
***
Quanta gente, il gran giorno, per la strada che conduceva al circo! Che
frequenza di vetture, fossero rede tirate da cavalli o carruche tirate
da mule, con sopra ricchi e patrizi e matrone! In carrozza andò anche
Cesario Prisco, il ricco mercante di gioielli, con i suoi figliuoli.
Pienamente felici, quei due. Il minore, che non era mai stato al circo,
volgeva le più curiose domande, alle quali l’altro rispondeva con ciò
che sapeva di propria scienza e esperienza e con ciò che aveva imparato
dai compagni a scuola, o s’inventava lui. Fin sapeva, Lucilio, perchè
dalla «spina» del circo, la quale vi era la parte mediana ove sorgeva
l’obelisco, erano state tolte le statue della dea Tutelina e di Cibele
assisa sul leone.
— Perchè? — Valentino chiedeva riflettendo dai begli occhi chiari
meraviglie sempre più improvvise e strane al suo pensiero.
— Perchè — rispondeva Lucilio — l’imperatore ha voluto il battesimo; è
cristiano anche lui, come noi.
— E perchè Tutelina e Cibele non erano cristiane come noi?
E perchè questo? perchè quest’altro?
Il padre godeva a udirli cinguettare così. Ma quando Lucilio, il più
grande, fu stanco di rispondere ciò che non sapeva e ciò che sapeva,
tornò a insistere col padre che gli dicesse per chi parteggiava, per chi
scommetterebbe.
— Io sto per i «rossi» — preveniva Valentino. — Me l’ha detto la mamma
che vincerà Libanio.
— Libanio, è prasino, non rossato! — esclamò con sufficienza Lucilio. E
soggiunse:
— Io credo che vinceranno gli azzurri. E tu, padre? Scommetti per loro!
Se sapessi che cavalli hanno! Venuti d’Asia!
— No — ribatteva Valentino —, scommetti per il rosso, che è il colore
più bello!
E il padre, il quale era della fazione albata e aveva seco tante monete
d’oro da giocare per i poledri di Cappadocia, fingeva una grande
perplessità nella scelta. Dopo un lungo silenzio disse interrogando sè
stesso:
— Per vincere starò dunque con Valentino o con Lucilio?
— Con me! — Con me! — pregavano ambedue i fanciulli, a gara.
— Vincerà quello che mi vuol più bene!
— Io!
— Io, padre!
— Vincerà quello a cui voglio più bene.
— Io! io!
— No, io! — e a Valentino si riempirono gli occhi di lacrime. Allora il
padre trasse quattro monetine — quadranti — e le diede ai fanciulli, due
per ciascuno. — Faremo così: quello che perderà darà un quadrante al
fratello, e uno a me. — Accettarono felici di scommettere come gli
uomini.
— Ma — ripigliò dopo un poco il padre quasi preso da un nuovo dubbio —:
se perderete tutti e due? Se vincerà, invece della rossa o dell’azzurra,
la prasina o l’albata?
— Allora — esclamò Lucilio ridendo —: allora ci teniamo noi i
quadrantini, e a te niente!
— A te un bacio — concluse Valentino allungando le braccia.
E volevano dargli un bacio tutti e due in una volta.

IV.

Quando entrarono e salirono al terzo ordine, già i primi gradi, dei
patrizi, e i secondi, dei cavalieri, erano pieni; lassù trovarono liberi
appena due posti attigui. Cesario Prisco li lasciò ai figliuoli, e
rimase in piedi a capo della scalinata, di dove poteva meglio
scommettere cogli amici. Lucilio, timido, a bassa voce indicava intanto
al fratellino la tribuna imperiale, vuota, il seggio dei giudici, le tre
mete dalla parte delle scuderie e le tre mete opposte con la porta
trionfale, nella spina, i segnacoli con i delfini e le uova che
servivano a numerare i giri della corsa.
Nè l’attesa fu lunga. Un silenzio immenso, improvviso.
