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d’amico; che infamia se avessi detto a qualcuno, pur a mia madre: — Vidi
che Tito baciava la Gisa!
E con che cuore ascoltavo le notizie che a intervalli — a lunghi
intervalli — ci davano i parenti del prigioniero! Ci mandava a salutare.
Poi ci mandò dei regalucci: d’opera sua. Una volta fu un vasetto in
forma d’anfora; un’altra volta un cestello; un’altra volta una scatola
col coperchio.
L’opera era abbellita da rilievi, fregi, piccole frutta, fiori a tinta
color mattone; e tutto composto di polvere di mattone e di pane
ammollito ed essiccato, che stecchi contenevano saldo.
E avvenne che guardando entro la scatola ci leggemmo scritto nel fondo,
a tinta più rossa (sangue?): — _per Dolfo._ — Allora guardammo nel fondo
esterno del cestello e dell’anfora, e ci vedemmo le stesse rosse parole:
— _per Dolfo._
***
Scontati soli cinque anni di pena Zvanòn moriva, a Portolongone.
Io ero sui dodici anni. Non temevo più. E rivelai finalmente perchè
Zvanòn fu omicida. Allora si comprese chiaramente come, non giuocatore,
egli avesse attirato l’altro, che era scarso a quattrini, a giuocar di
molto: per conseguire un pretesto da finir la tresca in un litigio.
E a me dissero:
— Facesti male a tacere. Parlando avresti mitigata la pena di quel
disgraziato; non sarebbe forse morto in carcere.
Ma anche adesso non so persuadermi che feci male. Zvanòn al disonore
della sua famiglia preferì Portolongone.
E col pane del suo nutrimento componeva le cose che rammentassero a chi
lo aveva aiutato a salvar l’onore dei suoi, la sua gratitudine,
l’affetto imperituro, l’anima sua. _Per Dolfo._


LA CASTA SUSANNA

L’orrida bellezza dei «calanchi»! Dalla parte ove il monte dirupa nella
Landa sino al limpido rio quella rovina par l’opera d’una gran fantasia
turbolenta e ansiosa che la morte abbia interrotta, improvvisamente
freddata quasi a castigo d’orgoglio; e l’anima che ammanta di verde i
dorsi al di sopra e riempie la valle di colori e di voci lì sembra
tenuta in un lungo stupore, sembra attonita e stanca in un sogno che fu
e non è più pauroso.
Diroccate muraglie, quali tramezzi disposti con regola e sostenuti da
irti sproni, protendono guglie e cuspidi, estendono creste, si aprono a
tagli, a frastagli, a crepe, a solchi, a strappi, a lacerazioni, a
incavi tra cui le ombre e le luci mutano lente; e i tronchi vertici, e
le sottili lame dentate, e i corrosi ricami — quando un soffio di vento
si direbbe bastasse ad abbatterli, confonderli, disperderli — rimangono
in vista, fuori degli sconvolgimenti massicci e su le profondità opache,
come fortunati avanzi di un infantile capriccio o di una sublime
audacia. Il sole accende la sabbia gialla che ricopre le balze argillose
ma non un filo di erba erompe dalla inerte materia. È una squallida
uguale tristezza. Eppure così bella!
***
I calanchi — a cercarvi conchiglie fossili — furon la méta dei primi
giuochi per me e Adriana: compagni d’infanzia.
E forse quell’asprezza del luogo nativo ci aveva come d’istinto allevati
a una fiera puerizia, che contrastava all’educazione familiare.
Ma con l’aumentar dell’età preferimmo scendere per i campi nella Landa e
là raccoglier fiori con lo spettacolo della montagna di fronte, così
vario di tinte e di luci nel seguir delle ore. Giorni beati dell’anima
ancor candida! giorni felici delle prime ingenue e pure tentazioni
d’amore!
S’intende però che, con tutto il bene che ci volevamo, Adriana ed io ci
accapigliavamo spesso; a volte più che lo sfogo di una bizza improvvisa
era quasi una prova di ribellione. Avevamo l’arcana coscienza di esser
legati dall’affetto per sempre, e ci bisognava anche la coscienza di
poter divincolarci.
A volte diveniva fin necessario l’intervento di qualche amico per
rimetterci in pace: a fatica sembravamo far grazia l’uno all’altra; e ne
avevamo tanta voglia di sorriderci e di correr via insieme, incontro
alla gioia, incontro a un non dubbioso avvenire!
