Studi intorno alla storia della Lombardia - 10

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quanto più lungamente sia possibile. È questa mera fanciullaggine;
perocchè, sapendo l'Austria per certo di non potere definitivamente
impadronirsi di questi Stati, qual maggior pro può essa mai trarre da
un'occupazione durata tre mesi, che non da una durata un mese solo?
Spera essa forse che, protraendo di giorno in giorno la partenza, si
farà gradire qual signora permanente? Spera essa di avvincersi colla
sua presenza e co' suoi modi i cuori delle popolazioni di cui si fa
carceriera? Acciò questo divisamento non fosse privo di fondamento,
sarebbe necessario che l'Austria si travisasse affatto, e ciò non solo
agli occhi delle popolazioni italiane che non le sono soggette, ma
anche a quelli dei suoi sudditi lombardi. Perocchè, insino a tanto che
essa mostrerassi oppressiva in Lombardia, pochi cuori italiani le
saranno propensi.
Dopo una dimora di sei mesi in Piemonte, protratta ad onta dei riclami
del re Carlo Felice e dei gabinetti europei, le truppe austriache non
erano in verun modo disposte a far ritorno entro i loro confini. Il
governo imaginò allora di chiarire i sospetti che di già aggravavano
un gran numero di Lombardi, e di atteggiarsi come se fosse
particolarmente minacciato dai fatti del Piemonte e interessato ad
impedirne il rinnovellamento. Da quel punto l'occupazione del Piemonte
per parte delle truppe austriache vestiva un tutt'altro carattere di
prima. La cosa non avea più luogo a chiesta del re di Piemonte, nè più
bastava che questo monarca rendesse grazie all'Austria per
accommiatarla; ma all'incontro il Piemonte era dall'Austria occupato
per essere ciò necessario alla propria tranquillità, sicchè toccava ad
essa il far giudizio del quando potesse lasciarlo libero senza suo
scapito.
Nove mesi pertanto dopo il termine della rivoluzione piemontese, che
viene a dire in novembre del 1821, venne istituita in Milano una
giunta estraordinaria per inquisire intorno agli accordi ch'eransi
fatti tra i rivoluzionari piemontesi e i malcontenti lombardi. Quieta
era cionnonpertanto la Lombardia in quel tempo; le madri dei
giovanetti scolari arruolatisi nel battaglione di Minerva avevano
riportata promessa dal conte di Strassoldo, presidente del governo di
Milano, che la partecipazione di quei giovinetti alla sollevazione
sarebbe risguardata come una scappata da scuolari; e fidenti nella
promessa, quei giovani erano venuti di nuovo a sedersi sui banchi
dell'Università. Il marchese Pallavicini e Gaetano Castillia, reduci
anch'essi, nè mai stati molestati, credevano che il passo fatto da
loro fosse ignorato o scusato. Ognuno era dunque scevro di apprensioni
quando l'istituzione di quella giunta estraordinaria e i nomi dei
membri di quella, quasi tutti Tirolesi, vennero ad insospettire la
contrada. Erano però i sospetti mitigati dal considerare che nove mesi
eran trascorsi da che il principe di Carignano era stato a Milano,
vale a dire da che l'Austria era stata ragguagliata delle trame dei
liberali milanesi; dietro del che stentavasi a credere che ella avesse
intenzione di processarli da senno, giacchè altrimenti non avrebbe
lasciato ai sospetti un larghissimo tempo per togliere di mezzo tutti
gli obbietti che potevano servire a redarguirli. Conghietturavasi
altresì, e non a torto (o ch'io credo), volesse l'Austria con queste
dimostrazioni avvalorare unicamente una qualche segreta negoziazione.
