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non l’avesse inventata chi ne sapeva più di un giornalista: Domineddio!
Ma il guaio fu che la disputa d’aeronautica si tirò dietro la seconda
delle dispute più grandi e funeste, quando poi Volturno Schiza parlò,
rivolto a lui, il contradditore: — Tu l’altro giorno dicevi: — prendete
in mano dell’aria se siete buoni! — E oggi io ti dico che l’aria si può
liquefare, e se si può farne un liquido, si potrà anche prendere in mano
dentro una bottiglia o un bicchiere! L’ho letto io nel libro di mio
figlio, che fa la quinta.
Grappanera si provò a ridere a questa fola come loro ridevan delle sue
verità. — Ah! ah! l’aria liquida! l’aria in bicchieri, l’aria in
bottiglie! Non era buffa?
Ma anche il ridere gli sconquassava il cuore. Tacque. Riflettè. Trovò il
modo a dimostrar l’errore di quei creduloni: di nuovo per assurdo, da
perfetto dialettico.
— Se l’aria, che è un fiato...
— Un gaz, vuoi dire — corresse lo Schiza.
— Se l’aria, che è un gaz, si può ridurre a liquido, il mio liquore, che
è un liquido, si potrà ridurre a gaz. Bene! Me lo paghereste due soldi,
voi, un bicchierino di gaz? E io potrei dire: il mio gaz guarisce lo
stomaco?
Furono convinti dell’errore, per assurdo? Ma che! Meno che mai!
— Mi fate morire!
E la terza delle più funeste invenzioni...
Era vecchia, ma disgraziatamente se ne discorse la prima volta pochi
giorni dopo che Grappanera aveva tanto sofferto in causa della guardia
Peralti.
Si discuteva, a proposito di un truce delitto, intorno alla pena di
morte. E Volturno asserì — e gli amici confermarono — che in America
hanno una curiosa maniera di punir gli assassini e liberarsene.
Raccolgono due o tre fulmini in una scatola, raccostano al condannato,
che senza sospettar di nulla sta a sedere tranquillamente in una
poltrona, toccano una molla, i fulmini sbalzan fuori..., e giustizia è
fatta!
Colamosto disse, tutt’allegro:
— Presto o tardi questo sistema si userà anche qui da noi.
E Silvio:
— La mannaia e la forca erano un’infamia!
E Pannocchia:
— Ma così, con quella cassettina, dev’essere un piacere anche fare il
boia!
Grappanera era rimasto a bocca aperta. Se ci son cose al mondo
infrenabili, inafferrabili, che scappan da tutte le parti, sono le
saette. E coloro credevano si potessero raccogliere e metterle in una
cassettina come le anguille! Quando si arriva a questo punto, a dover
udir questo, non c’è neppur più da augurarsi di campare. Meglio andar in
un altro mondo dove non si stampino fole di tal sorta e non ci sia
nessuno che ci creda!
Grappanera, quand’ebbe chiusa la bocca, prese la sua cesta e si avviò
ansimando ma in silenzio. Quando fu alla Porta Montana si rivolse;
ripetè il solito disperato gesto, ma non disse: — Mi fate morire! — E
disparve.
Il giorno dopo, all’ora di Sant’Agostino, la campana della parrocchia
avvisava la solita compagnia che egli era passato da questo mondo pieno
di menzogne alla verità eterna.


IL VITELLO

_20 luglio._
Ma sì! Per il mese che potrò restarci in riposo e quiete il luogo mi
piace. Pura l’aria che cala dai monti e sale dal fiume; bella la vista
dalla mia finestra; fresche le ombre d’intorno: un senso d’antica pace
contiene questa vecchia casa dai muri massicci. E i padroni di casa son
ricchi d’antico stampo, ricchi che lavorano la terra e mostrano
nell’onesta faccia e nei modi franchi una semplicità cordiale. Non ci
siamo mai visti prima d’oggi, e ci siamo riconosciuti subito. I due
vecchi — il reggitore e la reggitora — m’han chiesto tante scuse non so
di che, asserendo per altro che qui starò benone; nè m’han detto d’aver
dubitato che rinunciassi a venir da loro perchè ci hanno, in casa, una
parente malata. La casa è così grande! E io non debbo darmene pensiero;
non debbo nemmen sapere in che camera giaccia quella poverina: debbo
godermi senza fastidi la bella campagna, e nessuno mi disturberà. Sono
libero! solo!