***
I nostri prediletti amici erano due uomini attempati: Isidoro Lamandini,
il vignarolo; e Paolo Querzè, il falegname, che aveva la bottega su la
strada maestra.
Il primo, di solito in giacca alla cacciatora e lo schioppo a tracolla,
c’incuteva un rispetto affettuoso perchè, forte e temuto, a noi si
dimostrava servizievole e carezzevole. Possedeva un’arte meravigliosa.
Balzava vestito nei borroni della Landa e, intorpidata l’acqua,
acchiappava i pesci con la disinvoltura d’uno che cogliesse cose inerti,
e ce li gettava splendidi e boccheggianti su l’erba.
Il secondo — Paolone — sapeva tagliar il vetro difilato col diamante, e
preparar vernici di ogni colore, e raccontarci lunghe storie che
s’inventava lui spacciandole come vere. Quando non aveva voglia di fole,
cantava, a squarciagola, del brigante Mastrilli e di «Erminia fra
l’ombrose piante». Ma il divertimento più grande quei due ce lo davano a
contendere per scherzo fra loro. Se ne dicevan di cotte e di crude; se
ne facevan di tutte le sorta. Non di rado Paolone restava senza pialla e
Isidoro senza schioppo, e spendevan ore e ore a cercar quella o questo
minacciandosi di legnate e finendo all’osteria a bere un litro.
***
A sedici anni Adriana era una ragazza come ce ne sono tante, se
cresciute fuor del mondo. Timida che arrossiva per nulla, si vergognava
della sua timidezza e per rifarsi s’avventava a dispetti e a
impertinenze. Vanitosa fino al capriccio, sdegnava le lodi alla sua
bellezza quasi fossero canzonature. Buona, godeva a parer cattiva. E se
la dicevano innamorata, protestava offesa. S’intratteneva più volontieri
con me che con le amiche perchè io le piacevo di più: che c’era di
strano?
D’inverno quando, giù a Castello, lei passava i giorni tediosi in casa e
in chiesa, e io in città sospiravo le vacanze per rivederla, mi scriveva
lunghe lettere in presenza della madre e gliele leggeva: notizie; motti;
confidenze; insolenze, magari: parole d’amore nessuna. E guai se mancavo
alla consegna di far lo stesso!
Come ebbe da riferirmi la disgrazia capitata all’amico Lamandini
cominciò la lettera così:
«Ho da raccontarti una storia da ridere...».
Isidoro e Paolone l’ultima notte di carnevale si eran presa una sbornia
solenne. Rincasando sopra la neve, l’uno aveva piegato a destra, l’altro
a sinistra con la pretensione d’indirizzarsi l’un l’altro per la via
buona. E Isidoro era precipitato nella pozza piena d’acqua gelata,
presso la chiesa.
Ma Paolone, che non stava diritto e non aveva forza di trarlo fuori,
chiamava aiuto invano. Nessuno gli credeva; gli davan dell’ubbriaco;
dubitavano d’una burla.
E la lettera finiva:
«Isidoro s’è ammalato, e forse morirà. Non ci mancava che questo per
farmi piangere!».
***
Quell’anno gli esami di licenza liceale ritardarono il mio ritorno in
campagna. Il giorno che finalmente vi giunsi non trovai Adriana in casa.
— Sarà nella Landa a cucire — mi disse la madre.
Era là, infatti, all’ombra delle querce e dei pioppi, ove il rio più
affondava tra le sponde folte di acacie e di vinchi. Ma non riuscii a
sorprenderla con un grido: — Adriana!
Mi prevenne, incontro. Era pallida.
— Gli esami? — chiese.
— Bene!
Allora si sfogò in rimproveri. Tenerla in pena! Non telegrafarle!
Esagerava l’inquietudine per dissimulare il suo desiderio — e frenar il
mio — di consolarci più che con una stretta di mano dopo così lunga
assenza.
— Mi vuoi ancora bene, mi ami! esclamai.
Confermò con la luce degli occhi e del sorriso.
E dimandò:
— Perchè dici ancora?
— Perchè sei diventata più bella!
Scosse le spalle mormorando: — Lo dicon tutti. Ma — aggiunse seria — è
ora di metter giudizio!
E a dar insieme prova di giudizio m’impose di raccoglierle fiori e
mentastro, come quando eravamo bambini.
