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prospettiva dei monti e del fiume e della valle verde, che l’autunno
circonfondeva di una soavità luminosa e di una luminosa pace. E non
comprendeva che il maggior male le veniva appunto di là, dal contrasto
fra la vita esterna e la sua intima vita, dal discordo fra la tentazione
di quel cielo e di quella terra piena d’anima arcana e la sua piccola
anima riflessa nel suo povero pensiero ribelle.
La sosteneva in faccia agli altri l’alterigia. E non comprendeva
l’inconsapevole consiglio che a viver bene le dava, nella persona della
vecchia, l’umiltà. Al contrario, della consuetudine con la vecchia
risentiva un’irritazione, un fastidio sempre più grave e ormai pari
all’odio.
Già esente da ogni soggezione, la Filomena, anche quando la maestra era
in casa, cantava a squarciagola i canti della sua fanciullezza; e
cantava con impetuosa gioia, interrompendosi talora sol per ripetere
l’usato grido — Oh... là! —, che i ragazzi le mandavano dalla pendice
opposta. A sessant’anni! Ebbra di vita, così!
— Pazza! — mormorava Elena, tormentata.
Pazza? O piuttosto in quella donna sopravviveva qualche cosa dell’anima
primitiva, quando l’umanità non si era fatta estranea e insensibile alla
natura? Naturalmente — senza riflessione, senza contemplazione, senza
ammirazione — la vecchia cedeva alle stesse energie di vita, che,
indistinte, traevano liete voci dagli animali, e colori e profumi dalle
piante, e risplendevano nel fiume, contro i monti, nel cielo. E cantava,
così, priva di pensiero, per un ignaro irresistibile consenso del suo
spirito alla vita universa.
Se non che, al cader del giorno anche lei si raccoglieva; pensava anche
lei. E allora soffriva.
Era un presentimento, conoscendo lei pure il carattere aspro, violento,
pericoloso, del figliuolo? o era un’oscura temenza che aveva nel sangue,
ereditaria? o un panico per qualche recente ricordo di sanguinoso
assalto?
Ogni giorno, all’imbrunire, la madre usciva in mezzo alla strada e vi
restava immobile, attendendo, in ascolto. Se percepiva da lungi il noto
trotto, tanto diverso a’ suoi orecchi da quello d’ogni altro cavallo,
gridava forte: — È qui! è qui! —; come annunciasse al mondo intero una
miracolosa salvezza; e rincasava trafelata a scaldar le vivande, mentre
Elena si ritraeva, saliva alla sua camera. Ma se l’arrivo di Agostino
tardava o mancava, allora la madre cominciava a dolersi: — Oh poveretta
me! oh Madonna santa! —; e dalle parole mormorate appena acuiva la voce
a esclamazioni angosciose:
— Gli assassini! Oh Madonna santa, se me l’hanno ammazzato, il mio
figliolo? Dio! Dio! me l’hanno ammazzato!
Elena, le prime volte che l’aveva vista e udita in tale ambascia, aveva
cercato di quetarla, aveva richiesto il perchè di così atroce spavento.
Con sdegno la vecchia le aveva risposto:
— Non sapete nulla, voi!
Ed Elena ripetendo — è pazza! — se ne andava a letto, tormentata perchè
la vecchia sino a notte tarda pregava ad alta voce o gemeva in sogno. E
il mercante di buoi, quando tornava a notte tarda, sbatteva la porta,
parlava forte tra sè; bestemmiava salendo la scala. Forse ubbriaco?
Elena si alzava ad accertarsi che il suo uscio era ben chiuso.
***
Passò novembre. Venne l’inverno.
Quand’ecco, nel pesante silenzio di una sera che nevicava, la folgore,
lo schianto tragico.
Elena era già in letto, desta; e udì battere più colpi alla porta.
