Top - 02

Total number of words is 4432
Total number of unique words is 1851
31.6 of words are in the 2000 most common words
45.1 of words are in the 5000 most common words
52.3 of words are in the 8000 most common words
Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
guance e volgeva lo sguardo, a scorgersi, a sentirsi solo in quella
campagna deserta e squallida capì che di contro il dolore umano c’è
qualche cosa di peggio che l’umana cattiveria, l’irrisione, lo scherno:
c’è l’indifferenza di tutta la vita estranea alla nostra vita, c’è la
separazione da noi delle infinite esistenze inconsapevoli di noi.
A lui che cosa restava? chi gli restava? Un cane! L’ira lo scosse; gli
diè l’impeto di chi cerca divincolarsi. E gridò, fremente:
— Top!
Top impazzava a levar passeri dal seminato, a inseguirli abbaiando; e
non attese alla voce del padrone.
Ma questa volta il padrone non ripetè l’ordine prima di punir la
disubbidienza.
Sparò.
Un guaito; e il bracco cadde.
Prospero Marzioli corse a lui; e vide gli occhi spaventosamente
affettuosi, ebbe da quegli occhi che si spegnevano una tremenda
invocazione di pietà. E quasi per trovar ristoro al male atroce o fine
all’agonia, la povera bestia piegò il collo.
Dal collare usciva, arrotolato e tenuto da un filo, un bigliettino.
E lo zio, premendosi con la sinistra il cuore, lo prese. Lesse:
_Diglielo tu, Top, allo zio che gli vorrò sempre bene; tanto, tanto
bene_!
Ma Top era morto.


LE PENNE DEL PAVONE

Andar a bruscolare anche allora significava in pratica, più che la
parola non dica, raccogliere, per bruciaglia, stipa grossa e bacchetti
lunghi, e se nel luogo della ricerca si trovavan begli alberi frondosi
la coscienza non escludeva qualche strappo o taglio di materia non
secca. La massima antica che «la roba dei campi è di Dio e dei Santi»
pareva dar diritto, allora, a portar via qualche cosa appartenente ad
altri; e poichè oggi il diritto nuovo pare conceda di portarla via
tutta, o quasi tutta, evidentemente la roba dei campi sarà oggi passata
in padronanza superiore a quella dei Santi e di Domineddio: il mondo non
cammina per nulla.
— Non date danno — raccomandava la donna del casellante ferroviario ai
suoi ragazzi; e aggiungeva come argomento positivo alla moralità ideale:
— Potreste buscarvi delle bòtte —. Quando però i figliuoli rincasavano
carichi di legna o, magari, stringendo al seno un mellone o un cocomero,
e dicevano: — Ce l’han donato —, lei fingeva di crederlo: li vedeva
incolumi, e «la roba dei campi...».
Ma la buona donna raccomandava con maggior premura: — State lontani dai
borroni!
Perchè a bruscolare andavan di solito lungo il Rio Rosso dove scorre più
fondo tra più folto e più pioppi, verso monte; e non vi mancavano le
tentazioni e i pericoli.
Il divertimento alla chiusa!: togliere i travi che servivan da paratoia
per veder la piena precipitare riscintillante, e mandar con essa — a
rischio di tenergli dietro — il primo trave per sollevare dal baratro
una fragorosa colonna di spume e di faville! E i pesci? Non si godeva a
sorprenderli e quasi afferrarli mentre galleggiavano nell’acqua limpida
e tremula?
***
Quel giorno, dunque, i figliuoli del casellante, Mario e Aldo Sartori...
Bei ragazzi tutt’e due, ma più il piccolo — Aldo —, che esprimeva dagli
occhi la letizia del sangue sano e la bontà dell’indole... Quel giorno,
a fin di luglio, appena furono discesi dal ponte s’avviarono di corsa
alla chiusa. Ahimè, non aveva raccolta. E il caldo era così grande che i
pesci non comparivano, e fin i ranocchi, all’approssimar dei passi,
tardavano a balzar giù con un tonfo e a penetrar nella melma dimenando
le gambe e intorbidando, come d’un fumo, il breve specchio. Soltanto le
idrometre mostravano d’esser contente a sfiorar l’acqua coi fili delle
loro zampine, insensibili a tutto fuorchè al correre miracolosamente
così su l’acqua, nel sole; emanazione di vita indifferente a tutto
fuorchè al molle contatto e al moto alacre e incessante.