Ecco: aperte le scuderie: ecco i carri. Avanzano sino al principio della
spina; si allineano; ristanno davanti a una corda... Un istante. E a
Valentino tremò il piccolo cuore; ebbe paura, non sapendo di che; cercò
cogli occhi il padre. Ma Lucilio lo tirò per la veste e gli sussurrò: —
Guarda!
Una mano agita una benda purpurea, la corda cade: via!
Nel galoppo molteplice si vedevan di pari le teste dei cavalli, le
fruste alzate e i colori delle tuniche. E cominciarono le scommesse e il
richiamo a tutti noto: — Libanio! Libanio! — Libanio non sferzava.
Giunse ultimo alle mete, nel primo giro. Prima le oltrepassò la russata.
Allora Lucilio disse, dimentico del suo entusiasmo per la quadriga
veneta o azzurra: — Io scommetto per la russata. E tu Valentino? —
Valentino non ricordò più che appunto la rossa era la sua fazione;
ricordò che la madre gli aveva detto: — Vincerà Libanio — e rispose: —
Io sto per Libanio, il verde!
— Sta attento! Non vedi che è ultimo, il verde? Guarda! Guarda!
Gli agitatori e giocolieri cominciavano a operare inganni in pro delle
loro parti. Balzavano improvvisi, correvano qua e là, e facevan gesti da
impaurire, e recavan cose da gettare nell’arena. Uno, a cavallo, tagliò
d’un tratto la via, e la quadriga russata, che ancora precedeva,
s’impennò; passò innanzi la veneta o azzurra, e giungeva l’albata.
Ma di subito, imprevedibile, un giocoliere si gettò a terra con
meravigliosa arte, con pazzo ardire, cogliendo l’istante e l’intervallo
fra le gambe posteriori dei cavalli e le ruote della veneta, ora
precedente a tutte; e rialzandosi incolume, quasi sorgesse di sotto
terra, spaventava i poledri dell’albata sopravveniente.
Così la russata riguadagnò terreno, ma per poco non arrotò la veneta e
(fu da tutti i petti una voce di terrore) non la rovesciò. Approfittò
dell’istantaneo indugio Libanio, senza che i suoi quattro cavalli, d’un
splendido mantello baio dorato, sembrassero mutar norma al galoppo:
superava secondo, subito dopo la veneta, il compimento del secondo giro.
Quand’ecco un giocoliere gli gettò incontro un cesto: le ruote non lo
toccarono. Un altro gettò un’anfora: evitata. L’auriga ancor primo si
rivolse per colpire con la sferza agli occhi i cavalli che già aveva al
fianco, ma Libanio evitò il tradimento facendo di nuovo scartare i suoi
cavalli. E questa volta oltrepassava primo le mete.
— Libanio! Libanio! — Tutti gli spettatori, in piedi, plaudivano; più
alte, deliranti, si levavano le acclamazioni dalla fazione prasina.
Se non che al quarto giro questa ebbe assai da temere. L’albata
l’accostava; le era alle ruote. E le scommesse raddoppiavano di foga.
Cesario Prisco, sicuro di vincere, guardò sorridendo ai suoi figliuoli,
ed essi parvero sentirne lo sguardo.
— Padre! — gli gridò Lucilio. — Io sto con te; per l’albata! — Ma
Valentino pieno di ardire, adesso, felice, battè le mani e avvertì tutto
il circo:
— Io sto per Libanio!

V.

Repentinamente, enorme, un clamore di barbari all’assalto entrò dalle
porte, sorse per le scale, proruppe. I mercenari! Con le spade, le
lance, i pugnali, là dentro, a colpire urlando. Urlando alzavano le lame
sanguinanti; sul tumulto, sulle strida delle donne, sui gemiti dei
ragazzi, sul terrore tacito degli uomini proclamavano la vendetta di
Boterico.
Strage! Al macello andavano quanti con la frenesia dello scampo
invadevan l’arena, tra le quadrighe già ferme, per di là raggiungere le
scuderie o la porta trionfale: i macellatori vi aspettavano il branco. E
a morire in massa andavano quanti si addossavano per le scalette;
cadevano. I caduti facevano intoppo: monti di corpi da trafiggere
inerti.