Chi, a quell’ora? Perchè? Non poteva essere che _lui_! Non chiamava;
mandava, _lui_ — sì, era _lui_ —, un lamento fioco, faticoso, quasi a
prova d’ultima vitalità.
Orrenda l’attesa; orrende, a un tratto, le strida che proruppero, della
madre: — Il mio Agostino! il mio figliolo! Madonna santa! il mio
figliolo!
Elena balzò; e intanto che si gettava indosso la veste, distingueva fra
quelle strida atroci, incessanti, lo scalpiccio dei passi per le scale,
il sussurro delle voci — di coloro che lo portavano su...
E dall’uscio aperto vide, nell’altra camera, al lume rossigno della
candela...; vide; comprese.
Ferito, l’avevano adagiato nel letto... Seguitavan le strida; strazio,
spasimo delle viscere materne; odio, esecrazione dell’anima materna
davanti l’assassinio del figlio.
Nella memoria di Elena, ogni volta che raccapricciando riguardava la
tragica notte, questa sola visione della madre era rimasta evidente; ma
del resto il ricordo era torbido, confuso come le immagini d’allora, tra
l’ombre agitate dal lume rosso della candela.
E la vecchia che non voleva staccarsi di là, e i due uomini che parevano
forzarla senza potere...; due uomini!
Poi, il medico... Giungeva, usciva; tornava dicendo: — laparotomia...;
tentare.
E lei, Elena? Nel ricordo si vedeva quale fosse stata sempre là
spettatrice, smarrita, tremante, convulsa, nell’ombra. Invece, no: lei
sola aveva fatto cessar quelle strida intollerabili; lei aveva tratta a
sè la vecchia, l’aveva spinta nella sua camera, l’aveva minacciata — con
che parole non rammentava — perchè tacesse.
E la madre, che aveva urlato così il suo dolore, con uno strazio di
maternità selvaggia, era caduta a sedere affranta, in un pianto dirotto
e cheto; povera vecchia sublime.
***
Morì. E la maestra udì dire che le due coltellate se le era meritate in
un litigio all’osteria. Quasi potesse esser giusto tanto dolore; il
dolore della madre, cui nessuno all’infuori di lei, che v’assisteva ogni
giorno, pensava commiserando!
La vecchia riprese le abitudini domestiche; ma sembrava impietrita
dentro. Taceva sempre, ora; e quel silenzio, in essa di natura così
clamorosa, commoveva più che lagrime e lagni. Non solo. O perdeva la
coscienza della sventura cadendo per la stessa fissità del pensiero in
uno smarrimento mentale, o con volontà ferma, con energia chiusa e
voluttuosa la povera donna cercava d’esasperare il suo soffrire nulla
omettendo delle antiche abitudini.
E ogni sera apparecchiava la tavola, come un tempo, anche per _lui_!
Sparecchiava, dopo, e sospirava; come soleva le sere che il suo Agostino
non tornava a casa.
Nè Elena, per quanto si provasse, riusciva a confortarla. Alle parole
che venivan dal cuore e che spontanee e sincere avrebbero fatto tanto
bene a una donna educata, la Filomena scuoteva le spalle, sfogava lo
sdegno brontolando: — Siete una signorina, voi! — Nella fiera vecchia il
dolore pareva a volte condensarsi in astio; i suoi occhi mandavano lampi
d’ira: per un orgoglio barbaro. Nessuno doveva tentar di scemare il suo
disumano dolore. Nessuno!
Trascorso più d’un mese, mutò; s’intenerì alquanto; schiarì gli occhi e
il viso attendendo alle pratiche religiose. Prima d’andare a letto
recitava il rosario e il _Deprofundis_; ma Elena, che a seguirla nelle
preci si era sentita costretta come da necessità, doveva non dar segno
di compianto. Guai se la vecchia le scorgeva gli occhi rossi! La guatava
bieca: non la riteneva degna di soffrire per lei!