A Francesco, il padron giovine, che è lui di fatto il reggitore della
famiglia o il direttore dell’azienda, è bastato avvertirmi che sarà
sempre pronto a’ miei comandi; e lo zio e il garzone, più timidi, e gli
operai mi fanno scappellate da lungi, e zitti. Quanto a Reno, il
compagno che avrò sempre fido, mi dice tante cose, ma senza parlare. È
un grosso cane dagli occhi malinconici, dal muso lungo e dal cranio
appuntito: intelligente, e anche con lui ci siamo riconosciuti subito.
S’avventa furioso agl’intrusi; me, mi ha accolto scodinzolando, quasi
sapesse che sarei arrivato, e mi promette un affetto immenso in ricambio
di qualche tozzo di pane. Degli altri animali, non ho da temere nessun
disturbo. La cascina con la stalla piena di buoi è discosta; la
cavallina pascola queta nel prato; la scrofa e il degno figliuolo si
imbrattano lontano... Ho visto, tra le galline, i galletti, i tacchini e
le anitre, un’oca; ma che ha a fare un’oca con un letterato che usa
penne d’acciaio?
Dunque pace e libertà; ozio e beatitudine!
... Quale sarà la camera dell’inferma?
_22 luglio._
Ieri, mentre desinavo al rezzo, è capitato il medico condotto. Saluti;
pochi complimenti. Gli ho chiesto: — È grave? — Non ha potuto negare che
è uno di quei casi in cui la scienza si rimette ai decreti della natura;
però ha soggiunto: — È robusta, e tirerà innanzi un pezzo. — Come a
dire: — Stia pur tranquillo; stia allegro. Morirà quando lei non sarà
più qui. — Benissimo! — Buona sera, dottore!
... La sera, quando sono andato di sopra, ho guardato all’uscio in fondo
alla loggia. È sempre chiuso: deve essere là.
_24 luglio._
Io sto bene. La mattina mi alzo col sole e la frescura mi ravviva il
sangue per tutta la giornata. A un’ora di sole, come dicon qui, una
carrozzella viene a prendermi e mi guida lungo il fiume, per una strada
deliziosa, allo «Stabilimento». E faccio un bagno grato quanto un
lavacro spirituale. Al ritorno, la colazione, bevendo acqua eccellente e
vino idem, mi persuade meglio di un volume di Tolstoi che la felicità
sta in noi. Posso abbandonarmi, io, anche a una dormitina di alcune ore.
E segue, nel pomeriggio, la lettura dei giornali. Politica, scandali,
delitti, informazioni sfuggon di sotto agli occhi senza lasciar tracce
nella memoria. Nè si dica che l’ozio annoia. Un filosofico benchè muto
colloquio con Reno, quando non mi sonnecchia a lato; una capatina nel
frutteto dove anneriscono certe prugne e s’indorano certi fichi da
Paradiso Terrestre; un’occhiata ai lavori dei campi; un po’ d’attesa a
chi passi per la via —, e giunge l’ora di desinare. La sera, vengono a
trovarmi conoscenti vecchi e nuovi, e si chiacchiera, si fuma, si beve,
si gusta la bellezza del firmamento, e si ride. C’è uno il quale ride
con tale impeto che deve udirsi anche nella camera più recondita della
casa...
Lo so! lo so! La Morte, nel suo transito fatale e perenne, guarda a
questa casa di buona gente.
— _Tutto mio, tutto mio_ — canta da presso la civetta.
Ma: — Non ci badi — mi dice il reggitore. — È il suo verso.
_25 luglio_.
Effetto d’assuefazione: il ricordo dell’inferma, ridestato in me dal
quotidiano apparir del medico, non mi dava più che una tenuissima noia.
Non c’è beatitudine perfetta; e Reno, per esempio, non manca di pulci.
Se non che la paesana che mi serve da cuoca ha vinto finalmente la
soggezione, ha sciolta la lingua e mi ha avvelenata la colazione,
stamattina.
— Sa? — mi ha detto. — L’ho vista...
— Chi?
— L’ammalata.
— Ebbene?
— Vedesse com’è ridotta! Era una bella donnona, ma adesso... Patisce
pene d’inferno. Eppoi, ha una paura...
— Paura di che?
— Teme dar disturbo a lei. Quando si lamenta, per il male, si sforza
perchè lei non senta...