— Raduna tu i bacchetti — comandò Mario al fratello, e si adagiò a
un’ombra. — Io farò il fascio.
Sapeva già compor le fascine a modo degli uomini. Con un vinco. Ne
attorcigliava la vetta a cappio, sottoponeva il legame alla stipa, la
calcava col piede, e introducendo nel cappio l’altra estremità del vinco
la tirava e torceva in groppo sì che tenesse la presa. Poi si addossava
il fastelletto e portandolo a dorso curvato si credeva che chi lo
guardava lo stimasse un uomo. Perciò comandava al fratello e gli
lasciava il vanto della fatica più umile.
— Cogli tu! Presto!
No e no. Aldo ne aveva meno voglia di lui. E liticarono. E si
acciuffarono. Dei due, Mario, che percuoteva più sodo, era più facile a
lamentarsi. Aldo resisteva finchè poteva, indi scappava con rivincita di
boccacce e sberleffi che ne rideva lui stesso. E ridendo tornavano in
pace.
***
Da quanti secoli si ripete nei fanciulli la smaniosa gioia che dovevan
provare gli uomini primitivi allorchè riuscivano a impossessarsi di
qualcuna delle più liete creature del mondo? Era una vittoria su la
natura, la quale ai volatili volle dar mezzo di sfuggire alla cupidigia
umana, ed è tuttavia la soddisfazione di un’istintiva, atavica invidia
per quelle creature così liete a credersi inafferrabili: tanta
soddisfazione, tal gioia da rendere ingenua e inconsapevole la crudeltà.
— Con un archetto — diceva Mario — si prendon le buferle.
Ora i fratelli sedevano all’ombra insieme, pacificati e invogliati di
caccia da un branco di cardellini che calando dalle fronde di sopra a
loro eran venuti a bere e a bagnarsi.
— Sono men furbe dei cardellini le buferle — diceva Aldo.
— E se ci restan, nella corda, non scappan più. Vedrai!
Ma costruire un archetto non era agevole come legare un fascio di stipa.
Mario piegò ad arco un ramoscello e lo tese per bene con uno spago
doppio a scorsoio. Se non che non sapeva ancora la giusta distanza dei
nodi, nè trattener l’uno col piòlo, che, quando la vittima capiterebbe
su la corda, cadrebbe, e l’arco scatterebbe serrando e stringendo le
povere gambe fra l’altro nodo e la cocca. Uno spasimo atroce.
— Fa presto! — Aldo sollecitava, ansioso del giuoco. — Dove ce n’è,
delle buferle, adesso?
— Nell’acaciaia del Palazzaccio.
E prova e riprova, finalmente la macchina sembrò in ordine.
Mentre avanzavano per il sentiero tra le macchie il piccolo si accorse
che il giorno mutava luce.
— Vien tempo da piovere.
— Lascia! In caso che piova andiamo a ricovero nella capanna del
vignarolo, lassù. Io non ho paura di niente.
***
Ecco. Sfogliata la cima a un’acacia, posato l’archetto fra una rama e
l’altra, non c’era più che da attendere con pazienza, zitti e queti.
Passeri ne giungevano, d’intorno, ma parevano avvisarsi a vicenda
dell’insidia: buferle, nessuna. E Aldo non poteva star fermo e tacere.
Deluso, cominciò a insistere per tornar a casa.
— Non senti che tuona?
Il temporale rombava da lungi e già ne pesava, nell’afa bassa, la
minaccia. Quando uno strano grido, come d’una voce troppo alta emessa da
una gola troppo stretta, come d’un richiamo doloroso e selvaggio, sorse
lì, da loro.
— Un pavone!
— Un pavone di quelli del Palazzaccio. Cercherà la pavona e i pavoncini,
per ammazzarli — disse Mario.
E lo videro. Nonostante l’impedimento della coda oltrepassava svelto fra
tronchi e sterpi. Addosso! Forandosi le mani e le guance
nell’inseguirlo, lo spinsero contro un cespuglio.