E con l’andar del tempo Elena, dianzi piegata dalla compassione, tornò a
ribellarsi. Si sottrasse a quei modi d’intolleranza. Che obbligo, alla
fine, aveva lei di patir tanto per una persona alla quale non era stata
congiunta che dalla sua propria sfortuna? Che compenso aveva avuto del
suo soffrire? Che speranza poteva riporre nella convivenza con una donna
tale; tanto diversa da lei; a lei contraria del tutto, in tutto? E si
confermò nel proposito di partir di lassù. E cambiava discorsi e
maniere. Non cercava più affatto le buone parole; non si rammaricava più
che non fossero comprese e gradite le attenzioni del suo pensiero
gentile e vigile. Divenne ruvida; sin impaziente. Taceva lei, ora. Si
meravigliava essa stessa, ma non le dispiaceva, d’aver forza bastevole
per non rispondere alle richieste che la vecchia era pur costretta a
rivolgerle; e quando bisognava, richiedeva con tono altezzoso; senza
guardare.
Alla metà di giugno: via! Se n’andrebbe! La liberazione!
Ebbene, allora, nell’attesa, Elena s’accorse che la Filomena posava su
di lei sguardi di nuovo indagatori; quasi a leggerle nell’anima. E quasi
indotta in un’apprensione diversa, la vecchia cominciò a starle attorno
con nuove premure, con attitudini timide, incerta tra la soggezione e la
confidenza. Pareva aver acquistata la coscienza de’ suoi torti e aver
bisogno di perdono e dimandare con gli occhi la pietà che per l’addietro
aveva disdegnata, l’affetto che aveva respinto.
Finchè, un giorno, a voce bassa, con le labbra tremule, uscì a dire:
— Voi, Elena, gli volevate bene: è vero?
E gli occhi materni rifulsero dietro il velo delle lagrime.
Elena perdè d’un tratto la sua energia. Stupita, non ebbe coraggio di
negare. Non rispose; sviò lo sguardo. E la vecchia:
— Me n’ero accorta, io! E avevo paura che vi sposasse! Ma sarebbe stato
meglio...
Bel complimento! Meno male che il suo Agostino sposasse lei, anzi che
morire ammazzato! Ma Elena non rise. Non potè riderne neppur dopo;
perchè dopo, la vecchia si rivolse a confortar lei per confortarsi con
lei.
— Rassegnatevi, poverina! — le diceva —. Pugni al Cielo non se ne posson
dare. Ma il Signore è giusto; e voi sapete se era buono, il mio
figliolo! Ah se era buono!
O le diceva:
— Cerchiamo d’esser buone anche noi, e lo rivedremo in Paradiso, il mio
Agostino.
Elena non aveva questa speranza, nondimeno taceva; non commetteva la
crudeltà di contrariare col minimo atto l’illusione della povera
vecchia. — Che ignorante! — pensava. — Stolida! Credere che io ne fossi
innamorata!; che desideri, io di rivederlo in Paradiso! Io!
E contava quanti giorni mancavano alla chiusura della scuola, e
sospirava l’ora che se n’andrebbe. Ma sentiva che il distacco non
sarebbe agevole; sentiva che il dolore vincola più dell’amore e che, no,
non invano aveva sofferto per quella povera vecchia ignorante e stolida.
Bisognava dirle: — Me ne vado. Vi abbandono, per sempre —. Era un
pensiero penoso.
Quando un giorno, uno degli ultimi giorni avanti le vacanze, credè
giunto il momento opportuno a dar l’avviso. E rincasando, udì... Oh una
cosa insana! incredibile! Al solito luogo d’un tempo, sotto al fico,
mentre rigirava l’arcolaio, la Filomena cantava a squarciagola! Appena
otto mesi dopo aver perduto il figlio in quel modo, cantava; ripresa dal
fervore che nel giugno pieno di vita la natura le effondeva d’intorno,
dal cielo caldo e luminoso, dai campi dorati di grano e verdi di messi,
dai monti azzurri e solatii, dal fiume bianco e lucente. Cantava! Nè
volgendosi sorpresa, arrossì; non si vergognò. Interruppe il canto;
attese che Elena le venisse vicino. E sorrideva, in un modo...