Per poco io non ho gettato a Reno tutta la bistecca. E la cuoca ha
seguitato:
— Esser ridotta così, agli ultimi anni, che avrebbe potuto passarli
bene! Perchè ha dei quattrinetti. Staremo a vedere a chi toccheranno.
Intanto io pensavo...
E l’altra puntando l’indice al naso e facendomi la confidenza a voce
sommessa (non è una chiacchierona):
— Gli eredi, vedrà, saranno questi parenti qui, sebbene ne abbia degli
altri, più stretti. Ma di chi la colpa? Ha una nipote, figlia di sua
sorella, che è in bisogno. La nipote, appena lei cominciò a patire, se
la prese in casa per curarla meglio, diceva. Invece un bel giorno le
ragazze, le figliole, aprirono cassa e armadio e se ne spartirono i
panni, come fosse già morta. Son cose da fare? Un po’ di prudenza ci
vuole, di pazienza! E l’ammalata se ne addiede; mandò a chiamare il
reggitore, questo qui, e si fece portar via. Allora la nipote mise di
mezzo un frate...
Io pensavo...
—... un frate che la consigliasse a far testamento e a lasciar tutto a
lei. Il testamento l’ha fatto, ma — l’ho saputo da un testimonio — alla
nipote gli toccheranno solo cento scudi.
Io pensavo: «Se ammalato fossi io, in questa casa, e quella poverina
fosse sana, non verrebbe forse a salutarmi qualche volta? a farmi
coraggio?».
— Le avete fatto coraggio? — ho chiesto alla cuoca.
— Sì. Le ho detto: — quel signore che è qui vi vuol presto nel prato a
conversare con lui.
— E lei?
— Ha voltato la testa, ha ficcato la faccia contro il cuscino, per
pianger piano...
_27 luglio._
Dimani la voglio fare, la mia visita di pietà. La voglio fare! La debbo
fare! A ogni costo.
_28 luglio._
Oggi è domenica, e l’inferma ha avuto altre visite e parole di
consolazione; attimi, forse, di speranza. Tra gli altri che son venuti a
trovarla c’è stata la nipote vedova, quella avida dell’eredità, e a
vederla si direbbe una buona donna; ma che non fa il bisogno? Essa, che
è sorda e sorride come i sordi, ha rotta la consegna di non avvicinarmi;
è venuta a chiedermi se sto bene, per susurrarmi che l’ammalata sta
male. — Male! male! Non camperà una settimana. Il dottore non capisce
niente.
_31 luglio._
Anzi il dottore ha capito subito la mia intenzione. Alla dimanda: — È
molto peggiorata? —, s’è prima stretto nelle spalle, significandomi che
talvolta la natura non s’appaga di vincer la scienza ma vuol anche
corbellarla; poi ha detto: — È meglio che lei non la veda.
Consiglio disinteressato! La vista dolorosa potrebbe, infatti, guastarmi
il sangue. Ma io, risolutamente, ho imposto a me stesso un _aut-aut_:
domani o vederla o partire!
_1 agosto._
E stamane la cuoca mi ha chiesto:
— Ha sentito? questa notte?
Anche le notti scorse, svegliandomi di soprassalto, ho teso l’orecchio,
se mi giungesse qualche gemito, e non ho mai udito nulla.
— C’è stato il prete tutta notte.
Il prete? ad assisterla? Avrà dunque perduta la coscienza. La mia visita
sarebbe ormai inutile...
Che sollievo!
Ma per tutto il giorno ho dubitato. — È morta? — La reggitora e il
figliuolo mi sfuggivano; il vecchio m’ha parlato del tempo, e che non
piove, e che mancherà presto il mangime alle bestie... Sempre disgrazie!
Però nella faccia onesta leggevo una maggior pena: quella di non aver
saputo e di non sapermi preparare all’evento. Egli e i suoi si sentono
in colpa verso di me. Turbare la mia quiete così!
A sera ho scorso la vecchia salir frettolosa le scale con un bicchierino
di vin santo...
_2 agosto._
_Tutto mio! tutto mio!_ È morta.
_3 agosto._
Sono casi, ma strani e perciò notevoli. Ieri sera Reno — non ci fu verso
— ha voluto salir con me, s’è accucciato presso il mio letto e v’è
rimasto tutta notte. Abbiamo dormito poco e male.