Intanto lei cuciva e discorreva.
— Che paradiso, qui! Ci starei da mattina a sera!
Indi, col tono di chi dice la cosa più semplice, più naturale, più
innocente del mondo:
— Che brividi di delizia in quest’acqua così fresca, all’ombra! Ci fo il
bagno ogni giorno.
Io ebbi un senso di disgusto, quasi di panico. E dissi:
— Se qualcuno ti vede?
— A mezzodì, quando tutti sono a desinare? Chi temi che ci venga
quaggiù?
Fui per gridarle: — Non voglio! —; se non che sapevo che per piegarla al
mio volere non era quello il modo. E tacqui. Un silenzio — speravo —
ammonitore.
Tacere quando avevamo tante cose da dirci!
— Ah! — esclamò lei d’improvviso. — Mi dimenticavo di darti una brutta
nuova. Paolone sta male. È a letto da tre giorni con una polmonite.
E Lamandini?
Indovinò la mia dimanda.
— Isidoro se ne andrà alla caduta delle foglie. Tisi senile.
***
Il giorno dopo andammo a trovar Paolo Querzè. Era infuocato dalla febbre
e di tratto in tratto delirava. Ma a udir le nostre voci volle
sollevarsi; e ci sorrise dicendo:
— Ah la gioventù! Siete contenti, voi due! E raccogliendo lo sguardo in
me solo:
— Com’è bella Adriana!
Poi socchiusi gli occhi e spento il sorriso, mormorò:
— E io muoio.
In quel punto udimmo tossire, da basso.
Lamandini.
Saliva a stento la breve scala. Quando fu su, dovè sedere per ricuperar
il poco di fiato che gli avanzi dei polmoni gli concedevano ancora. Ma
aveva ancora tant’animo!
Si accostò al letto dell’amico, a scherzare con tutta la rudezza di un
tempo.
— Fai proprio viaggio, Paolone?
— No — l’amico rispose. — Aspetto che te ne vada tu, prima.
— Prima io? Non credo. A ogni modo, hai regolati i tuoi conti, per non
aver noie, di là?
— È presto! — ribattè l’altro. — Tu, piuttosto, l’hai avuto il permesso
di transito? il passaporto?
— Non ne ho bisogno. Non ho ammazzato nessuno.
— Nemmeno io.
— Non ho rubato.
— Nemmeno io. Ma e il resto, Paolone?
— Niente!
— Ah niente? Ti par niente aver mancato fin all’ultimo?
— Mancato?
— Sì: con quelle ispezioni... — e Isidoro strizzò l’occhio a Adriana
sorridendo: il sorriso di un cadavere —; le ispezioni tra l’acaciaia,
mentre una bella ragazza faceva il bagno...
— Anche tu, con me — conchiuse l’altro, mesto e affannoso.
Adriana, ch’era avvampata all’oltraggio ignorante, diventò così pallida
che temei svenisse.
— Andiamo! — affrettò.
***
Appena fummo su la strada si fermò affrontandomi. E con voce sicura, con
sguardo fisso, con anima imperiosa disse:
— Tutto è finito tra noi due! Lasciami. Io ti lascio!
Impazziva? Tremai a dimandarle che cosa le avevo fatto, io, di male; che
colpa avevo io se coloro l’avevano offesa. Voleva pigliassi a schiaffi
due moribondi?
Oh non questo voleva!
— Non capisci? — insistè stupita, più addolorata, pareva, dalla mia
incoscienza. — C’è da spiegarle certe cose? Non capisci la mia
ripugnanza? Non capisci che mi sarà intollerabile, per sempre, questo
pensiero? il ricordo di quello che tu hai udito oggi, di me?
Non capivo: non potevo capire il pericolo in cui per colpa non mia
correva il nostro amore. Esperto del mondo e della donna avrei risposto:
sì. Concedere per forse ricuperare.
Invece, con gli occhi pieni di lagrime, l’invocavo: — Adriana! Adriana!
— La scongiuravo: — Non farmi soffrire!
— Non soffro anch’io? — gridò irritata dalla mia debolezza, muovendosi
per avviarsi. E ad ultima difesa io ebbi un sorriso amaro e dissi: — Un
pudore esagerato! — Schifiltoso, volevo dire; assurdo a pensarlo!
Lei, senza ribattere, si avviò.
