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quand’era con la moglie si studiava d’evitar l’amico paventando che
questi potesse scorgere in lei particolari nuovi, o differenze dal
ritratto che ne aveva ricevuto, e accusar di finzione o dissimulazione
il giudizio maritale. Ma l’uno come l’altro appena a casa, ogni giorno,
riferiva alla sua signora le contrarie prodezze della signora
dell’amico; e quelle poverine sottintendevano bene nel riferimento
un’intenzione non ingenua. «Gilda — pareva voler dire Aldo Varni a sua
moglie —, il mal esempio della Bragozzi valga a renderti sempre più
perfetta» — «Ah Cloe! — significava Michele Bragozzi —; se tu imitassi
un po’ la moglie di Aldo e provassi anch’io qualcuna delle sue gioie!».
Di qui antipatia e astio fra le due donne, che non s’eran mai scambiata
una parola; e la irresistibile voglia, che esse ebbero, di conoscersi
almeno di vista.
Ci riuscirono presto. Ed ecco con che effetti.
Diceva al marito la signora Cloe Bragozzi:
— Oggi mi sono imbattuta nella Varni. Cara! Sembra proprio una cocotte,
con quel cappello!
— Se l’è fatto da sè — mormorava lo smorto Michele.
— Da sè? — (una risata tremenda, e apriti cielo!) — Da sè? Così
massiccio? così enorme? così sconcio? E suo marito lo crede? E tu lo
credi? Ma dove siete nati? Allocchi! Ma non capite che è un cappello
venuto da Parigi? È un cappello da cocotte! Ah che sciocca! Ah che
civetta!
Indulgente invece cominciava la signora Gilda Varni:
— Sai che la Bragozzi è bellina davvero? E non deve essere cattiva come
la dipingete voi altri.
Varni, che sapeva stare al mondo, taceva. Allora la moglie seguitava:
— Peccato che sia così stupida! Si vede; non ha gusto. Oh quell’abito! E
quegli occhi di bambola? Che stupida!
Senza essersi mai detta una parola la signora Gilda e la signora Cloe
parevano conoscersi anche loro da più di vent’anni.
***
Un giorno Aldo Varni, elegante e sorridente al solito, giunse con modi
di fretta insolita e non si sedè. Non poteva trattenersi.
— Ho un forestiero in casa; un parente di mia moglie.
E sorbendo il caffè troppo caldo proseguì, fra un sorso e l’altro:
— Un suo cugino... Da sette anni non è stato in Italia. Oh che tipo! che
bel tipo! Simpaticone! Pieno d’ingegno, di spirito!
Bragozzi, il quale intanto che aspettava il resto della informazione
guardava l’amico, chinò d’improvviso gli occhi e pensò: «Uhm! Cugino?...
In che grado?».
—... Capitano di lungo corso. Da pochi giorni è arrivato dall’Australia.
E ha avute certe avventure... Oh! oh!
Varni rideva di gusto, dopo aver posata la chicchera sul tavolino e
mentre si contemplava nello specchio.
— Figurati che ha tre mogli legittime: una nella Nuova Zelanda, una a
Borneo e una a Cuba; e tutte e tre fedeli, disgraziato! Se tu lo vedessi
a disperarsi! Ah è proprio un’ottima compagnia! deliziosa! Resterà qui
otto giorni, e ce ne racconterà delle belle; che ti dirò poi.
«Anche il cugino incomparabile, adesso!», pensava Bragozzi. Tuttavia
sorrise, per accondiscendere alla contentezza dell’amico; lo scusò del
non restare; lo salutò: — A rivederci domani! —; e andò difilato a casa,
a portar la notizia alla Cloe.
— Cugino? — la signora esclamò appunto come si era immaginato Michele. —
Cugino? Allocchi che siete! È l’amante! l’amante dell’arca di virtù! E
il tuo caro amico...