— Càvagli le penne! — incitava il piccolo. — Ne voglio una!
Infatti come la bestia ebbe nascosto il capo nel cespuglio e pensandosi
non più vista non si mosse più, Mario potè strapparle una, due, tre
penne delle più belle.
E nel cielo ottenebrato proruppero i lampi.
Allora i ragazzi fuggirono a ricoverarsi nella capanna.
***
Il capannotto del vignarolo era a sommo della riva, appoggiato a una
quercia e contesto di frasche.
Vi entrarono felici. Essere al coperto, al sicuro, là sotto, come
fossero sol lor due al mondo, mentre la bufera si scatenava! Il tuono
ora scuoteva cielo e terra.
— È il diavolo che va in carrozza con sua moglie. — Mario rideva; non
aveva paura.
Ma Aldo non rideva più. In fondo, dove il riparo era più saldo, sedè
accosto al pedale della quercia e si coperse il viso con le braccia. E a
un tratto, dal cielo squarciato piombò la grandine col fracasso della
ghiaia scaricata dalle birocce; con un guizzo di luce abbacinante una
folgore cadde da presso. I chicchi grossi quanto le nocciole fendevano
il fogliame e il frascame dell’albero; alcuni penetravano di colpo nel
rifugio.
— Mamma! — invocò il piccolo.
— Non aver paura! — ammonì il fratello. — Ci son io; e ti copro con la
paglia. Tieni tu le penne.
Gli porse, gli mise nella mano le penne del pavone, e tornò verso
l’entrata dov’era un po’ di paglia, in mucchio. E si chinava per
raccoglierla, per difendere con essa, dalla tempesta, il fratellino che
chiamava la madre e piangeva; e in quell’istante si sentì investir
tutto, rapire da una fiammata. E non capì più nulla.
***
Quando rinvenne, Mario vide che il sole splendeva. Ma aveva
l’impressione di non poter più muoversi. Con un terrore folle si sforzò
ad alzarsi in piedi, e alzatosi gli parve di sentir il sangue rifluire
per ogni vena e d’essere leggero leggero.
— Andiamo via! corriamo a casa! — gridò volto ad Aldo.
Aldo non si mosse. Teneva il capo a terra, contro il braccio sinistro;
tendeva l’altro braccio stringendo in mano le penne del pavone.
E Mario gli si avvicinò, lo chiamò più forte.
Non rispose.
Tendeva il braccio destro, irrigidito, quasi volesse rendere al fratello
le penne del pavone che il fulmine gli aveva lasciate intatte nella
mano.


LA FIUMANA

Che gli asini camminando più o meno piano per la strada maestra si
provino a prendere ogni viottola che scorgono di qua e di là, si
capisce. La strada larga e bianca, precorrente senza limite visibile,
suscita in loro l’idea e il panico dell’infinito; e poichè sanno per
esperienza come da colui che trasportano e che li guida e bastona ci sia
da aspettarsele tutte — e non sarebbe da meravigliare neppur il
proposito, in lui, d’andare all’infinito — essi dalle viottole laterali
han l’illusione o la conoscenza o la speranza di un termine prossimo, e
tentano rivolgersi a quello.
Più difficile è spiegare perchè anche l’asino bennato oppugni a voltar
indietro pur nella più larga e più piana strada. Ecco. Il prudente
auriga tira dalla parte destra fin quasi al limite del fosso, indi tira
a sinistra con tanta energia che la bestia è costretta a piegar contro
la stanga il collo, la testa, la bocca aperta dallo spostamento del
morso, e, per esprimer meglio il suo volere, il padrone rialza e
riabbassa in fretta il randello, sì che la battuta groppa si addossa,
rintronando e dolorando all’altra stanga — e, nossignori, non cede;
piuttosto che cedere l’asino va inesorabilmente nel fosso di sinistra
col biroccino e chi c’è sopra. Perchè? Forse per amor proprio? punto di
onore? dignità personale? In tal caso bisognerebbe supporre a questa
ostinazione, a cocciutaggine così pericolosa, un ragionamento degno d’un
uomo di carattere quale ce n’è pochi, specie al giorno d’oggi. — Ah tu
che mi sfrutti mi hai dunque attaccato al biroccino non per bisogno, ma
— poichè vuoi tornar indietro — solo con l’intenzione di farmi faticare
e di bussarmi? Ebbene, no! neanche se io debba tornare alla dolce
stalla, io non volto! Preferisco pungermi alla siepe, rompermi una
gamba, fiaccarmi l’osso del collo nel baratro. Non volto: no, no e no!