Mi mordevo le labbra per non rompere in pianto. Pensavo e non sapevo che
pensare. Perduta! Tutto sarebbe stato inutile... Perduta!
Tutto inutile?
Ah costringerla a voltarsi, a insolentire, a schiaffeggiarmi! Forse era,
col pentimento di lei, la salvezza, dopo!
Sghignazzai; gridai:
— La casta Susanna!
Ma Adriana non si voltò.
Era finita.
***
Laggiù, nel praticello della Landa, dove lei non sarebbe tornata mai
più, io piansi. Eppoi inveii come l’avessi presente; la accusai di
crudeltà, di demenza, di ogni cattiveria, di perfidia.
Ma a poco a poco, nel mentre stesso che l’accusavo, la difendevo.
Innamorata d’un altro aveva colto quel pretesto per liberarsi di me? No.
Amava me: ne ero certo. Da che cosa dunque attingeva la forza per
vincere e respingere il nostro amore? Perchè? Perchè? Per una
impressione morbosa? Nulla sapevo io, povero ragazzo ignaro, di
isterismo e di psicopatia femminile; ma no: non poteva essere un male
dei nervi o del sangue la causa di tanto dolore! E nemmeno il
pregiudizio religioso che l’incolpasse dell’aver condotti a peccato
mortale quei due vecchi prossimi a morire. No: doveva esser stato
l’orgoglio! l’orgoglio ferito! Ma quale? Ma perchè? Ecco. L’orgoglio,
era stato, che aveva una radice profonda nell’indole della donna, nel
sesso: l’orgoglio della verginità che si sentiva contaminata; l’orgoglio
come della sanità che avesse patito il contatto della brutalità in
dissoluzione, della corruzione, della morte; l’orgoglio di un amore
puro, alto, nobile che era stato macchiato, abbassato, avvilito da
sguardi, pensieri osceni, da schifose voglie; l’orgoglio di un’anima
profanata che si comprendeva diminuita dinanzi al suo stesso amore.
Più tardi però, agli anni dell’esperienza, quando ci pare d’avere
conosciute bene le donne, mi chiesi più d’una volta: Adriana avrebbe
tanto sofferto di quella profanazione se invece che vista dai due
vecchi, di cui l’uno era preso alle spalle dalla morte e l’altro le
andava incontro, fosse stata vista dai miei occhi innamorati e avidi
d’amore sano e forte?
Ma anche adesso non so che cosa rispondermi.


BUONA GENTE

I.

La fattoria vecchia, grande come un castello, con davanti l’ampio prato
e lo steccato in mezzo per i puledri, e il muricciuolo di cinta
investito dai capperi (il profumo di questi fiori, così tenui, al
luglio!); la montagnola della conserva che le acacie difendevano dal
caldo; l’orto con la vasca (belle, ora, anche le salamandre!); eppoi i
campi di grano e di canapa, tra gli olmi, belli...
La stretta per cui si svegliava con un nodo alla gola non gli veniva da
un’improvvisa imaginazione brutta o triste nella serenità del sogno; gli
veniva da quel sereno fondo senza fine, da quel sole abbagliante, fermo.
Nel destarsi, se vi era luce, stentava a riconoscere lo stambugio ove lo
ricoverava la lavandaia; e gli pareva che il cuore gli si allargasse a
vedere il cane dormente lì a lato della branda.
Non gli restava più che il cane. E il suo passato era nel sonno e nei
sogni. Ma quanto soffriva!
Invano pregava Dio ogni sera che lo liberasse da questa pena. Non
bastava che espiasse, nella miseria, e tenesse l’espiazione quasi
elemento della sua ultima vita; no, non bastava: l’afflizione più grande
doveva patirla dormendo. E il contrasto fra la sua sorte e la sorte di
tutti gli altri, che al soffrire trovavano riposo al dormire, gli
imprimeva in faccia quel triste sorriso mesto, come d’ironia mitigata da
un doloroso pudore.
Ma diventava una contrazione spasmodica, quel sorriso, se qualche antico
conoscente incontrandolo lo salutava e gli porgeva la mano.
— Stringermi la mano? — egli chiedeva mentre porgeva timidamente la sua.
E con fatica, quasi gli mancasse il respiro, rispondeva alle dimande
spietate per essere pietose. Le figliuole? Una era suora, a Lugo;
l’altra, moglie di un avvocato, stava a Firenze.
— Perchè non andate con lei?