Oggi ho chiamato Francesco, il giovine, e gli ho detto sottovoce:
— Non vi date pensiero. Quando la porterete via, andrò per il campo.
Egli mi ha sorriso e, al tempo stesso, ha lasciato scorrere per le
guancie abbronzate due lagrimoni.
Ha detto:
— Lei badi a Reno. — Poi, come a un amico:
— Alla disgrazia ci eravamo preparati; ma adesso cominceranno i guai,
per quel po’ di roba...
***
Via! Il diavolo non è mai brutto come si dipinge, ossia la Provvidenza
non manca mai. Non dico per me: io ho mantenuto la parola, nè mi sono
afflitto troppo, per non dar dispiacere ai miei ospiti. Dal campo,
lontano, ho sogguardato al trasparir delle fiammelle, tra gli alberi; e
tenevo in chiacchiere Reno perchè non uggiolasse.
E dopo, anzi, mi sono quasi divertito.
Persiste in questi luoghi l’uso della cena funebre, a cui s’invita la
parentela e che, con una bella scorpacciata, accorda in piena cordialità
le necrologie. Però qui minacciava la questione del testamento, noto per
l’indiscrezione dei testimoni. Anche coloro che nulla ne speravano
temevano da un momento all’altro il conflitto fra la nipote vedova e
sorda, o i suoi figliuoli, e i presunti eredi.
Dalli e dalli, chi con dire: — La poverina ha finito di soffrire — o: —
Ha fatto il suo purgatorio in terra —; e chi con aggiungere: — Adesso
sta meglio di noi — o: — È in Paradiso di sicuro — la sorda ha udito e
non ha potuto contenersi.
— In Paradiso ci sarà andata se avrà fatto le cose giuste.
Le ha risposto Francesco, il giovinotto:
— Non sta a noi giudicare.
Ma ha ribattuto un figlio della vedova:
— Sta a chi ha nelle vene più sangue della sua gente, di lei. Gli eredi
dobbiamo esser noialtri! Siamo noi i parenti più stretti!
E il reggitore, il vecchio:
— La roba si lascia a quelli che la meritano, a quelli che ci voglion
più bene!
— Bravo! — ha esclamato un Tizio rompendo la neutralità.
— No! — ha esclamato un altro, il quale deve trovarsi in cattive acque:
— Si aiuta chi ha bisogno! Se no, il diavolo ride!
Così il conflitto è presto diventato una mischia di voci virili e
femminili. Già sormontava qualche bestemmia romagnola. Il sangue
romagnolo ribolle per poco; e qui non si trattava di poco, ma di più che
diecimila lire: nella Cassa! — Si sa! — Lo sappiamo! Dov’è il libretto?
— Il libretto — ha gridato Francesco — l’ho io in consegna e lo darò a
chi di ragione!
Intanto anche Reno ringhiava. Il baccano degli uomini e delle donne
offendeva il suo senso bestiale.
***
— Oh! reggitore! Francesco! correte!
E la voce del garzone ha soggiunto, anche più forte:
— Portate del sale! Correte!
Che cosa è successo? Che cosa succede?
Accorrono con la lanterna, col lume; anch’io accorro, tra gli altri,
uomini e donne, nella stalla. Quivi le voci irose si mutano in
esclamazioni di meraviglia o d’invidia... Una vacca ha partorito, zitta
e quieta, un bel vitello! Com’è grande! Vedo il vecchio cosparger di
sale il neonato e la madre lambirlo, leccarlo, tutto molle, con materna
tenerezza.
— Chi va e chi viene — osserva il vecchio sorridendo e rialzandosi.
E le parole del saggio inspirano d’improvviso il padrone giovine.
Francesco, in mezzo agli astanti, chiama la vedova. Dice:
— Sentite, Rosina. Non sta a noi giudicare la volontà di quella che se
n’è andata. Avrà fatto le cose secondo la sua coscienza. Ma per amore di
quella che se n’è andata, voi l’accetterete da noi, quando sarà da
vendere, questo che è venuto proprio adesso, come mandato da Dio a
metter pace tra di noi?
La sorda resta un po’ estatica, con gli occhi fissi, quasi dubiti di
aver male udito; poi si getta singhiozzando nelle braccia di Francesco.
Un brivido fugge per i rudi nervi degli astanti; a qualcuno s’arrossan
gli occhi. Si mormora: _bravo! bene!_ Parecchi si abbracciano.