Elena s’avvicinò per dirle (tanto, non era pazza quella vecchia?), per
dirle: — Alla fine della settimana, parto. — Ma prima che parlasse la
vecchia le prese di forza la mano, la costrinse a piegarsi verso di lei,
sul suo petto, le accostò al viso le guance grinzose, la baciò su la
fronte.
Poi si scostò d’un tratto per guardarla — oh con tutto il cuore negli
occhi, con un affetto immenso! —, e mentre i lagrimoni le calavano su le
grinze e sorrideva: — Il Signore è buono — mormorò —. Mi ha tolto il
figliolo, ma mi ha dato una figliola. Tu, sei tu, non è vero?, la mia
figliola!


L’OMBRELLO

I.

Si accompagnarono, per caso, un pomeriggio del giugno, ai Giardini
pubblici, e godettero a trovarsi coetanei o quasi. Ottantatrè, ne aveva
l’uno — Ceccuti —; ottantaquattro, l’altro — Boldrighi.
Bell’età!, e portata così bene da entrambi, con aspetto così vegeto,
che, quantunque fossero molto diversi nella faccia e nella persona, ai
loro occhi parvero assomigliarsi come fratelli. Ma risentirono
un’impressione anche più forte a ripetersi, a vicenda, il nome.
— Io debbo averlo conosciuto, un Boldrighi.
— E io, un Ceccuti.
Dove? quando? Poichè Ceccuti, partito non ancora trentenne da Bologna,
vi era tornato da soli due anni col figlio pensionato delle Ferrovie, e
poichè Boldrighi non aveva mai perduto di vista le due torri, il loro
incontro, se era avvenuto mai, bisognava rintracciarlo qui, a Bologna,
più di mezzo secolo addietro. Vattelapesca!
Riandarono fin i tempi della puerizia, rievocarono maestri e
condiscepoli, cercarono relazioni famigliari, investigarono nella storia
contemporanea della città, si raffigurarono in mezzo alle maggiori
solennità e alle più famose vicende: e niente!, lo sprazzo di luce
rivelatrice non veniva.
Eppure conservavano freschissima la memoria delle cose lontane.
Pensa e pensa... A un tratto Ceccuti esclamò:
— Si ricorda, lei, di una certa Rosa detta la...?
—... la Garibaldina! — esclamò Boldrighi, arrossendo nelle gote
grassottelle.
Non fu un lampo: fu la folgore a squarciare le tenebre.
Ah! ah! Guarda dove, come si erano conosciuti!
— La Garibaldina! — Ceccuti ripetè con le palpebre socchiuse.
— Sicuro! Eravamo due dei Mille!
E risero forte. Ma tosto si ritrassero da quel ricordo, che potendo
avrebbero cancellato volentieri dalla loro biografia.
— Quando si è giovani... — fece l’uno, in tono di chi si scusa.
E l’altro:
— Consoliamoci che, a differenza di tanti, noi siamo ancora qua a
raccontarci le nostre pazzie.
— Ah sì! Io sto benone; sano di spirito e di corpo.
— E io? Chi lo crederebbe? Io non ho mai avuta una malattia grave.
Ne aveva avute, invece, Boldrighi; ma gli eran giovate a depurargli il
sangue.
Poi: moderarsi in tutto; rinunciare quasi a tutto; questo era da un
pezzo la norma di Boldrighi, per mantenersi vegeto.
Ceccuti scosse il capo.
Moderazione in tutto; ma non rinunciare quasi a nulla: questa invece la
norma sua.
Così, egli beveva anche adesso vino buono a colazione e a desinare;
faceva una deliziosa pipatina dopo colazione e dopo desinare. E si
manteneva in gamba!