Può darsi invero che tale e non altra fosse l'intenzione dell'Austria,
e allora convien dire, da un funesto concorso di fortuite circostanze
essere stati addotti i tristi casi del 1821 e degli anni seguenti. Il
primo mandato di cattura spiccato dalla giunta estraordinaria trasse
nelle carceri Gaetano Castillia, quel desso ch'era ito in Piemonte col
marchese Pallavicini. Uno de' suoi fratelli, Giovanni Castillia, era
testè giunto d'Inghilterra, ove avea fatto incidere sopra un suggello
le sue iniziali G. C. e quest'impresa, tratta dall'Alfieri: _Leggi e
non re, l'Italia c'è_. Conoscendo egli l'indole aombrosa della Polizia
di Milano, e la condizione sospettosa del fratello, erasi guardato dal
recare a casa sua quel suggello e avealo deposto presso la signora
Camilla Fè, la quale, per ragione del sesso, era creduta al sicuro
dalle persecuzioni austriache. Trovandosi un giorno in casa di quella
signora, rammentossi Giovanni Castillia d'una lettera del console
delle corti di Spagna a Genova, per nome Beremendi, pervenutagli
alcuni giorni prima ed alla quale non avea fatto risposta. Prese tosto
la penna e scrisse di fretta alcune linee, cui sottoscrisse colle sue
iniziali G. C., e veduto poscia sul tavolino il suo suggello, se ne
valse spensieratamente per suggellare la sua lettera, cui mandò
incontanente alla posta. In Ispagna fervea allora la rivoluzione, e il
Beremendi era console delle corti ispaniche; bastava perciò a destare
i sospetti della Polizia il semplice indirizzo d'una lettera ad un
tale personaggio: or quanto più quando lo spaventoso esergo _Leggi e
non re, l'Italia c'è_, ne contrasegnava il suggello! Il direttore
della posta aperse pel primo quella lettera, cui attribuì senza
peritanza a Gaetano Castillia, quel desso che era andato in Piemonte.
Bolza, Cardano ed un altro di cui non rammento il nome ebbero pertanto
incontanente l'ordine di recarsi a frugar nelle carte e robe di
Gaetano Castillia e di catturarlo nel caso che da quella inquisizione
emergesse un qualche gravame contro di lui. Gaetano Castillia avea
ricevuto alla sera una lunga lettera di Emmanuele Marliani, che allora
trovavasi in Ispagna e venne in fama di poi per la luminosa sua
comparsa in quella contrada. Vi si conteneano dei particolari intorno
alle cose della Spagna, delle considerazioni sul probabile
scioglimento di quelle faccende, come pure delle considerazioni
sull'Italia, congiunte a voti per essa, e forse altresì intorno agli
ultimi tentativi fattisi in Piemonte, e l'ammaestramento che si dovea
trarre da quei fatti. Subito erasi posto il Castillia a rispondervi;
e, spesavi una parte della notte, avea poi chiuso diligentemente la
lettera e la risposta in un cassettino frammezzo a pannilini,
proponendosi di ardere alla mattina per tempo la lettera e di mandar
la risposta. Ma fu antivenuto dagli agenti della Polizia. Non
aggiornava ancora quando questi agenti gli si presentarono,
esortandolo a nulla occultare. Ei consegnò loro le sue chiavi, e se ne
rimase tranquillo spettatore della loro disamina sintanto che li vide
intenti a frugare nel suo scrittoio e nello scrigno delle sue
scritture; ma ben dovette fare forza a sè stesso quando li vide
volgersi all'armadio delle biancherie, aprirne i cassettini, porre le
mani sui pannilini che coprivano quelle lettere, ed estrarnele. Il
solo fatto di avere occultate quelle carte era motivo di sospetto
contro il Castillia, e bastava ad autorizzarne la cattura; ond'è che
il Bolza lo avvertì che una vettura da nolo aspettavalo alla porta, e
gl'intimò di venirgli dietro in carcere. Uno dei fratelli del
Castillia¹ avendo ottenuto il permesso di accompagnarlo alla prigione,
giovossi di quella congiuntura per dargli alcuni consigli, e recossi
poscia difilato dal marchese Pallavicini a narrargli la disgrazia
accaduta al fratello, e ad esortarlo di sottrarsi con la fuga ad un
simile destino.
¹ Non era già quello di cui ho fatto menzione qui sopra, e
il quale fu causa prima, benchè innocente, di tante sciagure.
Ho detto che il Pallavicini era giovane assai. Egli avea certamente
nudrita la sua mente con la lettura di Plutarco e di Tito Livio, e
imparatovi come i grandi uomini dell'antichità si sagrificassero pei
loro amici e sapessero morire con essi quando non potean salvarli. E
in vero non ebbe appena udito della cattura dell'amico, che
attribuendone subito la causa al viaggio fatto di conserva con esso in
Piemonte, esclamò: «volere, ben lungi dal fuggire, voler condividere
il destino del Castillia; il massimo torto essere stato il suo; aver
lui proposto quel viaggio; non averlo seguìto l'amico se non per
condescendenza, ec., ec.». Nè fu pago di dir queste cose fra le
domestiche pareti; ma, fatto sordo ai consigli, e direi quasi alle
suppliche instanti del fratello del Castillia, il quale sforzavasi di
fargli intendere i tristi possibili effetti del passo ch'egli stava
per fare, uscì precipitoso fuori di casa e corse senza prendere fiato
all'ufficio della Polizia, ove richiese ad uno ad uno tutti gli
ufficiali in cui si abbattè, di chiuderlo in carcere col suo amico.