***
... E andiamo a letto contenti tutti. Io ho in cuore una tenerezza...; e
mi par di vedere la puerpera leccare e tener caldo col fiato il suo
figliuolo.


ZVANÒN

Lo rivedo ancora bene — Svanòn — nella penombra della memoria: alto,
massiccio, imponente quale un gigante a me bambino, e strano per gli
occhi chiari cilestri in contrasto con il viso bruno e i baffi e i
capelli neri. E ne ho precise in mente le parole, perspicue le
attitudini di quando la mia anima e la sua ebbero dalla sorte una
vicendevole tragica apprensione. Ma poco o nulla io ricordo dei suoi
modi con gli altri; non so se agli altri apparisse temibile come a me,
eppur buono; se con gli altri ridesse come con me quasi cedendo a una
giocondità improvvisa; se la dolcezza del suo sguardo fosse turbata
spesso, non fosse più di un fuggevole consenso alla debolezza e alla
letizia delle piccole creature.
Era, nella famiglia patriarcale, il secondo o terzogenito. Dei cinque
fratelli solo il più attempato aveva donna, con parecchi figliuoli
giovani già fatti, allorchè s’ammogliò il quintogenito, di cui non
rammento neppure il nome. Più che il nome — Adalgisa — rammento invece
della novella sposa: il sorriso che pareva splendere da tutta la sua
persona; un’imagine di luce nella oscura casa campestre, tra la
reggitora vecchia cadente, la cognata oppressa dalle faccende
famigliari, gli uomini rozzi. E nel campo, tra il verde...: così: la
scorgo, la Gisa, venir dal rio per la costa recando sul capo il cesto
della biancheria lavata e tenendolo con le braccia nude; la gonna rossa
sostenuta da un lato, alla cintola, per aver libero il passo, e una
gamba fin quasi a mezzo scoperta; i capelli biondi scomposti, e il sole
che pareva tutto per lei.
Quanto tempo era trascorso dal dì delle sue nozze a quello che lei
s’impresse così vivamente nella mia memoria puerile?
Forse non più di un anno.
***
Quel giorno avevo ottenuto il permesso d’andar con la Gisa al rio.
Lavando, cantava ad alta voce; ma nessuno udendola avrebbe dubitato
cantasse a voce tant’alta per essere udita lontano — era lieta, era
bella —; nè a me bastava l’età della discrezione, a cui ero appena
giunto, per concepire tal dubbio allorchè, con un rumore di frondi
rimosse a un impeto, vidi arrivar Tito: Tito del Mulinetto, che veniva
qualche volta alla villa a giuocare alle bocce coi contadini.
Egli si adagiò su la riva mentre la donna sciacquava, in ginocchio su la
pietra, e io, al solito, lavoravo a scavar nella sabbia.
Discorrevano, ridevano. E mi stancavano. Mi spiacevano.
Forse antipatia di quel giovine ben diverso da Zvanòn, che se mi aveva
seco e non aveva altro da fare consentiva ai miei capricci? Per colui
invece era come io non esistessi. O me lo rendeva antipatico un arcano
presentimento?
Stanco, dissi alla donna:
— Vado a casa.
Lei non voleva. Mi aveva in consegna, e dovevo restare. Minacciò, pregò.
Otto o nove mesi dopo, costretto a ripensare e a rievocare quanto mi
avvenne quel giorno (e ritenni in mente e in cuore per sempre) sentivo
un accento quasi di pianto nella sua preghiera di restar con lei, quasi
temesse, dal mio allontanarmi, un pericolo. Ma Tito non mi fè parola.
— Sono stanco di star qui — ripetei.
E scappai.
Oh non per correre a casa, come la donna credette! A mezza costa c’era
la pozza del vincheto; e mi venne voglia di un vincastro dalla rossa
scorza. Tra i vinchi d’intorno all’acqua componevano un folto le
vitalbe, i pruni, i biodi, le carici, sì che a penetrarvi non s’era
visti nemmeno da chi saliva per il sentiero alla volta della casa.
Entrai nel folto; girai alla parte opposta, dove m’invitava con belle
aste un vinco vecchio ma basso; mi arrampicai su quello. Raggiunto che
ebbi l’inforcatura del tronco, vi fermai i piedi e prima di staccare il
virgulto ambito mi volsi a guardare di là, arditamente pago della mia
prodezza. Vedevo lì giù, tra i pioppi, il rio; e la Gisa con l’uomo.