E che tale o simile ragionamento non fosse da escludere lo dimostrerebbe
un fatto: che laggiù, quando sia rimasto in piedi o risorga, l’asino si
mette subito a brucar l’erba della sponda. L’ostinazione cieca non gli
permetterebbe di vederla, l’erba: la stizza invece, che nelle persone
intelligenti non toglie il lume degli occhi e passa presto — appena
hanno avuto sodisfazione —, gli lascia dire tra sè: — Adesso che l’ho
vinta io, sono contento. Mangiamo!
Ma quand’anche questa presunzione intellettiva nei ciuchi fosse
esagerata, l’ostinazione loro sarebbe sempre più agevole da intendere,
psicologicamente, che l’ostinazione dei cavalli.
***
Qualche anno fa venne di moda il negar l’intelligenza al cavallo, o —
nella reazione ad ogni ammirazione del passato — per contrasto al Buffon
e all’Alfieri, o per consenso al grande — allora — e nuovo Mirbeau, o
per incredulità delle esperienze di Elberfeld, ove dicevano che un certo
cavallino eseguiva esercizi d’aritmetica coi piedi, i quali oggi nemmeno
usan più i poeti agli esercizi della prosodia. E si chiamava stupido il
«più nobile compagno dell’uomo» perchè è ombroso e perchè ha lo sguardo
velato: come se l’adombrare non potesse indicar il prevalere della
facoltà fantastica su la fredda ragione, che è indizio di genialità, e
come se non ci fossero stati grandi uomini, scienziati o poeti, non solo
con velato sguardo, ma con occhi morti del tutto.
Un fenomeno però della razza equina varrebbe meglio a giustificarne i
detrattori: il restio. Quale maggiore stolidezza, se volontaria?
Fermarsi a un tratto senza perchè manifesto; resistere a ogni stimolo, a
ogni esortazione più carezzevole, a ogni più duro castigo: lì, immoto
con la testa china, proprio a mo’ degli asini malnati, e talvolta con il
di dietro alzato a springar calci in ricambio delle frustate, dei pugni
su la testa e dei calci nella pancia che l’uomo, per diritto di ragione
e di padronanza, elargisce all’animale, indarno.
Tale pervicacia, a udir il contadino o il birocciaio alle prese con
essa, a udirne, tra le bestemmie e gli _oh!_ e gli _uh!_ e i _va là!_
gli epiteti che tempestando e infuriando rivolge all’animale suo
(carogna! — vigliacco! o vigliacca! — ignorante! etc), non sarebbe da
giudicare appunto che uno stolido capriccio. Ma la scienza, dopo
parecchi secoli da che si han cavalli restii, scoperse che il fenomeno
non andava e non va chiarito moralmente, e ne accertò la causa
fisiologica e patologica.
Si tratta di un disturbo funzionale, nervoso, psicopatico; di un morboso
potere inibitorio che improvvisamente impedisce l’atto volitivo del
correre. E se è così, nè vi ha dubbio che non sia così, quale passione,
mio Dio!, quale martirio! Altro che pungersi alla siepe per
l’ostinazione d’andar nel fosso! Pensateci. Pur ammettendo che gli
manchi affatto l’intelligenza, non negherete che il cavallo ebbe dalla
natura l’esser generoso. Quanto può, dà. Ora, l’accesso del male a che
drammatico doloroso intimo conflitto lo condanna! Pensate! pensate!...