E dal terzo ordine molti si gettavano giù nella strada; e nei primi
ordini cavalieri e patrizi invocavano e si davan la morte tra loro, per
non essere sgozzati. A mani giunte, a voce chi alta e chi sommessa, le
matrone chiamavano Gesù Nazareno. Le lame in alcune tentavano adagio il
petto accompagnate da oscene esclamazioni e risate; in altre il colpo
alla gola, accompagnato da un ruggito, era così violento da quasi mozzar
il capo.
La strage! Il macello per vendicar Boterico. Per ordine di Teodosio il
Grande mille carnefici su diecimila cristiani! Settemila vittime
opposero invano il lamento dell’umanità sacrificata alla bestialità più
feroce, truculenta, sitibonda di sangue umano.
Per vendicar Boterico! E sulla punta dell’obelisco, nella spina, fu
infissa la testa di Libanio.
***
Cesario Prisco aveva afferrato e preso in braccio il figlio più piccolo,
e tratto per mano l’altro, era stato dei primi a scendere. Ma allo
sbocco del secondo ordine dovè arrestarsi, ritrarsi nel ripiano,
appoggiarsi al balteo per non precipitare; per non perire, lui e i
figli, sotto i fuggitivi che l’addossavano. E quelli che scendevano
incontravano altri manigoldi che salivano. Cadevano morti. Egli, di là,
quasi appartato per un miracoloso consiglio, col bambino che piangeva in
braccio, con l’altro che gli stringeva un ginocchio e piangeva, vide i
morti ostruir la scala, gli uccisori travalicarli. Poi vide che due, con
la rabbia della belva che scopre la preda nascosta, gli muovevano
contro: non mercenari: un decurione, erano, e un vecchio legionario.
Fece in tempo a deporre il bambino, a trar le monete d’oro, a tendere le
pugna piene, a scongiurare:
— Salvateli! Ammazzate solo me, Cesario Prisco! Quel che possiedo per la
vita dei miei figliuoli! Salvateli!
Il legionario carpì la manciata d’oro. Il decurione parve commuoversi.
Un istante. Che istante! Ma scosse il capo e disse:
— Tutti e due, no!
E il legionario:
— Gli agnellini scarseggiano nel pecorame che abbiamo da macellare!
— Uno sì! — e il decurione prese la sua parte di monete —. Scegli!
presto!
Al padre si velarono gli occhi guardando Lucilio e Valentino che si
tenevano abbracciati, stretti, muti.
Come a un morente cui ricorre sensibile, viva, la più remota
impressione, tornò al padre la sua propria voce che diceva ai figliuoli
lontana lontana: — Chi dei due mi vuol più bene? A chi dei due voglio
più bene? — E la voce non rispondeva ora: — Io!
Abbracciati, stretti l’uno all’altro, adesso erano muti. Ed egli non
resse alla mostruosa necessità della scelta, alla mostruosa condanna.
— Ammazzatemi! — supplicò scoprendosi il petto.
Ma prime le due lame trafissero a un tempo, sotto i suoi occhi,
Valentino e Lucilio.


LA PASSIONE D’UN GENTILUOMO VENEZIANO

Il «magnifico» gentiluomo Alvise Pasqualigo...
Non vi aspettate una fastidiosa novella in vecchio stile e vecchia
forma. No, è un racconto di amore che si può dire di ieri e d’oggi.
Perchè, come la passione è eterna nella sua vicenda di colpa e castigo —
il castigo che la colpa ha in sè stessa — così ne è vera, e viva, e
commossa, e attraente l’espressione, quando è sincera e priva di
letteratura. E se qualche cosa varia, varia nel costume e nell’ambiente:
ciò che giova nell’apparenza della novità.
Dunque il magnifico gentiluomo Alvise Pasqualigo, tornato dopo lunga
assenza a Venezia, incominciò a scrivere lettere a madonna Vittoria: per
non darle noia sette anni era stato lontano da lei; tre anni aveva
errato per il mondo in vana ricerca di svaghi; sperando che lei almeno
gli concedesse di svelarle a voce alcuni segreti, era tornato in patria.