Quelle strane instanze non ebbero lo sperato esito. Il Pallavicini fu
ributtato burberamente; gli dissero non bastare il voler essere
incarcerato per venir chiuso in carcere, e lo esortarono ad andarsene.
Io non so invero se questa mattia fosse necessaria per cagionare
l'arresto del Pallavicini; perocchè la sua gita in Piemonte veramente
ponealo fra' primi nella lista dei sospetti; e se l'Austria era allora
determinata a porre in chiara luce gli accordi che eransi fatti nel
1821 fra i Lombardi e i Piemontesi, essa non potea cominciar meglio
l'opera sua che con la cattura del Pallavicini. Fatto è che questi non
dovette sospirare un lungo tempo pel carcere. Due giorni dopo la
strana sua domanda all'ufficio della Polizia, il conte Bolza,
appressatoglisi all'uscir dal teatro, invitollo a venirgli dietro, nè
lasciollo se non dopo ch'esso fu chiuso in una segreta poco lontana da
quella in cui era il Castillia.
Troppo avea presunto di sue forze e di sua fermezza il Pallavicini.
Schietto, generoso e disposto a prodezza, ma semplice ed ingenuo,
viziato da quella levità di carattere per cui l'animo va fluttuando
fra le più contrarie disposizioni, si empie oggi di matte speranze per
isprofondarsi domani nello sterminato abisso della disperazione, era
il Pallavicini uno di que' tali che sono in grado del pari o di
commetter le più grandi o le più nocive azioni, o di starsene inerti
del tutto, secondochè portano le circostanze, e sempre senza
premeditazione, tranne però il primo caso. Com'ei si vide in carcere,
tosto s'accorse che la sua propria sciagura non punto alleggiava
quella dell'amico, e concepì un ardente desiderio della libertà. Sua
madre, da cui era amato teneramente, desiderava ch'ei fosse liberato,
più ancora che nol desiderasse egli stesso; e la Polizia, o, per dir
meglio, il governo, proposesi di avvantaggiarsi dei sentimenti della
madre e del figliuolo. Non appena i membri del tribunale straordinario
e il giudice istruttore, Menghini, vennero in cognizione della levità
ed impetuosità del carattere del captivo, che prepararono le loro
macchine. Obbliava di già l'Austria in quel tempo, che la faccenda non
era stata ad altro fine indirizzata che a somministrarle un pretesto
per prolungare l'occupazione del Piemonte e del reame di Napoli.
Avendo essa posto in campo sospetti, volea giustificarli. Ben sapea
esservi stata congiura, perocchè aveane avuto contezza dal principe di
Carignano, e dacchè erasi posta scopertamente ad inquisire in
proposito, temea di apparire melensa ove non la rinvenisse. Impegnato
che fu il suo amor proprio, il governo si rassegnò a trovar dei
colpevoli, e non fu malagevole il suo cómpito.
Cominciossi per parlare al Pallavicini della congiura come di un fatto
notorio ed incontrastabile; poscia, trovando perseverante il
prigioniero nel negare un fatto così constatato, e veggendolo domandare
con tanta sollecitudine e commozione della propria madre, s'invocò
l'opera di questa, la quale, dopo la cattura del figliuolo, non cessava
dall'assediare l'anticamera del tribunale. Uno dei giudici chiamolla
nel suo gabinetto, l'accolse affabilissimamente, e datele notizie
confortanti del figliuolo, la cui fragile salute avea pur troppo a
scapitare per una lunga prigionia, aggiunse che la caparbietà di esso
nel negare una macchinazione della quale il governo conoscea i più
minuti particolari, era cosa fatta per indisporre gli animi contro di
lui; che la confessione richiesta al medesimo non era altro che una
formalità, un atto di sottomissione indispensabile affatto, ma però
tale, che non potea portare sinistre conseguenze per lui nè per altri.