Di fuori Porta Saragozza, ove abitava, il giorno andava in centro, e la
sera veniva ai Giardini e rincasava sempre a piedi.
— Il moto è la vita.
Boldrighi scosse ora lui il capo, disapprovando.
— La macchina quando è vecchia bisogna risparmiarla.
Niente Bacco e niente tabacco! Egli campava di latte e ova; e per andar
a casa, in via Mascarella, prendeva il tram a Porta Santo Stefano e il
tram di Piazza. Una passeggiatina e boccate d’aria libera bastavano a
impedir che la macchina arrugginisse.
Discordavano, insomma, nel regime igienico; ma li allietava a un modo la
convinzione di aver trovata la via per campare il più possibile e bene.
— Il mondo non mi è mai parso bello come adesso — affermò Ceccuti.
E Boldrighi canticchiò:
— Sempre allegri e mai passiòn!

II.

Quella tarda amicizia fu per i due buoni vecchi una nuova fiducia a
vivere. Sin dal principio avevano compreso che la presenza dell’uno
testimonierebbe agli occhi dell’altro il suo proprio benessere, e che il
rimanente viaggio sembrerebbe loro anche più agevole e grato a compierlo
insieme. Perciò vedersi ogni sera divenne, più che consuetudine,
necessità.
Giocondamente, seduti al solito luogo ai Giardini, si riferivano le
liete memorie, escludendo le tristi o solo accennandole; si
meravigliavano di casi consimili; scoprivano conformità di carattere, di
azioni, d’idee. E non discorrevano di politica.
— Non vogliamo guastarci il sangue.
— Vogliamo andar d’amore e d’accordo.
— Si sta così bene al mondo in pace e quiete!
— Sempre allegri e mai passiòn!
Forse la decrepitezza comporta il più intenso desiderio di esistere e
concede ogni giorno, ogni ora, ogni minuto il piacere di quel desiderio
esaudito, come per miracolo, per singolare grazia di Dio, o per giusta
predilezione della sorte?
Una quasi sola apparenza vitale nasconde il disfacimento del corpo, e
appunto allora l’istinto della conservazione esulta in un placido
egoismo; la morte è dietro le spalle, e non si vede; non si vede il
limite estremo perchè già un piede v’è sopra: e prevale sensibile di
continuo, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, la sodisfazione di chi si
scorge superstite in una strage e di chi dall’aspra realtà
dell’esistenza attinge una illusione non interrotta di vago sogno.
Ma guai se contrasti e sospetti sottentrino a risvegliare e tener
sveglia l’apprensione della fine imminente!
Quei buoni Ceccuti e Boldrighi non avevano presentito l’amaro che in
fondo a tanta dolcezza amichevole condenserebbe l’emulazione istintiva,
la gara, tra ingenua e insana, a chi dei due campasse di più, fosse
anche, il di più, un anno solo. E il dissidio che doveva corrucciarli
era appunto nel regime adottato per campar un pezzo. Cominciarono a
guardarsi chiedendosi dentro: — Sta meglio lui di me? Sarebbe meglio mi
mettessi anch’io a latte e ova? — Oppure: — E se bevessi anch’io qualche
bicchiere di vino? se dessi anch’io qualche fumatina per aiutar lo
stomaco a digerire?
Nel dubbio, tentavano dissimulare sempre più i disturbi e gli acciacchi,
e lo sforzo si manifestava nell’aspetto. Allora riprendevano fede e
pensavano guatandosi l’un l’altro: — Mio caro, come siete brutto, oggi!
Se non mutate usanza, tocca a me cantarvi una _requiem_!
Ma la consolazione non durava; tornava presto il dubbio, il sospetto,
l’apprensione. E a poco a poco provarono il bisogno di sfogarsi,
convinti, come erano, che ogni tentativo dell’uno per condur l’altro al
suo metodo riuscirebbe vano.