A messer Alvise, buon amico d’infanzia, Vittoria (che era moglie d’un
giovine conte) rispose per lamentarsi ch’egli le mandasse anche delle
ambasciate affidandole a servi. «La mia professione è sempre stata ed è
di donna d’onore, nè mai mi sarebbe caduto nell’animo che aveste usato
meco sì fatta discortesia. Basta, pazienza, non resterò per questo di
amarvi quale fratello...».
Ma Alvise meritava scusa, e le diceva: «Se io non vi facessi, per
qualche vostra donna di casa, intendere i tormenti che per cagion vostra
sostengo, in che modo potrei io vivere?».
E poichè la contessa scongiurava invano messer Alvise ad essere
prudente, a non mostrare il ritratto di lei ad alcuno, a non mandarle
ritratti perchè non voleva essere scoperta; poichè, non crudele come lui
la chiamava, poteva dirgli in coscienza: «Io vi amo; il che mi pare che
non sia male, nascendo dall’amore ogni buona operazione», qual fallo mai
avrebbe commesso concedendogli di parlare, dietro la porta di casa, una
sola volta?
Così, da quel primo onesto colloquio doveva penetrare nell’animo di
madonna una gran dolcezza d’amore puro, una gran compassione per il
nobile giovine innamorato: e quando lo seppe infermo in villa, gli
scrisse amorosa che cercasse di venir a Venezia a rimettersi più
facilmente; e poi, più tardi, gli si mostrava ammirata «dello splendore
che senza pari ritrovava in lui», e per lui pregava il Signore: anche
accettava e gli mandava piccoli doni.
Ma Alvise non viveva lieto, nè la promessa di lei, che «se è vero che di
là più che di qua vi sia amore, e si ami, esso mio spirito in cielo vi
godrà», gli arrecava bastevole conforto; avrebbe voluto tornare a
discorrere con lei.
Lei temeva nella dimanda ostinata un’insidia, e disperando che l’amore
di lor due rimanesse «giusto, fedele e onesto» com’era incominciato,
minacciò Alvise di rifiutare le sue lettere. «Conosciuta la vostra
disonestà, mi sono spogliata di quell’amore ch’io vi portava...».
E lui, disperato: «Già che tanto vi piace che dal mondo mi tolga, son
contento di soddisfarvi. E per ciò mi risolvo, colla prima occasione,
d’andar in luogo tanto lontano che secondo il desiderio vostro finisca i
miei giorni».
Finalmente madonna Vittoria, pentita e impaurita, un giorno l’accolse in
casa. Fu quello il giorno della colpa. E da quel dì in avanti le lettere
di madonna Vittoria si seguirono piene di amarezza, di tristezza
profonda.
Dopo ciascuno dei gioiosi convegni essa piangeva.
«Come foste partito mi gettai nel letto e con gli occhi del corpo
(benchè col pensiero a voi) mi addormentai: indi a poco svegliatami e
ritrovatami senza di voi, cominciai a piangere sì forte che s’io non mi
fossi nascosta sotto la piega del letto, avrei senza dubbio svegliato
ognuno di casa... La malinconia m’è sì cresciuta che mi sento uscir
fuori l’anima...».
Di lui era compresa così intimamente che a ripensarne le parole ne
riudiva la voce e dalla voce ne riacquistava quasi la sensazione intera:
si deliziava a martoriarsi finchè si abbatteva in una mortale angoscia.
«Da quell’ultima ora che mi parlaste fino a questa si è cresciuta in me
la confusione, ch’io non so più quello ch’io mi faccio. Le vostre
dolcissime parole mi sono rimaste così vive nella memoria che, se talor
chiudo gli occhi, parmi di vedervi e di ragionar con voi; il che è
cagione che molte volte stendo le braccia per abbracciarvi, e mi ritrovo
ingannata. Destatami, vergognata di me stessa sento tanta passione che
mi è forza di desiderar la morte per uscir una volta di pena...».