Proseguì egli a parlarle in questi sensi, finchè la contessa,
interrompendo il discorso, accertollo ch'essa ben comprendeva le
benefiche intenzioni di S. M., nè potea dubitare che il figlio non le
comprendesse al pari di lei, e non vi si arrendesse con premura e
riconoscenza. Interrogò il giudice la contessa Pallavicini se
potess'ella sperare d'indurre il figliuolo alla confessione che a lui
veniva richiesta, e dietro la risposta affermativa ch'ella diede, la
fece introdurre nella prigione del figlio. La storia non dee toccare di
quello che sia stato detto allora dalla madre e dal figliuolo, ed è suo
debito di rispettare il segreto intorno a simili scene; debito tanto
più facile a servare, quantochè il racconto delle medesime potrebbe
solo indebolire quell'interesse che ne emerga. Fatto è che il
Pallavicini, dopo la visita della madre, confessò quel tanto che gli si
richiedea e ch'ei non credea ignorato ormai da veruno. Nelle prigioni
dell'Austria è d'uopo eleggere tra un sistema assoluto di diniego,
spinto sino all'assurdo, per cui si impugni risolutissimamente tutto
quanto può, dappresso o da lungi, direttamente o indirettamente,
toccare ad un fatto incriminato, e un sistema di piena confessione, per
cui si rinunzi ad occultare una sola delle circostanze del fatto
medesimo. Colui che spera di ristrignersi a confessare quel tanto che
riguarda sè stesso, senza pregiudicare i suoi sozi, e vorrebbe usare
schiettezza da un lato e dissimulazione dall'altro, è perduto;
perciocchè il giudice procede a tal modo: ponendo per istabilito il
fatto confessato dal reo, mette subito in campo, come conseguenza di
esso, un altro fatto ch'ei fa le viste di tenere come confessato
implicitamente col primo. E se l'inquisito ricusa di ammettere
quest'altro fatto, gli oppone ch'ei distrugge la prima sua confessione,
che pecca contro la logica, ec., insino a tanto che esso venga quasi ad
arrossire del diniego. Ond'è che l'inquisito è condotto quasi per forza
ad ammettere questa conseguenza della prima sua confessione, ed ecco
subito messo a lui dinanzi un terzo annello, un'altra conseguenza di
secondo grado, che gli è forza ammettere come la precedente; e così si
va procedendo via via, insino a tanto che non vi sieno più segreti da
propalare. Era il Pallavicini senza dubbio fermamente risoluto di non
compromettere altri che sè medesimo, ma compromise di fatti molti
altri. Quando se ne fu addato, tentò di ritrattarsi, cadde in
disperazione, e rimase come fuori di senno per lungo tratto di tempo.
Sicchè troppo acerbo sarebbe il rimproverargli un momento di debolezza
che fu espiato così crudelmente.
Come il Pallavicini, così anche il Castillia si persuase di non avere
a compromettere altri che sè medesimo, con isgravarsi dal peso d'una
perpetua menzogna. E di fatti io non ho pruova alcuna che le sue
confessioni abbian portato danno a veruno. Checchè ne sia, il nome del
conte Confalonieri venne proferito dinanzi alla giunta, e la cattura
di lui fu posta in discussione. Uno degli amici di lui era tuttora in
relazione con un antico ufficiale della polizia al quale avea prestato
servizio in altri tempi. Questo ufficiale, ora defunto, scrisse subito
a quell'amico per avvertirlo del pericolo che il Confalonieri correa.
Sospettato egli pure, e persuaso che la casa del Confalonieri doveva
essere invigilata attentamente, quell'amico recossi anzitutto dal
consigliere Marliani, la cui figliuola era stretta in amicizia e col
Confalonieri e coi principali liberali. Parlò con questa signora del
modo di ragguagliare il Confalonieri di quanto riguardavalo, e si
stabilì fra loro ch'essa invierebbe da lui il servo fidato di suo
padre, persona sicura e devotissima. Il Berchet, appressatosi a quella
signora nel mentre ch'essa ragionava con l'amico del Confalonieri, udì
le loro parole, e immantinenti si diliberò di scampare in estero
Stato, nè pose tempo in mezzo ad eseguire quel proponimento. Ricevette
pertanto il Confalonieri la notizia che gli amici erano impazienti di
fargli giugnere, ma non ne fu punto commosso, e ricusò di fuggire.