Rispondeva:
— Capirete...
Già: capirete che un avvocato che si stima non può mantenersi tra i
piedi il suocero in voce di aver rubato, e il conte Sesti, da cui era
stato cacciato per ladro, aveva tante conoscenze, in tutta Italia!
— Non mi avanza che questo — aggiungeva Procolo Granari accennando al
cane.
— Fatevi coraggio, Procolo!
Egli si avviava scuotendo il capo senza dir nulla, senza salutare.
Avrebbe potuto dire che il genero guadagnava poco e che la figlia aveva
da mandargli solo un piccolo aiuto di quando in quando? che l’ignoranza
d’ogni cosa all’infuori della campagna, e gli anni e i malanni, non gli
permettevano di buscar un soldo? che mancando di protezioni non sperava
di essere ammesso nel Ricovero di Mendicità?
Andava vagabondo e il cane, alla corda, lo seguiva più mesto di lui
perchè pativa più fame.
Ah! quel bracco così alto e macilento!
Faceva sin ridere i monelli; e lo chiamavan _Tredici_! E se a vederlo
solo, Procolo Granari, curvo nella lunga persona, coi capelli candidi
sfuggenti di sotto il cappellaccio, la barba bianca rada su le guance
smunte e quel suo sorriso, con gli abiti oramai cenciosi, eppure puliti,
e le mani di un pallore esangue, pulite, avrebbe commosso per quasi
un’apparenza di nobiltà decaduta ma non perduta, a vederlo con il cane
enorme, pelle e ossa, agli occhi anche non maligni egli assumeva un
aspetto sinistro; il suo sorriso pareva cattivo.
Maltrattare così una povera bestia!

II.

Invece di crescere, il soccorso della figlia, da Firenze, scemò. Essa
gli scriveva che il marito non guadagnava abbastanza da risparmiarle
sacrifici, e lo scongiurava di rivolgersi a questo o a quello per entrar
nel Ricovero.
Ma Procolo Granari a mendicare raccomandazioni da questo o da quello
preferiva rivolgersi alla pietà anonima, su la strada.
Ahimè! Al male preferibile non è sempre agevole adattarsi, e per quanto
egli si ripetesse che era necessario provare il castigo, quando stava
per stender la mano al passante gli mancava l’animo; non sentiva più la
fame.
E il cane sbadigliava.
Fu appunto un lungo e tacito sbadiglio di quest’altro disgraziato che
gli suggerì un giorno il mezzo a superar la vergogna: mendicare non per
sè, ma per lui, il solo amico che gli rimaneva.
Se lo tirò dietro fin in Piazza San Domenico. Aspettò davanti alla
chiesa.
Quando ne vide uscire una vecchia signora, mosse verso di lei col
cappello in mano.
— Un po’ di carità per questa povera bestia.
Aveva parlato così sommessamente che la signora ne aveva inteso a fatica
le parole e, meravigliata della richiesta, a volgere gli occhi diè un
grido.
— Che orrore, mio Dio!
In fretta traeva due soldi dalla borsetta. Ma li porse con viso turbato.
E disse, tremante di sdegno:
— Perchè lo tenete se non avete da dargli da mangiare?
— Non ho coraggio...
— E avete il coraggio — interruppe andando — di vederlo morire di
stento!
Procolo traversò la piazza; entrò dal fornaio a comperar due soldi di
pane. E sbocconcellandone la metà, intanto che spezzava e dava al cane
l’altra metà, guardava con occhi pieni di lagrime; e il rimprovero della
signora gli pareva giusto.
L’elemosina per cui rompeva il digiuno l’aveva avvelenato.
Eppure gli convenne ripetere l’esperienza che non era riuscita male del
tutto. E affrontò un tale nella cui faccia di ricco borghese credè
scorgere buon cuore e buon umore.
— Mi scusi...
Il signore s’affoscò. Prevenne:
— Non sapete che l’accattonaggio è proibito?
Procolo tentò giustificarsi accennando al cane.
L’altro lo considerò un istante, ne potè trattenersi dal ridere, dal
dire:
— Va a lavorare anche tu!
Lo scherno.
E a testa bassa, senz’ira, anzi con un’amarezza di coscienza colpevole,
il vecchio si incamminò per una strada appartata, sebbene nel centro
della città.
Ivi ricuperò la speranza.