Non conosceva ancora la pena della gelosia; ma quando _lui_, il conte
marito, cominciò a sospettare, e già alcuno dei vicini e dei conoscenti
mormorava della tresca, dovettero contenersi e non vedersi che di rado.
Quali altre donne amava Alvise? Ove passava il giorno? A che feste si
recava?
Messer Alvise pareva tuttavia appassionato; e per andare da lei,
avvertito da segnali di richiamo, sfidava ogni vigilanza. Se non che
lettere anonime persuasero il conte che la moglie lo tradiva e tentarono
persuadere madonna Vittoria che era ingannata dall’amante: il Pasqualigo
ebbe minacce di morte entro otto giorni se si ritrovasse ancora una
volta con Vittoria, ed essa pativa d’una gelosia divenuta incomportabile
tormento.
Invano egli tentò di assicurarla che solo per nascondere il vero amore
ne simulava ora un altro; Vittoria minacciava di uccidersi.
«Ma ditemi — le scriveva l’amante per frenarla —: vi piacerebbe ch’io
rotto ogni freno di ragione, venissi con forza a levarvi di casa per
torvi di mano a chi potrebbe tor la vita a voi? O pure vi piacerebbe
ch’io, spinto dal desiderio della salute e contentezza vostra, uccidessi
lui, e mi convenisse poi d’esser eternamente separato da voi?».
I pericoli infatti aumentavano con l’aumentare dei sospetti nel conte,
il quale proibiva alla moglie finanche di stare alla finestra, e fino a
un amico dava incarico di osservarla: a un certo Fortunio.
Costui già da tempo aveva saputo che un ritratto di Vittoria era in
possesso d’Alvise; più di una volta era stato sul punto di sorprendere
gli amanti; forse o senza forse era stato lui l’autore delle lettere
anonime e quello che aveva trafugato a madonna un pacchetto di lettere:
di madonna era innamorato anche lui. Oltre Fortunio spiava Vittoria una
«ribalda» cognata o suocera.
E il marito «tutto il dì gridava seco dicendole: io ti darò tanta mala
vita che ti farò anzi ora morire...». Essa pensava ad Alvise «confinata
in casa, sempre».
«Ieri vi vidi in strada, e credo certo che se lui non era in casa, io
era sforzata, rompendo ogni velo d’onestà, di chiamarvi ad alta voce...
Insomma, questa nostra vita è troppo aspra e mi pare quasi impossibile
di poterla vivere lungo tempo...
«Misera e disavventurata! A che termine sono giunta per amore, dal quale
non può o non dovrebbe nascere altro che buoni affetti e pur in me non
provo altro che passioni, tormenti, e morte; e se io potessi finire,
sarei contenta...».
«Bisogna frenare gli appetiti e scacciare certi pensieri dannosi»,
esortava Alvise col tono dell’amante che riflette dopo essere stato
sodisfatto.
Cercava, nondimeno, di confortarla da vicino. Una volta, per parlarle,
si vestì da donzella, e accompagnato da una donna si pose in chiesa,
alla predica, nella stessa panca di lei; ma poi, sospettato uomo, fu
costretto ad uscire. Un’altra volta, mentre stava discorrendo con
Vittoria, essa fu sorpresa da uno di casa e minacciata di morte.
In tale guerra, con troppo brevi tregue, l’amore di messere Alvise si
raffreddava, e nell’inquietudine e nei pericoli (egli doveva guardarsi
da sicari; e un giorno ferì tre che l’assalirono per via, e non osava
andar fuori che accompagnato da tre gentiluomini: Madonna Vittoria
temeva che il marito l’avvelenasse) le doglianze e i raffacci
diventavano più acerbi e più frequenti.
Per lei Alvise «aveva dispregiati gli onori della sua repubblica, per
lei aveva messo a rischio l’onore offendendo, percuotendo e ferendo non
solo uomini e donne di basso stato, ma di sangue nobile ed alto; l’amò
per tutta la vita attendendo il guiderdone della divina maestà!». E
Vittoria, di riscontro: «Le vostre crudeltà sono tante e tante che
meritano che ciascuno le fugga!».