L’istinto lo porterebbe alla corsa senza freno, al galoppo fin che gli
basti il respiro, e il misero non può più muoversi!; la natura l’ha
creato sensibile ai richiami della voce, al tocco delle redini, al
dolore delle frustate, e deve star lì immoto, inchiodato, a udir il
padrone gridar come una bestia terribile, a ricever le percosse, a
tremar a nervo a nervo, a bagnarsi di sudor freddo, senza voce, senza
maniera di svelar il suo martirio, di chiedere pietà — non posso più
correre! non posso più andare! —; veder davanti a sè aperta, libera, la
strada in cui gli è pur così grato superar i fratelli o seguirli, e aver
addosso, intanto, l’apprensione orrenda di non poter più dar un balzo e
avviarsi: mai più! Un cavallo! Non sarebbe — dite — una pena atroce
quand’anche gli mancasse affatto l’intelligenza? E gli mancasse davvero!
Soffrirebbe meno.
Invece....
***
Cenzo Dimondi è ancor vivo e sano, e narra volentieri la storia del suo
Baio.
Se capitate alla bottega — tre chilometri oltre Pedriolo, su la destra
del Sillaro — ove con _Sali tabacchi maiale e altri generi_ egli vende,
fra gli altri generi, vin buono, bevete un bicchiere con lui e fatevi
ripetere il racconto: non mi accuserete dopo d’averci introdotto
aggiunte sentimentali per renderlo più vero.
— Un cavallo, che i miei ragazzi chiamavan Baio, era la mia delizia —
narra Cenzo Dimondi. — Sano, fido e di tanto sentimento che non
sopportava nemmeno lo schiocco della frusta. In due mesi da che l’avevo
comprato, non mi aveva recato un torto, mai. Quando, un giorno di
settembre, venivo da Bologna. Vicino a casa vidi che doveva esser
piovuto da poco e che in montagna il cielo s’abbuiava. Tornare indietro,
al ponte, e allungare il viaggio per non attraversare il fiume a guado,
al solito? No: il fiume non dava segno di cresciuta, nè io potevo
immaginarmi che in montagna alta ci fosse stata intemperie. Senza
sospetto di quel che stava per succedere calai dunque dalla riva, per la
carraia che lei vede là dirimpetto. E il cavallo, tranquillissimo,
taglia il primo raggio d’acqua; passa la secca; rimette le gambe nella
corrente più larga; tranquillo tranquillo avanza fino a metà e... si
ferma.
Lei dice: — un capogiro. Ma col capogiro i cavalli, nel fiume, mi si
eran sempre mostrati diversi. Dubitano un poco e basta eccitarli un
poco. E lui. Baio, eccitato con la voce, non si mosse.
Non giovando nè le parole nè lo scuotergli addosso le redini, lo tentai
con la frusta. Niente. Nessun dubbio più: era restio! Io sapevo anche
allora che il restio è quasi una paralisi che dura dieci minuti, un
quarto, fin mezzora. Bisognava pazientare, attendere. Ma la mia donna di
qui, dalla bottega, mi vide col biroccino fermo in mezzo all’acqua e
cominciò a gridare: — Presto, Cenzo, che non arrivi la fiumana! — E i
ragazzi: — La fiumana, babbo! — Mi diedi a frustare, prima senz’ira, poi
senza misericordia: sopra, sotto, nelle gambe, nel collo, nella testa;
la pelle s’enfiava a cordoni. E niente, come se battessi lei, che non
c’era. E gli urli della donna e dei ragazzi diventarono più acuti. — Si
sente la romba! Scappa, Cenzo, per amor di Dio! — La fiumana, babbo! la
fiumana!
Già, avrei dovuto scendere; abbandonar cavallo e biroccino; perderli,
chè la piena qui, sboccando dal letto stretto e fondo, rovescierebbe e
si porterebbe via un paio di buoi con il carro. Ma mi ero impuntato
anch’io. Se il restio è un male — pensavo —, un male più grande lo
scaccerà. E mi misi a picchiare il cavallo col manico della frusta
tenendolo a due mani. Botte da accopparlo. E niente; come niente!
Disperati, mia moglie e i miei figliuoli, che mi vedevan me là in mezzo
e vedevan la piena che arrivava arrivava, ora chiamavano aiuto. — Aiuto!
aiuto! — Aiutarmi chi? Non c’eravam che noi, in questa parte, a quel
tempo. Aiutarmi in che modo?