Il marito non la lasciò correre. Trovò necessario interromperla:
— Non può essere! Il capitano da sette anni manca dall’Italia. Non si
fermerà qui che otto giorni... Dunque...
— Eh! si fermerà di più! — ribattè la Cloe. — Di più! di più! Quindici
giorni ci resterà; un mese!... Vedrai! Se pure l’arca non scapperà prima
con lui...
Quale perfidia! Per evitare il litigio Bragozzi s’affrettava a riferire:
che il capitano di lungo corso aveva tre mogli; così e così.
— E la quarta in Italia!: illegittima, questa, e infedele, perchè è la
moglie del tuo amicone. Oh cari!
Il litigio non fu evitato; e nel misero Michele lasciò la consueta
amarezza, il profondo rammarico di chi si sente immutabile sotto una
maligna stella. Per sua tribolazione era arrivato a Bologna adesso anche
il cugino di lungo corso!
Infatti il giorno dopo ecco Varni sorridente, apparentemente beato a
scaricar le geste del capitano.
— Ah che caro giovine! che compagnia!
E qui una massa di fandonie. Bragozzi sorrideva, per compiacere un po’
l’amico che rideva; ma pensava: «no no, Aldo non è così imbecille da
crederci! E spera che ci creda io, imbecille!».
Poi rincasando col proposito di non parlarne più, ecco la Cloe a
provocarlo:
— Come va il cugino? Come va l’amico? Come va la signora di tutti e due?
Basta; passarono finalmente quei maledetti otto giorni, e Bragozzi
attendeva trepidando la notizia: — è partito —, allorchè Varni con
quella sua aria modesta, d’uno che ha una fortuna oltremodo invidiabile,
venne a dirgli:
— Sai? Sto per conchiudere un bellissimo affare d’esportazione e
importazione di merci; col capitano. L’ho indotto a trattenersi altri
otto giorni. Un’idea splendida!
«Mia moglie ci ha colto!» pensò Bragozzi.
— Un affar d’oro, caro Michele! — seguitava Aldo. — Presto si stipula, a
Genova. Fra otto o dieci giorni.
E per una settimana Aldo Varni non si fece vedere al caffè. Quando
ricomparve ahi! non entrò; e fece cenno a Bragozzi d’uscire. Sotto il
portico disse con un tremito nelle labbra — e il sorriso era diventato
una smorfia —:
— Michele! Ho la fortuna d’aver un amico come te, e desidero che tu mi
consigli.
— Per la società col capitano?
Varni scosse le spalle, inquieto. Aggiunse, piano, cessando la smorfia e
assumendo una solennità di dolore imponente:
— Sono stato a Genova, e non li ho trovati!
— Chi?
Ah! Aldo Varni non avrebbe mai pensato che Michele Bragozzi fosse così
poco agile. Certe cose bisogna afferrarle in aria. E gli rincrebbe dover
spiegarsi, dire:
— Lei e lui!
— Oh! (— Mia moglie ci ha colto! —).
— Dubito si siano imbarcati a Napoli...
E l’avevano fatto correre a Genova?
—... Ma io non sono un debole! Io, Michele, sono un forte! — Varni
alzava la voce —: Un forte!; riconosco che la colpa è mia!
— Tua? — Bragozzi (infelice!) non capiva più nulla. Pensava: — Sempre
ragione, lei, mia moglie!
— Colpa mia! Non dovevo trasferirmi qua da Milano! condur qua in
provincia, in questo villaggio, una donna come quella! Così intelligente
e colta! così poetica! così fanatica per i viaggi e le cose
straordinarie! Non dovevo! E se ritorna, io... — che ne dici? — Io sono
un forte! Non ho pregiudizi, io; e perdono!