Essa, in piedi ora, porgeva a Tito, disceso a lei, i pannolini; e li
torcevano tenendoli l’una a una estremità e l’altro all’altra. Poi egli
li gettava indietro, su l’erba.
Infine, salirono alla riva.
Ed egli accostò il viso al bel viso.
E poco dopo, mentre stavo appiattato e seduto a sfogliare il virgulto,
scorsi tra il folto la donna che avanzava sola per il sentiero declive.
Aveva sul capo il cesto della biancheria lavata e lo reggeva con le
braccia nude: la gonna sollevata a un fianco, una gamba scoperta sin
quasi a mezza gamba; i capelli scomposti.
E il sole pareva tutto per lei.
Rimasi alla pozza perchè, mentre percuotevo l’acqua con l’asta a
sollevar spruzzi sfavillanti, ci avevo fatta una scoperta: di certi
pesciolini mai visti, a due zampe che parevano terminare in manine; col
capo tozzo, gli occhietti spalancati, con tutto il corpo tutto coda,
grosso e corto; la pelle scura, a macchie più scure. Brutti. Oh
prenderne almeno uno!...
Quand’ecco un rumore, una voce grossa.
— Cosa fate qui?
Sobbalzai, mi volsi. Cedetti a Zvanòn, che mi afferrò un braccio e mi
scostò dall’acqua.
— A rischio d’annegarvi! Allora sì, i vostri! — sgridava.
Per scusarmi gli dissi:
— Voglio uno di quei pesciolini.
E lui, severo:
— Pesciolini? Ranocchini, sono; ranocchi non ancora fatti. Andiamo!
Tagliò i vimini per cui era venuto; si sospese dietro, alla stringa, il
pennato; mi prese, con la mano libera, la mano, e ripetè:
— Andiamo!
E soggiunse, mentre andavamo: — Lo dirò a vostra madre il rischio che
avete corso: di annegarvi nella pozza!
Cominciavo a persuadermi di aver commesso una marachella più grave delle
solite; e se di mia madre temevo più il dolore che i rimproveri, di mio
padre temevo il rimprovero più di qualsiasi castigo. Bisognava che
Zvanòn non dicesse nulla alla mamma; bisognava che egli dimenticasse il
mio fallo prima di giungere a casa. Ebbi, nell’ingenua scaltrezza di un
fanciullo settenne, l’idea di distrarlo dal pensiero di me con ciò che
vagamente sospettavo dovesse stupirlo; e gli dissi: — Sai? Ho visto che
Tito del Mulinello ha dato un bacio alla Gisa.
Egli si fermò, di colpo; mi guardò negli occhi per sorprendervi la
verità. Un istante. Sentii, nell’istante, la sua anima apprendersi alla
mia; e n’ebbi tal pena che, non interrogato, confermai in fretta.
— Sì sì: è vero!
Allora lui rise. Disse, come a darmi subito ragione del suo stupore
enorme:
— Oh dunque non lo sapete, voi, che Tito è fratello della Gisa?
E riprendemmo la via.
— Povero Tito! — aggiunse Zvanòn dopo un tratto —. Deve tornar soldato,
fra poco. Non verrà più a giuocare alle bocce con noi.
Eravamo al sommo della costa; oramai a casa. E io dubitavo ancora;
temevo che Zvanòn mi conducesse dalla mamma. Ma un’altra idea mi
soccorse.
— E le boccine di terra creta quando me le fai? Fammele, Zvanòn!
Tacque. Poi rispose:
— Adesso adesso... Io lego i fasci di sterpaglia. Voi intanto ammolirete
la terra creta, e dopo faremo la fornacetta da cuocer le palline.
Così io ottenni ch’egli dimenticasse d’accusarmi, ed egli dovè sperare
che non parlerei a nessuno di Tito e della Gisa, e di quel che avevo
visto.
***
Otto o nove mesi dopo, a Bologna, al pomeriggio di un giorno invernale,
una scampanellata mi fece correre prima della domestica ad aprir
l’uscio.
Zvanòn!
Non mi sorrise; non mi salutò; mi guardò. Un istante.
Ed ebbi di nuovo quell’impressione di pena, indefinibile, per me, se non
dicendo che l’anima sua si apprese, nell’istante, alla mia. Questa volta
però non era stupore in lui: angoscia. Ed era Zvanòn ed era un altro.