Alla fine, lui le scrisse che per non accontentare i suoi, i quali
volevano s’ammogliasse, partirebbe da Venezia. Essa lo scongiurò che
rimanesse; magari s’ammogliasse; e lo minacciò: «Vi avvertisco bene che
vi potrete ancora chiamare pentito. Tenetevi bene a mente queste parole,
perchè si verificheranno».
Lui se ne andò. E lei giurò di vendicarsi.

II.

La lontananza parve spegnere affatto l’antica fiamma nel cuore di
messere Alvise Pasqualigo; ma bastò che ritornasse a Venezia perchè la
vista dell’amante gli ravvivasse nell’anima, dalle poche faville che
v’erano rimaste, tutto il fuoco d’un tempo. Ahimè! Trovò madonna
Vittoria mutata al bene e molto sicura contro le tentazioni.
«Mentre che siete stato lontano (essa gli scriveva), per non perdere
l’anima insieme col corpo, ho pregato Iddio che rompa il fisso pensiero
che di voi avea... e fui esaudita».
Non le credette. E lei:
«Io conosco il vostro amore verso me, fuori di ogni mio merito,
ardentissimo, e confesso di aver ricevuto da voi quantità di cortesie,
che quando anche spendessi mille volte la vita per voi, non pagherei la
minor di quelle. Ma perchè io mi sono deliberata di voler rimettere
tutte queste vanità corporali, rivolgere l’animo a Dio e riconoscerlo
per mio Signore vivendo vita cristiana, vi prego che non vogliate romper
questo mio proponimento col molestarmi ogni ora colle vostre
lettere...».
No no... non le credeva; Alvise sospettava il tradimento.
Infatti non pentimento, non rimorsi l’avevano mutata così, ma la colpa
di lui che era stato lontano quattro mesi e non le aveva scritto neppure
una lettera. E non s’era mutata così come diceva: aveva davvero un
amante. Un giorno Alvise vide che nell’altana, ove si biondeggiava i
capelli al sole, accoglieva Fortunio. Fortunio, quello delle lettere
anonime! Fortunio il delatore!
Essa negò. Ma Fortunio, per vanagloria e paura a un tempo, disse al
Pasqualigo: — È vero —. Lei stessa, madonna Vittoria, l’aveva tratto a
sè.
E Madonna Vittoria dovè confessare. E confessò senza vergogna, con
audacia, con impudenza:
«Voi sapete che vi partiste contra mia voglia e ch’io rimasi tra tanto
duolo che come morta me ne giacevo nel letto; onde alla fine, disperata,
veggendo che non vi curavate nè anche di consolarmi con una semplice
carta, caddi in tanta gelosia, ch’ebbi ad impazzire, e mi risolsi
vedendo il mio male senza rimedio, di oprar ogni sorta di malia per
liberarmi di tante angoscie.
«Attesi l’occasione, la quale non sì tosto mi venne che l’abbracciai nel
modo che avete inteso da quel crudele, che più tosto dovea patir morte
che confessarvi le cose passate tra lui e me... Ma pazienza! La mia
fortuna ha voluto ch’io spenga affatto l’amor vostro e sì m’accenda di
lui che non abbia mai requie...».
Pazienza? Ed essa perdonava a quel perfido: l’amava e nell’amore nuovo,
e nell’abiezione, non avrebbe avuto più un pensiero, una parola, uno
sguardo per Alvise!
Alvise Pasqualigo allora non sopportò l’abbandono deciso ed assoluto
della donna che aveva amata troppo e troppo a lungo; non volle
rassegnarsi alla vendetta di madonna Vittoria; non si riebbe, e la
gelosia travolse nel fango l’anima sua e la dignità d’un uomo. Nessun
innamorato fu mai un mendico più sordido di Alvise Pasqualigo, che
scriveva:
«Fate almeno per una volta sola che io venga a voi, ch’io venga a baciar
la terra dove voi tenete i piedi...».
Madonna Vittoria, senz’altro, gli rimandava i ricchi doni; le lettere,
il ritratto.