Alla sera del giorno medesimo, il menzionato ufficiale di polizia
scrisse di bel nuovo all'amico suddetto, essere stata stanziata la
cattura del Confalonieri. Gli amici si riposero in moto; ed anzi la
stessa figliuola del consigliere Marliani recossi dal Confalonieri per
fargli presente l'imminenza del pericolo e scongiurarlo ad andarsene.
Diè saggio il Confalonieri in quella occasione d'una levità di
carattere, che può servire di spiegazione e di escusazione dei falli
ch'egli avea precedentemente commessi. Gl'iterati avvisi mandatigli
da' suoi amici erano avvalorati altresì dalle insinuazioni abbastanza
chiare del maresciallo conte di Bubna, che teneva in quel tempo il
comando militare in Milano, ed era uomo retto e capace di
attaccamento. Nelle frequenti visite ch'egli faceva al conte ed alla
contessa Confalonieri, non mancava egli di ostentare molta ansietà
della mala salute del conte, e dal consigliare a lui ed alla contessa
un viaggio di alcuni mesi. Ben comprendeano entrambi il fatto per cui
mostravasi inquieto il maresciallo, e raffrontando questi replicati
consigli con gli avvertimenti venuti altronde, non potevano
dissimularsi il pericolo. Ora perchè mai trascurò egli il Confalonieri
l'occasione propizia che gli si offeriva? Perchè mai non volle egli
andarsene e starsene fuori per alcun tempo? Voleva egli punirsi della
funesta fidanza da lui posta l'anno 1814 nell'Austria? Desiderava egli
tergere col martirio la lieve macchia contratta dalla sua riputazione
in quel tempo? Benchè questa ipotesi sia molto onorevole pel
Confalonieri, difficil cosa è tuttavia il conciliarla coi
provvedimenti ch'ei non mancava di fare onde aprirsi al caso una via
di scampo. Diceva egli bensì agli amici: «Non partirò; non mi ritirerò
a fronte della tempesta, voglio anzi affrontarla; sarà di me quello
che Dio vorrà, ec., ec.»; ma intanto facea praticar nel solaio di sua
casa un buco che dava nella casa vicina (la casa Bonacina), e per quel
buco proponeasi di fuggire camminando sui tetti finchè trovasse od una
finestra od un abbaíno aperto per entrare in una qualche casa. Io non
so dire s'ei si proponesse di rimanervi celato sotto la salvaguardia
dell'ospitalità, o se sperasse di scendere le scale di quella casa e
d'uscirne pel portone senza essere veduto o notato. Ben era peccato
che il Confalonieri, risoluto, come pare ch'ei fosse, di sguizzar via,
non abbia meglio ideato il modo di farlo; ch'egli abbia voluto
aspettare fino all'ultimo istante per effettuare il suo disegno, e
siasi determinato a tentare una fuga pericolosa pei tetti, quando non
solo la porta della sua casa, ma quelle pure della città e dello Stato
erangli aperte. Che se alcuno dubitasse della verità della mia
asserzione, e credesse in quella vece che il Confalonieri avrebbe
forse incontrato maggiori ostacoli alla fuga di quelli ch'io suppongo,
io gli risponderei col racconto di un fatterello singolare. Sei
settimane prima della sua cattura, il Confalonieri abitava una villa
sulle rive del lago di Como, nel sobborgo di questa città chiamato
Borgo-Vico. Per festeggiare il giorno onomastico della consorte, egli
convitò parecchie persone a pranzo il 15 di ottobre, giorno della
festa di santa Teresa. Vennero i convitati all'ora prefissa; trovarono
apparecchiata la mensa, raccolta la brigata, ma assenti i padroni. Più
ore trascorsero, duranti le quali gli amici colà convenuti rimasero
inquietissimi intorno al destino del padrone di casa. Giunse egli
finalmente a piedi, preceduto da sua moglie e da' signori Francesco
Arese e di Fellberg. Erasi egli spassato nell'approfittare della
vicinanza della Svizzera e della libertà con cui passava e ripassava
il confine per empire la carrozza di oggetti in frodo de' dazi. Dietro
la denunzia di una spia, la sua carrozza era stata visitata e
confiscata. Or non poteva egli fare un uso migliore della libertà con
cui recavasi cotidianamente in Isvizzera?