***
L’infedele però non tornava. E a poco a poco Varni sembrò cambiar
costume. Senza ritegno si dimostrava abbattuto, affranto; un uomo finito
che non avesse più nessuna ragione per farsi invidiare. E Bragozzi, il
quale avendo sempre bisogno del conforto altrui non trovava mai il
momento opportuno e la parola giusta a consolare gli altri, non sapeva
che si dire. Pensava che Aldo soffrisse in una recrudescenza di dolore;
sentisse ogni giorno più il cordoglio del perduto affetto e il rovello
del tradimento. Invece... Una indigestione val meglio che un sistema di
filosofia a mutare la visione del mondo o la concezione della vita.
— Non vivo più! — mormorò Varni.
L’amico Michele sospirò; e stava per dire quella che per lui era non
verità ma menzogna convenzionale: — Il tempo, amico, è un gran rimedio.
— Ma l’amico:
— Se non trovo una famiglia che preferisca il manzo al cavallo, le ova
fresche alle fradice, il burro di Milano allo strutto rancido, e mi
prenda a dozzina, io muoio! Mi ammazzano al ristorante!
Nè Bragozzi aveva ancora raccolto lo sguardo smarrito a considerarsi le
scarpe, che l’altro già lo colpiva in pieno petto.
— Prendimi a dozzina tu, Michele!
— Io? — esclamò inorridendo Michele. — Con mia moglie?
Voleva dire: con una donna quale il destino mi ha data per rovinarmi
d’accordo con le cuoche che il destino mi manda?
E il discorso cadde. Lasciando però andare in tal modo la proposta
dell’amico, Bragozzi rimase malcontento anche di sè; e pentendosi di non
aver decentemente mitigato il rifiuto, cercò di confortarsi, a casa, con
il rifiuto della moglie, che s’immaginava inevitabile.
Ebbene, Michele disse:
— Il povero Aldo è malato di stomaco. Lo avvelenano all’albergo.
E allora la Cloe disse; disse, subito, la Cloe!:
— Prendiamolo a dozzina noi.
Lei! Così! La Cloe! Chi l’avrebbe immaginato?
***
E ciò che doveva avvenire, avvenne.
Non più minestre insipide, non più fritti mal fritti, non più arrosti
bruciacchiati, non più dolci inaciditi; nella più perfetta tranquillità
domestica e amichevole armonia Aldo Varni e Michele Bragozzi ora
mangiavano a crepapancia.
Al caffè, dopo la colazione o il desinare, Aldo Varni era felice di
esclamare rivolto a qualche conoscente:
— Oh che cuoca ha l’amico Bragozzi! E che brava, che buona, che
intelligente signora! Che pranzo abbiamo avuto oggi!
Una cosa incredibile, mostruosa, assurda! Aldo Varni voleva essere
invidiato adesso servendosi di colui che avrebbe meritato tanta
compassione! Sì, compassione. Varni, egoista e vano, non comprendeva la
perfidia di quella donna che si comportava così bene solo per il piacere
che le aveva messo in cuore la disgrazia coniugale dell’amico di suo
marito! Non era un’infamia? Un’infamia era! Anche, Michele Bragozzi
soffriva (benchè a pancia piena) delle smentite a tutte le sue passate
accuse. Bel conforto aveva avuto dal confidarsi a Aldo Varni! Varni lo
smentiva di continuo con le lodi alla signora Cloe! Bel ristoro vivere
in quiete a colazione a desinare! La moglie lo smentiva e umiliava di
fronte all’amico, sempre, con simulazione pertinace, con una bonomia,
una dolcezza che tirava gli schiaffi!
Privo di sfogo, offeso nell’amor proprio, stanco del suo maligno destino
Michele Bragozzi incupiva ogni dì più. Nè s’avvedeva di nulla allorchè
la moglie e l’amico cominciarono a guardarlo di sottecchi, ammiccandosi.
***
Ma... Ma trascorso qualche mese Aldo Varni parlò alla signora Bragozzi,
in tenero colloquio; seriamente.
— Senti, Cloe. Ogni marito deve sospettare della moglie se si dimostra
troppo gentile e affettuosa con lui. Tu cerca di esser meno buona con
Michele.