Presero a contraddirsi, a polemizzare; insistenti, caparbi. Le dispute
diventarono presto diatribe; e per non mostrarsi deboli cedendo, quando
uno era messo alle strette, insolentiva; e l’altro ribatteva.
— Sissignore!
— Nossignore!
— E io vi dico di sì!
— E io vi dico di no!
— Con voi non si ragiona. Ostinato più d’un mulo!
— E voi? È inutile consumare con voi il ranno e il sapone!
Non tacevano finchè non dicevano a un tempo:
— Basta! — Basta!
E Ceccuti prendeva e leggeva (senza occhiali) il giornale o il libretto
delle spese quotidiane, e Boldrighi con la punta del bastone imprimeva
su la sabbia la fisionomia di un asino (senza occhiali) e ci faceva
sotto un bel C affrettandosi però a cancellare il disegno prima che
l’amico se ne avvedesse.
Quando l’orologio alla chiesa di San Giuliano suonava le otto sorgevano
in piedi; s’accompagnavano, sempre zitti. E alla barriera si separavano
con un freddo «buona notte».
Boldrighi andava adagio alla Porta di Santo Stefano ad attendere il
tram, e Ceccuti marciava lungo la circonvallazione, alla volta di Porta
Saragozza.
Il dimani passavano ore di pena a rimeditar i dibattiti, le
provocazioni, le accuse, le offese, le difese. Borbottavano: — Stasera
non ci vado. Già, se ha un po’ di amor proprio, non ci andrà nemmen lui,
ai Giardini: gli ho dato del mulo — gli ho dato dell’asino! — Bisognava
finirla! Rottura!
Ma un’intima voce rimproverava: «Anche tu però...»; e il rammarico
cresceva a disgusto, mutava in pentimento.
Giunta l’ora solita, non resistevano più; sentivano che il loro ultimo
legame era indissolubile; cedevano quasi a un destino. E andavano.
Quello che arrivava primo, e aspettava, pareva seder su le brace;
guardava fisso alla nota parte o sbirciava di tratto in tratto. Che
ritardo! L’amico non veniva. Impermalito davvero? Ammalato? morto? Non
avrebbero mai creduto di volersi tanto bene!
Ah eccolo, finalmente! E si sorridevano da lungi. Ceccuti ilare, a
qualche passo dal sedile, chiedeva in dialetto adottivo: — Cossa gavemo,
de novo?
E Boldrighi, se l’atteso era lui:
— Siam qui, vecchio amico! —; e incolpava il tram, del ritardo.
Come era bello non serbar rancore, andar d’amore e d’accordo!
Se non che... L’asserzione più innocente, fermata e contraddetta
d’improvviso, dava l’appiglio al nuovo litigio.
— Alta di statura la Malibran? — No, press’a poco come la Galletti. —
Cesare Rossi superava Salvini nell’_Otello_? — Bestemmia! — Ugo Bassi
parlando al popolo si cavava gli occhiali? — Non li portò mai gli
occhiali! — Pietramellara conte? — Non era nemmeno nobile!
E non si pensi che questi e simili intoppi fossero cosucce da
strigarsene tosto, perchè la Malibran, ad esempio, conduceva a questione
di musica; i grandi attori tiravano in ballo le grandi attrici, dalla
Ristori alla Duse, giudicate anch’esse con giudizio opposto; e Ugo Bassi
e Pietramellara trascinavano i contendenti nel campo della politica da
cui avevan giurato star fuori.
Così una volta Boldrighi si lasciò trasportar a tal segno che si mise a
gridare: — Gente, correte! Costui qua diventa matto!
E Ceccuti una volta osò agitar la destra in faccia all’amico dicendo: —
Se non aveste un anno di più...

III.

Finchè, al principio di settembre, un ombrello intervenne a risolvere
tutte le questioni.
Era stata una giornata calda come d’agosto; non un fiato d’aria nemmeno
all’approssimare del tramonto; non una nuvoletta in quella chiarità
biancastra.