Gli è forza pertanto supporre che il Confalonieri, mentre ricusava di
fuggire quando gli amici vel consigliavano, proponessesi di andarsene
quando a lui paresse opportuno. Nè sarebbevi perciò ragione di
rimbrottarlo gravemente; se non che era almeno da desiderare che gli
apparecchiamenti da lui fatti a tal uopo fossero stati così bene
ideati come quelli suggeritigli dagli amici. Ora a questo proposito
egli è da stupire che, dopo aver fatto aprire un varco nel muro
divisorio tra la propria casa e la casa Bonacina, il Confalonieri non
siasi poi data la briga d'invigilare a fine che quel varco non fosse
chiuso. Il che appunto accadde.
Era il Confalonieri male in salute, come ho detto. Giaceva egli a
letto quando vennero ansanti i suoi famigliari annunziandogli che
agenti della polizia entravano in casa. Balzar fuori del letto,
ghermire in fretta gli abiti, e scampar da una porta situata dietro le
cortine del letto per andare sul solaio, donde sperava passar nella
casa vicina, fu pel Confalonieri la faccenda d'un istante. Di già
appressavasi egli al varco, e potea credersi salvo. Vi giunge ansante
e trepidante. Tremenda delusione per lui! Il varco era stato chiuso
dal padrone della casa vicina, a detta di alcuni, o da un servo dello
stesso Confalonieri, a detta di altri. Ognuno però concorda nel dire
che quello sgraziato accidente fu mero effetto del caso, e sarebbesi
facilmente cansato se il Confalonieri fossesi data la briga di
invigilare sopra i mezzi apparecchiati pel proprio scampo. Vedendosi
côlto nel laccio, tentò il Confalonieri di scampare per una scala
segreta, ma non appena ebb'egli sceso alcuni gradini, che udissi
chiamare per nome da un uomo che l'aspettava appiè della scala
medesima. Era questi il conte Bolza, l'esecutore di tutte le catture
politiche, il quale, armato di due pistole, intimavagli d'arrendersi.
Non tardò il Confalonieri a sottomettersi. Le sue carte furono
esaminate, ed egli in compagnia degli agenti della polizia e della
gendarme, fu condotto in carcere.
Si è questo per avventura il luogo opportuno per dire alcune parole
intorno al carattere del conte Confalonieri, che mi è toccato di
rappresentare or come fermo, or come leve, or come ambizioso, or come
devoto, or come poco scrupoloso, or come di soverchio fidente, e, in
una parola, proteiforme. Non è infatti cosa infrequente il trovare
accoppiati in un istesso uomo le qualità e i sentimenti più contrari
fra loro: e se i caratteri di simil tempra sono uno scoglio da cui
debbono guardarsi pel meglio dell'opere loro i romanzieri ed i poeti;
lo storico, che è schiavo de' fatti, dee fedelmente ritrarli, non
senza aver cura d'avvertire il lettore dello strano spettacolo cui è
costretto a porgli sott'occhio.
Ebbe il Confalonieri dalla natura poca sensitività ed un temperamento
capacissimo di esaltazione. Non si è venuto in cognizione ch'egli
abbia provato forti passioni; ma spesso egli fu veduto commuoversi ed
infiammarsi contro certe cose o contro certe persone che
dispiaceangli. Egli è inoltre capacissimo di ammirazione; ma io non
avviso di fargli torto con dire, essere questo sentimento in lui per
lo più raffreddato da un certo quale scetticismo, così comune però in
Italia, che non si può farne un particolare rimprovero al
Confalonieri. Cresciuto in una famiglia stata devota in ogni tempo
all'Austria ed alle idee ch'essa rappresenta, sullo scorcio del secolo
decimottavo e frammezzo ad una generazione tutta imbevuta delle
dottrine rivoluzionarie, il Confalonieri subì ad un tratto l'influenza
dell'orgoglio aristocratico, dello scetticismo volteresco,
dell'entusiasmo liberale onde ridondavano i giornali francesi e i
bandi dell'esercito francese, e di quell'entusiasmo altresì che era
stato messo in voga dall'Alfieri per la libertà de' Greci e de'
Romani. L'imaginazione, facoltà dell'animo sì esuberante in Italia, è
altresì la facoltà predominante nel Confalonieri; ed una tale facoltà
in lui, del pari che in chiunque non la faccia servire ad una forte
passione o ad una profonda convinzione, e la lasci esaltarsi e
reggersi da sè, non ha mai prodotto alcunchè di veramente bello o
grande. L'uomo, il cui animo e il cui cuore non abbiano una base
solida da appoggiarvisi, nè scorta illuminata e fida da seguire, vo'
dire affetti profondi e massime invariabili, scagliato che sia nella
vita pubblica, sarà capace ora di un'azione magnanima, ora di un fatto
men che onorato; muterà parere secondo che vel trarrà la versatilità
connaturale all'umano genere; benchè forte, cadrà in debolezze; benchè
generoso, si abbasserà alla pari di coloro che sono men che generosi;
benchè schietto ed aperto, offenderà la verità; benchè accorto e
dissimulato, farà le più stolte confessioni; errerà insomma a
casaccio, qual nave priva di piloto e di bussola, nell'immenso pelago
delle sensazioni, dei pensieri, dei desideri e degl'interessi,
lasciandosi andare in balía di quelli e di questi, facendo il saggio
di tutto, e sarà vinto alla fine e unicamente dalla stanchezza.