— Impossibile! — esclamò, tutta amore, la Cloe. — Ora gli voglio tanto
bene, a mio marito!
— Appunto... Pròvati, anche per amor mio, a non metterlo in sospetti che
gli faccian male.
Ella dovè promettere. E usò, nella prova, di un’audacia, di una
sfacciataggine...!
Attaccò l’infelice Michele incolpandolo di gelosia.
— Sei geloso di Varni: capisco! Lo so! Vergognati! ecc. ecc.
A colazione, dispetti; a desinare, sgarberie; a tutte le ore, rabbuffi,
povero Michele! Egli tornava all’infelicità di prima; aveva da
sodisfarsi ora della cattiveria di sua moglie.
Troppo anzi! Troppa grazia! Aldo Varni temè che il mutamento della Cloe,
repentino e grave, scoprisse il gioco al marito; e per non
compromettersi compiangendolo del tutto, fu riserbato. Disse:
— Tua moglie è nervosa, ma non è cattiva. Solo, bisogna saperla
prendere.
Saperla prendere! Bragozzi scattò in ogni nervo. Saperla prendere?
Dunque l’intimo amico scorgeva in lui un difetto di tattica? Dunque non
vedeva in lui una vittima del destino che l’aveva ammogliato in tal
modo; non lo riteneva un martire innocente? Dunque non lo stimava degno
di compassione libera e profonda? Ah piuttosto che essere giudicato
così, e da uno che aveva voluto essere invidiato per la sua propria
felicità coniugale un tempo e invidiato dopo per la felicità coniugale
d’un infelice, egli, Michele Bragozzi, arrivò dove non era arrivato mai;
arrivò a riconoscere fino una virtù di sua moglie! E attese con
desiderio il momento della riscossa.
Scattò eppur tacque quel giorno. Quando però, alcuni giorni dopo, Varni
lo compianse: — Tua moglie oggi è davvero intollerabile! — Bragozzi,
quasi dicesse: — invidiami giustamente una buona volta! —, ribattè
pronto:
— Ma almeno lei è onesta!


UN MARTIRE DELLA VERITÀ

— Peralti! — esclamarono gli ascoltatori. — Carmelo! Il nostro Carmelo!
Già: Carmelo Peralti, il loro compaesano, da qualche anno entrato nella
Pubblica Sicurezza e perciò rinnegato da tutti.
E Silvio il sarto riprese a leggere nel giornale la gran notizia, ora
incespicando e ora affrettando come se le lettere, dopo l’intoppo,
godessero di lasciarsi afferrare dagli occhi e dalle labbra:
— «... la guardia Peralti, senza far uso della rivoltella, acci... uffò
gli altri due teppisti e riuscì a trattenerli uno per mano, finchè
sopraggi... unsero in aiuto due soldati d’artigli...eria e li
arrestarono».
— Capite? Uno per mano! — gridò più che mai rubicondo e giocondo
Colamosto il calzolaio. — Si chiama forza! si chiama coraggio!
Che notizia! che fatto! E che onore per il paese! che gloria!
— Gli daran la medaglia di sicuro! — diceva uno.
E un altro: — Ci vado anch’io alla funzione, quel giorno. Carmelo è mio
cugino.
E un altro:
— Lo inviteremo qui per la festa d’agosto. Berremo! Bravo, Carmelo!
Grappanera aveva ascoltato zitto e cheto attendendo che ammirazioni e
commenti gli consentissero di parlare. Allora, al punto buono, battè la
pipetta su la costa del paracarro per vuotarla della cenere; la riempì;
accese uno zolfanello e mentre lo zolfanello ardeva, egli, fra sonore
aspirazioni, cominciò:
— Quand’ero giovine, a Verona... in una osteria..., che litigavano...
— Non dirla troppo grossa! — l’esortava Pannocchia, piano, in
confidenza.