E Boldrighi apparve all’amico, che l’aveva preceduto ai Giardini,
recando un ombrellone nero invece del bastone dal manico di corno.
— Nevica! — gli urlò contro, dal sedile, Ceccuti, e rise.
L’altro sedè soffiando.
— Prima di notte, pioverà.
— Chi ve l’ha detto?
— I miei piedi.
— Oh! guarda dove voi tenete la scienza!
— Più sicura della vostra, che l’avete in testa.
— Io so che il barometro è alto.
— E io so che il barometro sbaglia.
Si capisce dall’esordio come il colloquio procedesse quella sera; ad
argomento scientifico, con urti e cozzi di opinioni intorno
all’influenza atmosferica sui calli, i budelli, i nervi ecc., intorno
alla pressione e alla densità, dell’aria ecc.; intorno al gracidar delle
rane e al pizzicar delle mosche ecc.
In cognizioni di tal sorta Ceccuti superava e discorreva con più lena;
ma, pur interrompendo di quando in quando, Boldrighi se la spassava a
considerar il cielo verso sud-ovest. A un tratto indicò là e disse:
— Vedete?
Si offuscava la montagna sotto un cielo divenuto plumbeo.
— Calura; nient’altro che calura! — l’amico oppose.
— Non sentite? Lassù tuona! — insistè Boldrighi.
Ebbene, non ci poteva essere elettricità nell’aria anche senza vapore
acqueo?
Ah i segreti della natura! ah i misteri della fisica! Tuonare anche a
ciel sereno, o quasi!
Boldrighi lasciava dire. Aspettava con un sorrisetto ironico sotto i
baffi; poichè vedeva grosse nuvole avanzare in fretta, aderendo; sempre
più nere nel mezzo e livide ai lembi. E il tuono rombò forte ad ammonire
Ceccuti che smettesse di far lezione.
Ceccuti tacque. Poi, per non confessarsi vinto riattaccò. Disse, acido:
— Voi non siete di buona razza; portate l’ombrello e andate in tram. I
Romani conquistarono il mondo a piedi, e ombrelli non se ne sognavan
nemmeno. Quando pioveva, e si bagnavano, facevano come faccio io:
andavano a casa ad asciugarsi, bevevano un bicchiere di vino, e a letto
a sudare! Capite?
— Voi fate proprio così? — Ora Boldrighi, nell’ironia della dimanda,
nascose il suo pensiero. Aveva deliberato di cedere l’ombrello a lui,
credendo gli spiacesse rinunciare, per il temporale, alla passeggiata
igienica; ma giacchè l’amico non aveva paura di bagnarsi, anzi ci
avrebbe gusto a far il Romano, l’ombrello, egli, lo terrebbe per sè. E
avendo l’ombrello egli non aveva bisogno di scappare come quelli che da
ogni parte dei Giardini trottavano a rifugiarsi in città.
I goccioloni cominciavano a mordere la polvere; eppure nessuno dei due
voleva esser primo ad alzarsi in piedi. Finchè una saetta guizzò,
scoppiò poco lontano. Allora scattarono, si avviarono.
Alla barriera Ceccuti ristette a guardar in alto.
— Non piove più; spruzzola, dicono i toscani.
Dunque: — buona notte! — E s’incamminò impavido per la sua strada, a
passo da bersagliere.
Ma Boldrighi ebbe un senso di rimorso e attese.
Pochi istanti dopo si aprì la cateratta; l’acqua precipitò con furia.
— Ceccuti! Aspettate, Ceccuti! — Boldrighi si diè a gridargli dietro, e
si mise a inseguirlo con l’impeto di una smania riparatrice.
Correva, il vecchietto, stupito lui stesso di aver le gambe ancora così
svelte.
— Fermatevi! Aspettate, Ceccuti! L’ombrello servirà a tutti e due!