Una giovane bella, elegante, si fermò ad osservar non lui ma la carcassa
ambulante; e con mirabile ingenuità, non sapendo che altro pensare,
dimandò seria:
— È una réclame?
Senza rispondere a parole Procolo scosse il capo, e chinò gli occhi.
Allora la passeggera comprese; aperse il portamonete. Ma l’ufficiale,
che essa attendeva, giunse in tempo a fermarle la mano.
— Non capisci? — esclamò. — Fan patir le bestie per eccitare la pietà
pubblica!
E vòlto al colpevole:
— Se ci fosse una guardia — minacciò — vi farei arrestare!
Rincamminandosi a testa bassa, il vecchio udì che la bella voce diceva:
— Che delitti! Il cane potrebbe arrabbiare, rompere la museruola...
... Se rincasato Procolo Granari non avesse ricevuta una
cartolina-vaglia della figliuola (venti lire), non solo avrebbe dimessa
l’idea che la mattina gli era parsa sagace, ma avrebbe accusato il solo
amico che gli restava al mondo di essergli anche lui causa di soffrire.
E la notte sognò che andava a caccia con Reno per una prateria fiorita,
ed erano felici tutti e due finchè il sole del sogno lo svegliava
angosciato.

III.

Accadde che per mutamento della sorte a suo solo favore Reno fu davvero
felice.
La contessa Torselli nell’uscire un giorno dal suo palazzo di via Goito
— l’automobile l’attendeva — ebbe impedito il passo da quel cane. Non
esitò a chiamare colui che lo conduceva.
— Ehi! signore!
Procolo si fermò.
— Il suo cane è ammalato. Io appartengo alla Società protettrice degli
animali, e il mio nome basterà perchè vi sia curato gratuitamente.
Porgeva, molto gentile, il biglietto da visita.
Ma Procolo Granari disse:
— Non è ammalato. Ha fame. — E col suo mesto sorriso aggiunse, piano: —
Come me.
— Fame? — riprese la signora dopo un attimo di perplessità. — Venga!
Rientrò nell’atrio; premè il bottone del campanello; ordinò alla
portinaia:
— Dite al cuoco che vi mandi giù subito una scodella di zuppa per questa
povera bestia, e dategliela.
Indi a Procolo:
— Ogni giorno all’ora d’oggi ci sarà qui, in portineria, una scodella di
zuppa per il cagnone. Se ne ricordi!
E senza aspettare ringraziamenti la contessa Torselli, protettrice degli
animali, salì in automobile.
————
Ogni giorno Procolo restava fuori nell’atrio, forse per non soffrir
anche di invidia, intanto che Reno ingoiava la zuppa. Si spicciava con
poche boccate. Pronta, la portinaia alzava la scopa.
— Passa via, brutta bestia!
E il cane, sebbene non sazio, scodinzolava tornando al padrone.
Ma a poco a poco la portinaia s’intenerì. Quegli occhi pieni di
riconoscenza già prima che lei aprisse il cancello; quel lieve uggiolare
quando lei tardava, quasi voce di preghiera o timore; quel tentativo di
balzarle amicamente contro — l’avrebbe baciata a suo modo se essa non si
ritraeva svelta e se a lui più non premeva spingere con una zampata
l’usciolo e correre al noto angolo — le fecero cambiar apostrofe. La
«brutta bestiaccia» diventò in ischerzo un «brutto matto»; e poi il nome
proprio di Reno fu amicamente usato nei richiami e nelle carezze.
Ora bisognava alzare la scopa perchè il cagnone non avrebbe voluto
uscire così presto dal luogo di delizia. Si accucciava ai piedi della
donna, guaiva, parlava. — Tenetemi sempre qui, con voi.
— Gli manca la favella — la portinaia ripeteva —, ma si capisce lo
stesso. Che giudizio! Che giudizio può avere una bestia!
Mentre il padrone gli rimetteva la museruola e la corda al collare, il
cane scodinzolava; era però evidente ne’ suoi occhi l’intimo conflitto
fra le due affezioni: la vecchia e la nuova.
E un giorno appena fuori di casa sfuggì, con uno strappone, di mano a
Procolo; il quale giunse al palazzo Torselli dubbioso di non trovarvelo.
Se le guardie l’avevano accalappiato, addio!
Invece la portinaia disse:
— È qui. — E lo chiamò più volte:
— Reno! Reno!
Il cane non compariva. Perchè? Dov’era? Dove si era nascosto?