Senza badare alle facce beffarde della compagnia, con l’usata
naturalezza e semplicità, con quella sua aria di modestia, Grappanera
seguitò:
—... io ne presi tre per il petto, in una volta.
Era andata; e non era più possibile nè ritirarla nè mutarla.
Oh! uh! Parve fosse scoppiata una bomba che avesse la virtù di far
ridere l’universo.
— Bum!... Fanfarone!... Spaccone!... —: tale l’ammirazione che il povero
Grappanera suscitava per sè. Acceso dall’ira nella faccia patita, egli
tuttavia si sforzò a contenersi; a ingoiare.
Il medico gliel’aveva cantata chiara da un pezzo: — Sei tocco al cuore.
Se ti arrabbi, ti ammazzi. Ma come non arrabbiarsi? Bisognava pur
difendersi, difendere la verità!
Onde, deposta la cesta che aveva già infilata al braccio per avviarsi e
non pregiudicarsi quanta salute gli restava, tornò indietro. Gridò
gemebondo:
— Uno, ne presi, con questa! — E alzò la mano destra perchè gli
increduli la vedessero bene.
— Uno con questa!... — e alzò la mancina.
— E il terzo? — chiesero più voci spietate. D’impeto, in un atto solo
Grappanera fece come un bue che abbassi la testa a cozzare o un cane che
s’avventi a mordere. — Ham! — Sissignori: così, con la testa, la bocca,
i denti — mentre ne teneva due con le mani — egli aveva afferrato per il
panciotto il terzo dei litiganti, a Verona, in gioventù.
Non era una cosa possibile? verosimile? Vera!
— E dopo? — Pannocchia chiese serio, quasi per sapere ciò che più
importasse. — Chi lo rammendò, dopo, lo strappo al panciotto?
Ridevano tutti, sguaiati; schernivano cattivi oltre il solito.
Il martire finalmente fu costretto a partire con la cesta sotto il
braccio. Ma allorchè svoltava dalla Porta Montana, si rivolse; e
agitando la sinistra, per disperato ammonimento più che per rimprovero,
rispose ai dileggi con tutta la voce che aveva, con voce di pianto: — Mi
fate morire! — E disparve.
***
Ogni giorno dopo desinare la compagnia veniva là all’ombra dei tigli
fuori Porta Montana a passar l’ora del riposo, o, come dicono in paese,
l’ora di Sant’Agostino. Leggevano il giornale; conversavano;
disputavano, se non di teologia, di politica, scienze ed arti, sdraiati
su l’erba: Silvio il sarto; Colamosto il calzolaio; Pannocchia il
sensale; Volturno Schiza, che sapeva di ogni mestiere e d’ogni cosa, e
qualche ozioso di buon umore. Con la cesta delle paste dolci e delle
mosche — perchè il velo che avrebbe dovuto proteggere quelle da queste
era tutto buchi e le mosche passandovi entravano a deliziarsi senza
farsi scorgere — ci veniva anche Grappanera; smorto; quasi terreo; i
baffi grigi spioventi; il berretto da ciclista sulle ventitrè. Talvolta
recava il liquore di sua privativa, squisito e benefico nelle digestioni
difficili; ma egli tornava gradevole più spesso con invenzioni d’altro
genere. Perchè Grappanera non diceva mai bugie; solo che le verità che
diceva, se le inventava lui. I fiori, le fronde, i frutti della sua
fantasia portentosa avevano sempre un fondo di realtà o di ragione; le
storie che narrava, le avesse concepite ascoltando da altri fatti o cose
lontanamente consimili, o risultassero da sparsi elementi di verità
certe a tutti e da lui ricomposti quasi per cerebrazione inconscia, le
sue storie si specchiavano nella fantasia, da cui sorgevano, in un
riflesso di illusione così vivida che il primo a crederci era lui; e vi
giurava sopra, sicuro di non dannarsi l’anima. Ma a che valevano i
giuramenti? Coloro là non gliene mandavano buona una. Nè egli poteva
staccarsi da coloro, ch’erano la sua morte, appunto perchè chi ama la
verità è trasportato dove più la verità è combattuta, misconosciuta,
negata, spregiata.