Io non ho fatto con ciò il ritratto del Confalonieri, bensì ho
descritto un tipo di cui il Confalonieri è una varietà. L'animo del
Confalonieri è naturalmente elevato; la sua mente naturalmente portata
ai pensieri nobili o generosi; ma standosi anche rinchiuso nel cerchio
del giusto e del bello, il Confalonieri si è dimenato assai, ed ha
mutato frequentemente parere e proponimento. Spesse volte altresì egli
si è mostrato incoerente, e parve mosso ad un tratto da varii e
contrari impulsi, e chiudere in sè parecchi individui diversi.
Nella congiuntura di cui facciamo qui discorso, il Confalonieri
seguiva il suo nobile e coraggioso istinto col dichiarare a' suoi
amici di non voler partire; cedeva ai dettami della prudenza col far
aprire il varco pel quale dovea fuggire, e pagava infine, col
trascurare d'invigilare sopra quel varco, il suo tributo alla levità
del carattere (chè così può essere chiamata una siffatta
impreveggenza). Chi non direbbe che si tratta qui di tre uomini
diversi?
Interrogato come il Pallavicini e il Castillia, non doveva il
Confalonieri cedere com'essi. Ma la sua impreveggenza tornò agli amici
suoi non meno funesta, di quello che a lui fosse stata la fiacchezza
del Pallavicini. Desiderando egli far conoscere alla moglie quanto era
accaduto fra lui e i suoi giudici, volle scriverle due righe, e
s'appigliò a quest'uopo ad uno di quei mezzi che sono da gran tempo
usati dai prigionieri, sicchè da niuno sono ormai ignorati. Spiccò
dalla invetriata un pezzo di piombo, fecene un rotolino appuntato e se
ne valse a guisa di toccalapis per iscrivere una lettera sur un
pezzetto di carta. Ciò fatto, era d'uopo trovare un messaggero; ed io
non so veramente il perchè siasi il Confalonieri indotto a scegliere
per quest'ufficio uno degli uomini della gendarme da cui era
custodito. Parve costui intenerito dalle preghiere del nobile captivo;
acconsentì alla domanda, promise fede, e recò la lettera al giudice
inquisitore. Erano in questa lettera nominati il Fellberg, il Comolli,
il Borsieri e alcuni altri, che vennero tosto catturati.
Incalzato dalle interpellanze, e addatosi altronde che la congiura era
ben nota al governo, il Confalonieri, nell'atto stesso che confessò
d'aver saputo delle macchinazioni dei congiurati, tentò di
giustificarsi, allegando di essersi opposto sempre alla loro
effettuazione. E in prova di ciò addusse il fatto di avere scritta una
lettera al marchese di San Marzano, con cui esortavalo a non
affacciarsi al confine lombardo. Interrogato del mezzo con cui avea
potuto far capitare questa lettera al San Marzano il Confalonieri
nominò la contessa Frecavalli, la quale ebbe a sopportare pochi giorni
di poi una visita degli ufficiali della polizia, ed una cattura di tre
giorni nelle proprie stanze. Taluno sarà forse desideroso di conoscere
il come si osservino dalla polizia austriaca i riguardi che si debbono
usare alle donne. La contessa Frecavalli ebbe per custodi nella sua
propria stanza due agenti di polizia ed un uomo della gendarme. Uno di
questi agenti, per nome Fedeli, giovane ed avvenente, non era privo di
una certa quale urbanità di tratto; ma i precisi ordini datigli non
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