Ma l’altro tirava innanzi senza badargli.
Pensava: — Si stancherà, tornerà indietro; e io mi riparerò sotto la
Porta Castiglione.
Se non che d’improvviso ebbe un dubbio; un senso di rimorso anche lui. E
si voltò.
— Siete matto a correre così, voi? Suderete! vi prenderete un malanno! —
urlava.
La compassione lo inchiodava, il buon Ceccuti, ad aspettar sotto lo
squasso.
E nell’atto che Boldrighi, il quale non ne poteva più, porgeva
l’ombrello all’amico, una raffica rovesciò l’arnese, e nel frangente
rimasero a inzupparsi, stretti insieme, come pulcini.
Quasi non bastasse, il tram su cui pure il camminatore impavido si era
rassegnato a salire, tardò parecchi minuti, che parvero secoli, e sotto
la Porta Castiglione spirava un vento freddo e violento.
Poveri vecchi! Si sentirono gelar il sudore addosso.
***
... Nè la polmonite, che si buscaron tutti e due, doveva lasciar tempo
all’uno di cantare una _requiem_ all’altro.


CI VUOL PAZIENZA!

I.

Dopo i saluti, così affettuosi che tolsero subito d’imbarazzo il suocero
e la suocera, il colonnello avrebbe voluto salire alla sua camera. Ma
prima dovè far la conoscenza della cagnetta, che si era precipitata
dalla cuccia per abbaiargli contro, e del gatto che la signora in gran
fretta aveva salvato da un prevedibile assalto della nemica
raccogliendolo maternamente nelle sue braccia. Ah i fasti della Lillín e
di Rossello! Che peccato, però, non andassero d’accordo e i loro litigi
sconcordassero talvolta anche la coniugale armonia del signor Astolfo,
protettore dell’una, e della signora Amalia, protettrice dell’altro!
Poi ci furon da ammirare i vasi di limoni, l’orto, il giardino. Sette o
otto limoni pendevano gialli dai ramoscelli di nuovo in fiore; più in
là, una dozzina di riquadri, uguali e grandi poco più di un metro,
contenevano i fagiuoli e i pomodori, le cipolle e le patate, l’indivia e
la lattuga, le carote e le pistinache: di qua dalla siepe, peri nani e
susini promettevano — se non sopravvenisse una nebbia o un’aria fredda —
quindici o sedici susine e pere.
— Ma niente ciliege quest’anno! — lamentò il signor Astolfo. E
sospirando avvertì che le fatiche, le cure, le pene del coltivare
gravavano tutte su di lui. I contadini avevano ben altro da fare, ora
che le braccia mancavano!
— Tutto io!
La natura maligna insidia essa stessa ogni suo bene, col malume, con la
peronospora, con la ruggine, coi bigatti, con i gorgoglioni, i pidocchi,
le formiche, le forfecchie, le lumache, le arvicole, le talpe. Ma lui
combatteva senza paura: pompa e soffietto, solfato di rame e tabacco,
fosforo e trappole. Guerra in veste da camera e berretto da ciclista!
E venne la volta del giardino: vari i gerani; belle le rose; odorosi
anche troppo i nasturzi.
— Brava! Bravo! — ripeteva il genero sorridendo. Pensava:«Non sono forse
felici questi due vecchietti, che hanno saputo impiccolire così la loro
esistenza, mitigare in tal modo il loro egoismo?». E quasi gli doleva
d’esser venuto a turbarne la pace e a rinnovar in loro, con la sua
presenza, il ricordo dell’unica figlia perduta dieci anni addietro.
— Bravo te! — mormorò la suocera tirando fuori a stento il _te_ e
accompagnandolo da un sospirone.
— Bravo voi! — esclamò il suocero alzando e battendo la mano su la
spalla del genero —. Colonnello a quarant’anni!
L’ufficiale allora chiarì il perchè aveva chiesto la loro ospitalità
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