Ignoranti! cocciuti! barbari!
— Abbiamo o non abbiamo la testa per ragionare? — egli protestava ogni
giorno; e si raccomandava invano: — Per carità, ragioniamo, ragazzi!
Ragionando, non sarebbe parso naturale che un uomo lungo e magro, come
era lui ora, avesse avuto molta forza un tempo? Si sarebbe forse
ammalato di cuore se non avesse molto esercitato sangue, muscoli e
nervi? E ciò considerando, non riuscivano ammissibili le sue geste? Che
c’era di impossibile, per esempio, nella paura che aveva fatto prendere
a due ufficiali, a Verona, al tempo degli austriaci?
Aveva una bella amorosa e una sera le venne sete, a lei.
— Andiamo al caffè? — Andiamo. — Mentre attendevano il cameriere, i due
ufficiali, che sedevano al tavolino dirimpetto, cominciarono a guardar
la giovane, a sorridere, a strizzar l’occhio.
— Uf! che caldo!
Bolliva dentro, Grappanera. In bel modo bisognava avvisar quei signori
che se al caldo di fuori s’aggiungeva ancora un po’ più di caldo dentro,
essi, quella sera, andavano a casa con la testa rotta. E che pensò lui?
Prese con le due mani a una estremità la tavola di marmo, la sollevò e,
come altri farebbe con una cartella, — Uf! che caldo! —, con quella egli
si mise a sventolarsi... Semplicemente. Chi non avrebbe capita la
minaccia? I due ufficiali la capirono benissimo.
Ma ecco: — Marmo tarlato! — commentava, serio, Pannocchia. Ecco il
martirio: Pannocchia il sensale dava sempre spiegazioni così
strampalate, aggiunte così spropositate, prove così buffe ai racconti di
Grappanera, che la verità ne restava oppressa e schernita, nonostante i
richiami alla ragione. Si degnava di ridere a crepapancia anche Volturno
Schiza. Per il ridere Colamosto si contorceva come in convulsione, su
l’erba.
Al chiasso i curiosi accorrevano.
E: — Mi fate morire! — doveva concludere il povero martire, scappando
con la cesta delle paste e delle mosche.
***
Perciò da un pezzo Grappanera si era imposta una norma che non avrebbe
più trasgredita se non l’avesse provocato ad emulazione la guardia
Peralti. Volendo a un tempo risparmiar disordini al suo povero cuore e
persuadere che lo moveva il più disinteressato amore della verità,
sopprimeva sè stesso nei racconti ove avrebbe potuto o dovuto figurare
quale prima parte; compieva il sacrificio di sostituirvi «un mio amico»,
«un tale di mia conoscenza».
Così faceva narrando del tempo che, come tutti sapevano, era stato
soldato in Austria per servizio obbligatorio, negli ulani.
Certa nave trasportava una volta un reggimento di ulani giù per quel
fiume cui dicono Danubio e che supera il Po, l’Adige e dieci altri fiumi
dei nostri insieme.
Quand’ecco nella vecchia carcassa tedesca l’acqua cominciò a penetrare
da molte bande. Mano alle pompe, agli stracci, al catrame, alla stoppa
per turare i buchi. Presto! Si corre, si grida, si suda. Invano. Ha una
forza, una spinta che non s’immagina, l’acqua del Danubio! E se
seguitava a introdursi a fiotti, non c’era da dubitare che si andrebbe a
fondo, col rischio di finire in bocca a una balena; a una balena del
Danubio.
Ma allora a un soldato, un ulano «di mia conoscenza», venne una buona
idea. Nell’alzar gli occhi al cielo per raccomandarsi l’anima, vide che
dal cielo della stiva pendevano dei lardoni.