E lui:
— «O mio amore infinito, o donna ingrata! E qual altro sarebbe stato che
non avesse scoperto al mondo i vostri tradimenti acciocchè foste stata
riconosciuta per quella che siete? Voi meritavate pure ch’io scoprissi
il vostro adulterio a vostro marito; ma io non voglio che la fragilità
di donna poco savia mi faccia far atto indegno di me».
Si sarebbe contentato di essere amato da fratello purchè talora gli
fosse concesso di vederla, di ragionarle «con quell’amore che sogliono i
fratelli famigliarmente»!
No: essa l’odiava, ora.
«Voi secondo ch’io bramo vi lasciate vedere ogni giorno, ma vi mostrate
sì colma d’orgoglio che men noia mi apporterebbe il non vedervi. Se io
vi saluto voi vi volgete ad altra parte; s’io vi parlo, sorda e muta vi
mostrate, e io posso dire, in verità, d’essere odiato a morte».
Peggio: era burlato.
«La mia mala fortuna vuole che io abbia gli occhi d’Argo acciò ch’io
vegga la cagione della mia rovina. Son contento, poi ch’altro non posso,
che voi m’inganniate. Ma che i vostri amanti mi burlino, non patirò mai.
Se gli avete cari, fate che mi lascino stare e che si contentino di
godervi».
Troppo a basso era caduto: un impeto d’ira contro l’amante di lei, se
non contro la donna, se non contro se stesso, non avrebbe potuto
scuoterlo e sollevarlo? A vedere madonna Vittoria alla finestra, con la
faccia ridente, e Fortunio sotto, che le rispondeva, «spinto da furor
geloso» e attaccata questione, ferì il drudo...
Ma dopo scongiurò Vittoria che gli perdonasse!
Atterrata, essa rispose: «Il solo rispetto mio doveva por freno ad ogni
vostra voglia, nè amandomi doveva aver maggior forza lo sdegno che
l’amore; ma poi che le cose passate non hanno rimedio e che mi chiedete
perdono, io ve ne faccio grazia...».
E, per convincerlo, gli mandò copia della lettera con cui diceva addio a
Fortunio. Gli diceva:
«M’abbandonai ad amarvi vinta da certe qualità che mi pareva di scorgere
in voi».
Le pareva! Le qualità di quell’uomo le parevan amabili dopo che l’aveva
saputo delatore, sicario, vigliacco! Che menzogna! Che infamia!
Spudorata. Abietta.
E allora, ma solo allora, Alvise Pasqualigo aprì gli occhi. Non comprese
che se lei era giunta a tal segno, la prima colpa ricadeva su lui
stesso; non ricordò che per amor suo la donna aveva pianto. Con un
pretesto, finalmente, spezzò l’ignobile legame.
E mutato il nome di lei, ne pubblicò, insieme con le sue, le lettere:
nel 1569.


COMPASSIONE E INVIDIA

C’è chi ha bisogno di essere invidiato e chi ha bisogno di essere
compianto: forme opposte di uno stesso egoismo e di uno stesso
malcontento.
Dopo vent’anni di separazione Aldo Varni, commerciante venuto da Milano,
e Michele Bragozzi, piccolo possidente che non aveva mai oltrepassati i
confini provinciali in nulla, si erano rivisti un giorno per caso, e
avevano rinnovata l’amicizia di compagni di liceo.
A ritrovarsi dopo quell’intervallo di vita non esente da delusioni e
inganni, a provare il rimpianto quasi nostalgico dell’età migliore, si
sentirono vicendevolmente attratti alla confidenza e si abbandonarono
alla loro natura.
Al caffè, dove ristavano ogni giorno alla solita ora, parlava Aldo? Oh
che uomo invidiabile! E via e via per l’argomento preferito: quello
della felicità domestica e coniugale. Sua moglie era un’arca di virtù.
Bella, elegante, valente in tutto: in conservarsi l’amore del marito o
con l’amore fervido, o con manicaretti appetitosi, o col buon gusto
degli abiti ideati e talvolta, per saggia economia, rimodernati da lei
stessa.