Finalmente lo scopersero nel bugigattolo del carbone. Fingeva dormire.
Onde Procolo scosse il capo. Aveva capito.
— Anche questo... — mormorò.
E la portinaia:
— Lasciatelo a noi. Vi risparmierete i quattrini della tassa.
Sì! La tassa gliela aveva pagata due volte la lavandaia sua ospite; ma
adesso la lavandaia era stanca di non ricevere più un acconto. Già aveva
pregato «il signor Procolo» di cercarsi altro alloggio.

IV.

Al dormitorio di via delle Mole si pagavano cinque soldi per notte;
spesa non grande chi pensi che in ogni giaciglio c’eran cuscino e
coperta di lana — sebbene il cuscino, il quale avrebbe dovuto esser
bianco, al lume della lampada a petrolio apparisse del color della
coperta; la quale avrebbe dovuto essere bigia —, ma spesa non piccola,
cinque soldi, per i frequentatori non forniti di paga costante o
guadagno sicuro.
E il signor Giulione e la signora Tecla, proprietari e ministri
dell’azienda, non facevan credito a nessuno.
Così, quando nell’avanzar dell’inverno gli mancasse o tardasse il
soccorso della figlia, il vecchio Granari poteva trovarsi a questo
dilemma: o morir d’inedia o morir di freddo. Poteva anche, però, morir
d’inedia e di freddo contemporaneamente.
E una mattina, a gennaio, il signor Giulione e la signora Tecla entrando
nella stamberga per la pulizia — e che pulizia! — ebbero una sorpresa:
s’accorsero di una trasgressione al regolamento non avvertita la mattina
prima d’andar a riposare. L’ultimo letto di destra era ancor occupato.
Scossero quel corpo inerte nella buca del pagliericcio.
— È morto? — il marito dimandò confuso.
— No — rispose la moglie. — Va a prendere l’aceto.
Per l’aceto il giacente rinvenne; cercò con lo sguardo, senza
riconoscere dove fosse. Pronunciò qualche parola.
— Muoio — di — fame.
— Corri! Dammi il latte che m’è rimasto nella teglia — ordinò, ansiosa
adesso, la signora Tecla.
Ma il latte, deglutito a pena, non rimase in quello stomaco, tanto era
debole. E allora la signora Tecla riempì la mente del marito con
commissioni successive, di cui, nella sua intenzione, una sostituiva
l’altra e che il signor Giulione credè invece fossero da adempier tutte
quante.
— Va alla farmacia a prendere un cordiale. — (Il grosso uomo
s’incamminò). — Va a chiamare il medico all’ambulatorio. — (Due passi).
— Va in Municipio a dir che vengano i pompieri con la lettiga. — (Due
passi). — Va all’Ospedal Maggiore: caso d’urgenza. Di’ così: caso
d’urgenza. — (Partì di trotto).
Poi la signora Tecla, indossata la mantella, scese per consiglio
all’osteria di fronte: un basso fondo.
L’ostessa esclamò: — Latte freddo gli ha messo in gola? Brodo caldo vuol
essere!
Súbito attinse alla pentola, che borbottava al fuoco, e con una scodella
del liquido fumante seguì l’amica. Intanto la serva annunciava a chi
passava:
— Sapete? Al dormitorio c’è uno che muore di fame. Proprio moribondo!
La voce si sparse in un attimo per la contrada.
E la carbonaia — la famosa manutengola detta la Strazzarola — accorse
con una tazza di caffè; e la fruttivendola guercia recava un ovo fresco.
Anche, dal postribolo, in vestaglia di lana rossa, uno scialle bianco su
le spalle, i capelli sciolti e una guancia imbellettata e l’altra no, la
Romana si precipitò gridando:
— Io, la salvo io questa creatura! Assassini! Vigliacchi!
Chi fossero gli assassini e i vigliacchi sapeva lei, portando una
bottiglia di cognac e un bicchierino.
Alle grida, lo spazzaturaio avvicinò l’asino e la biroccia a una
colonna; salì, armato della lunga scopa. E salì al dormitorio anche
Figuretta. Senza cappello, in pelliccia, si calzava i guanti. Figuretta
il borsaiuolo, uscito il giorno innanzi di collegio. — In vacanza —
spiegava lui.
— Io! io! — ripetè la Romana facendosi largo fra le donne, disperate che
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