— I lardoni! — feci io. — Mettiamo dei pezzi di lardo subito, contro i
buchi! Presto, chi di qua, chi di là....
E fu la salvezza.
— E i sorci — aggiunse Pannocchia —, che in Austria sono dieci volte i
nostri e hanno anche più giudizio, non mangiarono il lardo per non
essere mangiati dalle balene del Danubio.
Risa, clamori, contorcimenti della compagnia: questo il premio al
sacrifizio di Grappanera.
— Mi fate morire!
Nè meglio giovava al martire ricorrere a storie che non contenessero
proprio nulla della sua biografia ed escludessero ogni suo vanto diretto
e indiretto. Quale relazione, per esempio, sarebbe stata da scorgere tra
lui e il gran maresciallo Mac Mahon?
E raccontava... — (l’aveva intesa da persona degnissima di fede) —
raccontava che Mac Mahon, dopo la vittoria, passò col suo seguito
davanti a una masseria dove stavan prigionieri duecento tedeschi, circa.
E il maresciallo ordinò al capitano di guardia di condurgli i
prigionieri a Magenta.
— Ma, generale, siamo in dodici tra graduati e soldati!
Come avrebbero potuto, dodici militari, scortar duecento nemici, circa,
con armi e bagagli, e senza che si ribellassero o scappassero?
Mac Mahon pensò un momento e poi... Bella idea!
Comandò di chiamar fuori a uno a uno i prigionieri; a uno a uno fece
staccare il bottone che ne reggeva le brache alla cintola. E in tal
modo, dovendo reggere con una mano il fucile e con l’altra le brache, i
duecento prigionieri, queti come agnelli, furono condotti a Magenta da
sola una dozzina d’uomini.
Gli ascoltatori naturalmente risero. Ma non avrebbero riso che per
l’astuzia di Mac Mahon se Pannocchia, il quale nel ’59 aveva ancora da
passare due anni prima di nascere e non sapeva nemmeno in qual parte del
mondo Magenta si trovasse, non avesse aggiunto, serio serio:
— Me lo ricordo anch’io Mac Mahon a Magenta!
Or fino a un certo segno è compatibile l’ignoranza che non presta fede
alle opere umane, ma non è poi compatibile chi non crede al caso, quando
ogni giorno si vedono avvenire per caso i fatti più straordinari.
E coloro là non ammettevano neanche la storia del merluzzo!
Con la sua cesta al braccio, Grappanera andava un giorno per i monti, e
in un luogo solitario scorse rilucere una pozza d’acqua, e risplendervi
dentro una cosa...; un animale, enorme, che pareva d’argento. Si
accosta. Immaginate! Era... un merluzzo!
Ma chi, dal mare, l’aveva portato e messo lassù in montagna, in una
pozza, un pesce di mare così grande? Questo il problema.
— Un colpo d’aria — rispose Volturno.
E Grappanera, pazientemente:
— Non ci sono cicogne a questo mondo? Non falchi? non aquile? Uccelli,
insomma, così robusti da pigliare un pesce, un merluzzino, in mare e
portarlo in montagna per divorarselo in santa pace? Il pesce, però,
preso da uno di questi uccelli, dovè pensare alle faccende sue e battere
e sbattere la coda disperatamente; l’altro aperse un momento il
becco...; e il merluzzino scappò, cadde. Per caso, proprio là sotto dove
cadde, stava una pozza d’acqua. Il problema era risolto.
— E se te lo mangiasti tutto te, il merluzzo, quanta grappa nera ci
bevesti dietro? — dimandò Pannocchia.
Schernivano ormai per partito preso. Inutile, oramai, qualsiasi
discorso.