Mentre bastonavo e bastonavo, da matto, voltai l’occhio... Mi si drizzan
i capelli in testa anche adesso a ricordarmene; mi si gela il sangue
nelle vene. L’acqua torba raggiungeva la chiara, dilagava furibonda; le
onde...
Stavo per diventar matto davvero; per saltar giù dal biroccino. Se salto
giù, mi annego. Le onde tra pochi momenti erano alle ruote, le dico!
Gridai: — I miei figliuoli! — E... Dio! Dio! Il cavallo si slancia; in
due, tre balzi trascina il biroccino fuori dell’acqua, si avventa
attraverso la secca e su, di galoppo, per la riva: su! su! siamo nella
strada. Ah!... Salvo! Come dentro a un sogno vedo le facce bianche della
mia donna e dei miei figliuoli che mi guardavano senza più voce; E qui,
davanti alla bottega il cavallo, Baio, mi stramazza. Morto.
A questo punto Cenzo Dimondi non si vergogna a raccogliere due lacrimoni
nel fazzoletto. Indi seguita:
— Baio, un cavallo di tanto sentimento, attaccato dal male non sentiva
più nè parole, nè frustate, nè bastonate. Ma aveva capito il pericolo:
non dico il pericolo di me o di lui: un pericolo spaventoso, quasi di
tutti, di tutto il mondo!, e l’aveva capito dalle grida dei miei, dalla
romba lontana, dallo squasso vicino, dall’urlo mio. E volle vincere il
male che l’inchiodava, a ogni costo. Lo vinse. Ma gli crepò il cuore.
Dopo un’altra pausa Cenzo Dimondi conclude con una dimanda:
— È così o non è così?


A SANT’ELPIDIO

— Ed Elena Baschi, così intelligente, così bella?
— Sempre lassù, tra i monti, a Sant’Elpidio, dove andò maestra la prima
volta.
— Maritata?
— Nemmeno.
***
La prima volta che Elena Baschi andò a Sant’Elpidio fu in un nuvoloso
pomeriggio, al finire di settembre.
Lungo, interminabile il viaggio. La strada procedeva a salite e discese
tra siepi alte, al di là delle quali non si scorgevano, a quando a
quando, che i soliti campi alberati e arati, deserti; e per le frequenti
svolte anche la vista, dinanzi, veniva spesso impedita.
Gravavano tedio e silenzio. E se la siepe diradava o cessavano i filari
degli olmi, appariva, a sinistra, la costa montana, che nebbiosa, senza
cime, escludeva l’orizzonte con limite uguale e dava pur essa il senso
di una solitudine lunga.
Finchè, dopo una calata, la strada svoltò ancora, improvvisamente... Oh!
Meraviglioso! Allo sguardo si aperse, libero e vasto, un meraviglioso
scenario. Il passaggio dalla uniforme e scarsa veduta a quell’inatteso
spettacolo fu così repentino che ad Elena sfuggì un’esclamazione di
gioia.
La strada rasentava la riva del fiume, che precipitava a picco,
profonda; e il fiume, svelato di un tratto, spaziava bianco nel greto,
brillava a raggi intermittenti nell’acqua: la sponda opposta declinava
verde, folta, sparsa di case; e laggiù, dove le rive si distendevano a
valle era, da una parte, la chiesa, bianca, grande, col rosso campanile
e una fila di pioppi; e dall’altra parte, una tenera frescura di erba, e
tra gli alberi festonati di viti, in gruppi, le case del villaggio.
Congiungeva le rive un nuovo ponte a begli archi; sorgevano nello sfondo
le montagne, prima azzurre, quasi a respirare nel cielo sereno; poi
svanivano in una luce cinerea.
— Sant’Elpidio — disse il vetturale.
E in quella dilatata ampiezza, dall’una all’altra di quelle chiare e
ariose rive, correva, come per affrettarsi avanti il morir del giorno,
una vita possente di suoni e di voci.
Contadini che incitavano i buoi; donne e ragazzi che si chiamavano e
rispondevano; muggiti di vitelli; canti di galli; densi cinguettii di
passeri. Quindi il tinnire di un’incudine. Quindi, anima che raccoglieva
mille anime e interrompeva mille echi, più forte e vibrante si diffuse
il suono delle campane.