Parlava Michele? Oh che uomo da compiangere! E via e via per l’argomento
preferito: l’infelicità domestica e coniugale. Sua moglie era una somma
di difetti. Sempre di malavoglia, sempre sarcastica, nervosa,
dispettosa. Lui, povero martire, faceva di tutto per contentarla, e
senza lamentarsi: cure, regali, vesti, cappelli, gioielli; e, in
compenso, raffacci, scenate di gelosia, litigi, disperazioni. Una vita
impossibile!
Ma mentre l’uno si sfogava impavido, l’altro ascoltava paziente
secondando solo a monosillabi — Ah! — Eh! — Già! — Uh! —; a sorrisi o a
sospiri. Nessuno dei due tentava di contenere le esagerazioni
dell’amico, nè osava dargli torto per il segreto timore di perdere a sua
volta quella piena accondiscendenza; non dava ragione e non compiangeva
o non invidiava apertamente come per un ritegno di pudore. Tutt’al più
Varni, contemplandosi nella specchiera all’opposta parete e profilando i
magnifici baffi, mormorava per assenso di compianto: — destino! —; e
Bragozzi, quando toccava a lui, raccoglieva lo sguardo smorto e smarrito
a considerarsi le scarpe e mormorava per assenso ed invidia: — fortuna!
—. Eran le parole che tornavano, a vicenda, più grate.
Se non che a poco a poco cessarono anche di approvarsi così. Michele
Bragozzi già pensava dell’amico tanto fortunato: «Imbecille! o s’illude
o crede d’illudermi»; e Aldo Varni pensava dell’amico sfortunato:
«Poveromo! Non sa stare al mondo, e spera che io non capisca!».
***
Con tale accordo e reciproca conoscenza erano venuti a un tacito patto:
tener a distanza, l’una dall’altra, le mogli. Il pensiero che esse,
figurate tanto dissimili, avessero da trovarsi insieme, metteva in loro
l’apprensione della cosa mostruosa o assurda. E ciascuno dei due
You have read 1 text from Italian literature.
Next - Top - 07
  • Parts
  • Top - 01
    Total number of words is 4211
    Total number of unique words is 1592
    34.2 of words are in the 2000 most common words
    48.0 of words are in the 5000 most common words
    57.0 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Top - 02
    Total number of words is 4432
    Total number of unique words is 1851
    31.6 of words are in the 2000 most common words
    45.1 of words are in the 5000 most common words
    52.3 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Top - 03
    Total number of words is 4274
    Total number of unique words is 1800
    32.5 of words are in the 2000 most common words
    46.1 of words are in the 5000 most common words
    54.3 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Top - 04
    Total number of words is 4328
    Total number of unique words is 1711
    34.4 of words are in the 2000 most common words
    48.6 of words are in the 5000 most common words
    58.3 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Top - 05
    Total number of words is 4311
    Total number of unique words is 1681
    36.5 of words are in the 2000 most common words
    50.3 of words are in the 5000 most common words
    58.3 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Top - 06
    Total number of words is 4416
    Total number of unique words is 1723
    36.2 of words are in the 2000 most common words
    50.6 of words are in the 5000 most common words
    57.6 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Top - 07
    Total number of words is 4343
    Total number of unique words is 1618
    36.2 of words are in the 2000 most common words
    48.9 of words are in the 5000 most common words
    56.7 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Top - 08
    Total number of words is 4416
    Total number of unique words is 1644
    36.5 of words are in the 2000 most common words
    50.0 of words are in the 5000 most common words
    57.2 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Top - 09
    Total number of words is 4250
    Total number of unique words is 1773
    32.9 of words are in the 2000 most common words
    47.5 of words are in the 5000 most common words
    53.6 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Top - 10
    Total number of words is 4381
    Total number of unique words is 1661
    36.5 of words are in the 2000 most common words
    49.6 of words are in the 5000 most common words
    57.5 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Top - 11
    Total number of words is 4152
    Total number of unique words is 1614
    33.7 of words are in the 2000 most common words
    47.1 of words are in the 5000 most common words
    54.3 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.