***
Ma non solo per questo Grappanera pativa sino al martirio: pativa non
tanto perchè non credevano alle verità che diceva lui, quanto perchè
credevano ciecamente alle fandonie che dicevan loro e che imparavano dai
libri e dai giornali. Questa la sua maggior passione: di non riuscir a
convincerli delle bugie, delle assurdità stampate.
Ah la storia dei canali di Marte!
Un giorno lui, Grappanera, arrivò al convegno mentre Silvio il sarto e
Volturno Schiza disputavano, sostenendo l’uno che la gran stella che
accompagna il sole al nascere o al morire si chiama Marte, e l’altro che
si chiama Venere. La questione non gl’importava molto; e lui,
Grappanera, tacque in attesa che la finissero. Come non la finivan più,
disse:
— Pensate che se ne abbia permale lo stellone del dì o della sera, se
non gli date il suo nome giusto?
Ma Silvio gli si rivolse contro.
— Tu non sai niente! non sai che se è proprio Marte, lo stellone è
abitato da gente come siamo noi, tale e quale!
E Volturno confermò:
— Gli scienziati con il cannocchiale ci han visti dei canali come i
nostri, con gli argini come i nostri, tali e quali! L’ho letto io nel
libro di mio figlio, che fa la quinta!
Capite? Perchè il libro di suo figlio, che faceva la quinta, diceva
così, bisognava crederci quasi fosse Vangelo! E perchè gli scienziati ci
avevan visti dei canali in Marte, Marte (guai a non crederci!) era
abitato.
Ma quel giorno Grappanera ebbe un’idea così giudiziosa che chiaramente
dimostrava agli amici quant’erano chiù. Disse:
— Bene. Figuriamoci dunque d’esserci noi lassù, nello stellone, a
guardar giù, alla terra, con il cannocchiale. Vi credete voi che
diremmo: — Laggiù, in quella stella, che si chiama Terra, ci han da
essere degli uomini fatti come noi perchè ci si vedono dei canali con
gli argini? No! no! Diremmo: — Quella cosa lunga là, cos’è? Una torre!
Quell’altra? Un campanile! Quell’altra? Il camino d’una fabbrica! —
Questi sono i segni più visibili della mano dell’uomo; questi sono i
segni che non ingannano. Ecco perchè la terra si può dire abitata. Altro
che i canali, chiù che siete!
Ma no e no: non rimasero persuasi della ragione; gli diedero
dell’ignorante a lui, povero martire!
***
Le invenzioni sopra tutto contribuirono ad affrettare la fine del
martirio; e tre furono i presunti miracoli che la ragione e il cuore di
Grappanera non poterono assolutamente comportare.
Primo; l’aeroplano. Allora, poco più che un quarto di secolo fa, nessuno
degli scienziati solenni avrebbe ammesso quale possibile invenzione che
un corpo più pesante dell’aria non solo volasse ma si dirigesse alla
sicura per il cielo. Era dunque da rimproverar Grappanera se, per solo
amore della verità, sosteneva che la notizia di cotesta invenzione non
era bevibile? che il giornale letto dal sarto conteneva balle di bugie?
Palloni se ne eran visti tanti a volare, anche con uomini dentro, che
egli ne avrebbe ritenuto possibile uno grande come la cupola di San
Pietro a Roma, e capace di portar, magari, due o tre famiglie, purchè il
pallone andasse a suo capriccio. La macchina invece descritta nel
giornale di Silvio — un’automobile con le ruote, le ali e il motore —
andava dove voleva chi c’era sopra.
— Ragioniamo! Per andar dove si vuole è o non è necessario un appoggio?
la terra, ai piedi e alle ruote; l’acqua, alle barche e ai bastimenti?
Ma la terra e l’acqua sostengono i meccanismi di direzione perchè esse
si toccano, si sentono, si prendono. Prendete in mano dell’aria se siete
buoni!
A tagliar corto la disputa, Colamosto ricorse agli uccelli.
Quasi che gli uccelli non avessero l’anima fatta apposta per volare e
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