Elena Baschi, commossa, pensava.
Con l’orgoglio di bastare finalmente a sè stessa, con la superiorità che
le prometteva la cultura della Scuola Normale, con la fiducia di aver a
compiere una nobile missione non l’attendevano forse lieti giorni in
così mirabile luogo? Non potrebbe sperare anche là d’esser degnamente
amata? Gli otto mesi da trascorrere a Sant’Elpidio non sarebbero almeno,
per lei, come la vigilia di una festa avvenire, la prova meritoria della
felicità avvenire?
***
Prese a dozzina la nuova maestra una vedova, vecchia di forse
sessant’anni, piccola e grassa; col viso grinzoso, cotto dal sole. Gli
occhi vivi; non brutta, e ridente. Ma doveva essere avara, perchè il
vitto, abbondante e buono ai primi giorni, andò scemando in quantità e
qualità; e nei modi la vecchia dava a vedere una rozzezza inasprita dai
pregiudizi e dalle costumanze incivili. Così, faceva che l’ospite
desinasse e cenasse sempre sola, sebbene la tavola fosse apparecchiata
per due; per l’ospite e per il figlio Agostino, il tiranno.
Questi mercanteggiava in bestiame; ai paesi e alle fiere del monte e
della pianura. Era bell’uomo e villanzone. Incontrandosi con Elena, ai
primi giorni, si toccava appena la falda del cappello, senza dir nulla;
di poi, disse, senz’altro complimento:
— La saluto, maestrina.
D’una volgarità stupida nei brevi discorsi, i suoi motti tendevano
sempre ad allusioni sensuali. E avvolgeva Elena d’occhiate lunghe e
fredde, da mercante speculatore e da buongustaio mutevole.
Non li temeva essa, quegli occhi; l’assicurava la superiorità
dell’intelletto e dell’animo.
La turbavano, al contrario, le occhiate della madre. Quella vecchia
espansiva e gioconda con tutti gli altri, aveva mutato aspetto con lei;
non dissimulava nello sguardo come una preoccupazione continua, una
segreta diffidenza, un’antipatia a stento repressa. Perchè? Elena
sdegnava interrogarla.
Il disgusto però le crebbe quando s’avvide che quella osservazione
ostile la seguiva anche fuori di casa, da altri; fuori, divenne anzi
sgarberia manifesta, dispettosa insolenza. La ragazza della bottegaia
l’aspettava su la soglia della bottega per voltarle, vicina, le spalle;
la moglie del medico condotto o fingeva di non vederla o rispondeva al
saluto chinando appena il capo e fuggendo; la sorella del sarto
sorrideva con ironia maldestra; l’ostessa... Che avevano, insomma,
coloro? Che aveva fatto, lei, a quelle donne?
Quando potè saperlo, rise. Ingenuamente la madre di una scolaretta le
disse un giorno:
— Per quassù lei è una maestra troppo giovine e troppo bella!
Ah ah! Ecco che cosa avevano! Gelosia; invidia; timori d’oscuri
pericoli.
Via! Stessero pur tranquille, tutte! Non mirava, no, a rapire l’amante a
nessuna, il marito a nessuna, il figliuolo a nessuna! Nè si curò più
della guerra esterna.
Ma in casa, per queto vivere, volle subito sollevar la vecchia dello
strano sospetto ch’ella cercasse d’innamorarle il figlio. Appena di lui
udiva i passi o la voce, scappava nella sua camera.
E la signora Filomena, la vecchia, non tardò ad accorgersi del proposito
e a dimostrar gratitudine. Talvolta, piano piano, toccando con l’indice
la punta del naso per impor silenzio, entrava a porgerle un uovo appena
fatto; talvolta la chiamava dolcemente di sotto la finestra perchè
scendesse a prendere un po’ di sole con lei.