— Cosa m’hai portato? — gli chiesi timidamente.
Non rispose. Mi chiese:
— Dov’è vostro padre?
La domestica lo condusse nello studio.
Indi a poco, da uno spiraglio, scorsi che mio padre usciva con il
contadino. E giacchè Zvanòn non era più lui, io intuii una sventura.
Infatti quando mio padre tornò... — Ascoltavo palpitante dietro l’uscio
quel che diceva con la mamma —... Zvanòn aveva ammazzato con un colpo
della vanga dal lato del taglio, in litigio, per una cinquantina di
franchi che gli doveva — perduti nel giuoco da Tito — Tito del
Mulinetto!
Per una cinquantina di franchi che Tito aveva perduti al giuoco?
— No no! — fui per gridare in uno scoppio di pianto, e precipitarmi di
là, dai miei, e dire: — Io lo so il vero perchè Zvanòn ha ammazzato
Tito!
Ero certo. Il lampo della verità aveva illuminata la mia mente non più
ingenua, come otto e nove mesi prima. Entrai in cucina. Dissi alla
donna:
— Zvànon ha ammazzato Tito, con la vanga!
La vecchia domestica allibì. Non poteva credere. Conosceva da tanti anni
quella famiglia: galantuomini: gente di fede: cristiani. Impossibile!
— Per una cinquantina di lire. Tito non gliele voleva dare... — E
chiesi:
— Tito non è il fratello della Gisa?
— Ma che! — fece la donna. Soggiunse: — Povera Gisa! Avere per cognato
un assassino!
La vecchia non sospettava d’altro. Ma io sapevo perchè Zvanòn aveva
ammazzato Tito: Zvanòn che mio padre aveva accompagnato a costituirsi.
Ne ero certo. Quelle occhiate...
***
Ed io tacqui il mio segreto. Non ero forse complice del delitto?
Questa paura mi occupò tremenda. Pensavo: se io non mi fossi fermato
alla pozza dove c’erano i ranocchini non ancora fatti, e non avessi
voluto prenderne uno, e per prenderlo non avessi corso il rischio
d’annegare, Zvanòn non mi avrebbe minacciato d’un castigo e io non avrei
detto nulla a Zvanòn.
Zvanòn, no, non avrebbe ammazzato Tito! Certissimo. Quelle occhiate...
Di chi dunque la prima colpa?
Se io svelassi il mio segreto non metterebbero in prigione anche me: me
che avevo la mia mamma sempre malata, e non potevo darle tanto dolore, e
non potevo abbandonarla senza che io morissi? No, non dovevo dirglielo
il mio segreto, dirle la paura che mi occupava tremenda, senza che lei
patisse della mia stessa paura. In prigione il suo figliuolo, compagno
di un assassino!
Con tutti dovevo tacere. Con tutti!
Ma quel segreto era troppo più grande di me.
A scuola, chinavo improvvisamente il capo sul banco e piangevo.
— Perchè piangi? — mi domandavano i compagni, il maestro.
Rispondevo:
— Non lo so.
E mi canzonavano perchè piangevo senza sapere il perchè.
***
Al processo Zvanòn ripetè quel che aveva detto a mio padre il dì che era
venuto per consiglio, e quel che aveva detto al procuratore del Re e a
tutti.
In litigio, acciecato dall’ira, aveva colpito, senza intenzione di
uccidere. Voleva essere pagato del debito; dei cinquanta franchi vinti
al giuoco.
Alla dimanda se fra lui e Tito del Mulinetto fossero stati precedenti
rancori o ci fossero altre cause di rancore, rispose: — No.
I testimoni confermarono che erano amici.
Nessun sospetto, in nessuno, della tresca fra Tito e la Gisa. E Zvanòn
parve ricevere impassibile la condanna.
Mio padre, riferendo in casa del processo, conchiudeva:
— Si direbbe quasi che ha voluto essere condannato lui, a trent’anni.
E io capii. Zvanòn aveva voluto salvare l’onore della sua famiglia;
l’aveva salvato.
Ma aveva salvato anche me — pensavo; e la gratitudine che sentivo per
lui era così grande da rendermi gradevole, ora, il segreto più grande di
me. Avrei sfidato la morte piuttosto che rivelarlo. Povero Zvanòn! Mi
era ben manifesto ora il significato di quelle sue occhiate che mi
prendevan l’anima! Che colpa avrei commessa, per lui; che tradimento
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