— Venite giù, poverina! Vi farà bene. E tanto insisteva che bisognava
accontentarla. Sedevano a solatio, davanti alla casa e di lato al pozzo
e alla catapecchia ov’erano il forno, il porcile e il pollaio. Sotto al
fico, dal piede bianco di cenere, la Filomena dipanava matasse
all’arcolaio e cantarellava a bassa voce; Elena, seduta sulla panca del
bucato, tra l’olla e la siepe su cui asciugavano fazzoletti e borracci,
o cuciva o guardava le galline che andavano a letto. Montavano per la
piccola scala sbalzando a una a una di piolo in piolo e misurandosi ogni
volta, con la testa alta, allo slancio. Su! Ma lassù, là dentro, seguiva
un rimescolio di voci e di proteste; e alcune malcontente atterravan di
volo e tornavano a beccare nel truogolo. Tra i galletti ancora a terra
intervenivano le ultime risse; gli ultimi assalti alle galline proterve.
Le oche (non mancavano due oche) si spollinavano a vicenda affondando il
becco tra le piume e scuotendo la coda; e il gatto si leccava e
lisciava, beato.
Ma già il porco domandava a suo modo la cena; e quando il sole calante
accendeva d’una luce d’oro la montagna di là dal fiume, stupenda, la
vecchia s’alzava per accontentar il porco, povera creatura, e preparare,
dopo, la cena dell’ospite.
***
Questi gli svaghi a Sant’Elpidio! Questa la vita che compensava tanti
studi, tanti sacrifizi! Eppoi? Muterebbe mai sorte pur mutando luogo? Ed
Elena Baschi nella presente mortificazione fu presa dallo sgomento del
futuro, e pianse la sua bellezza sfiorita entro una scuola, il suo
ingegno consunto in opera meschina.
Ma della tristezza accorata in cui cadde a poco a poco, ma della
desolazione profonda a cui a poco a poco si abbandonò, nè le fatiche
della scuola, nè il disagio domestico, nè la stessa mancanza di affetti
(orfana; sola al mondo) potevano rendere bastevole ragione. Un maggior
male le rodeva l’anima: come un più segreto affanno; come un’aspirazione
dell’anima spossata, e pur avida d’un bene ignoto e inconoscibile. Oh
fuggire! oh rompere ogni catena! oh morire!
Piangeva guardando dalla finestra della sua camera la mirabile
You have read 1 text from Italian literature.
Next - Top - 03
  • Parts
  • Top - 01
    Total number of words is 4211
    Total number of unique words is 1592
    34.2 of words are in the 2000 most common words
    48.0 of words are in the 5000 most common words
    57.0 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Top - 02
    Total number of words is 4432
    Total number of unique words is 1851
    31.6 of words are in the 2000 most common words
    45.1 of words are in the 5000 most common words
    52.3 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Top - 03
    Total number of words is 4274
    Total number of unique words is 1800
    32.5 of words are in the 2000 most common words
    46.1 of words are in the 5000 most common words
    54.3 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Top - 04
    Total number of words is 4328
    Total number of unique words is 1711
    34.4 of words are in the 2000 most common words
    48.6 of words are in the 5000 most common words
    58.3 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Top - 05
    Total number of words is 4311
    Total number of unique words is 1681
    36.5 of words are in the 2000 most common words
    50.3 of words are in the 5000 most common words
    58.3 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Top - 06
    Total number of words is 4416
    Total number of unique words is 1723
    36.2 of words are in the 2000 most common words
    50.6 of words are in the 5000 most common words
    57.6 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Top - 07
    Total number of words is 4343
    Total number of unique words is 1618
    36.2 of words are in the 2000 most common words
    48.9 of words are in the 5000 most common words
    56.7 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Top - 08
    Total number of words is 4416
    Total number of unique words is 1644
    36.5 of words are in the 2000 most common words
    50.0 of words are in the 5000 most common words
    57.2 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Top - 09
    Total number of words is 4250
    Total number of unique words is 1773
    32.9 of words are in the 2000 most common words
    47.5 of words are in the 5000 most common words
    53.6 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Top - 10
    Total number of words is 4381
    Total number of unique words is 1661
    36.5 of words are in the 2000 most common words
    49.6 of words are in the 5000 most common words
    57.5 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Top - 11
    Total number of words is 4152
    Total number of unique words is 1614
    33.7 of words are in the 2000 most common words
    47.1 of words are in the 5000 most common words
    54.3 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.