Studi intorno alla storia della Lombardia - 07

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perdizione la loro patria quando si vide chiara la fraude ond'erano
stati ludibrio? Si scagliarono essi bell'e vivi nell'abisso dalle mani
loro scavato, per ricolmarlo? Protestarono essi coll'armi in pugno?
Protestarono essi almeno con nobili parole? Umiliaronsi essi,
riconoscendo il funesto loro errore e chiedendone perdono a Dio e agli
uomini? Vestirono essi abiti di corrotto? Coprironsi il capo e il
volto di cenere? Mainò. Accettarono rassegnati il flagello che aveano
tirato addosso alla patria loro, e studiaronsi di farlo volgere a
proprio pro. Si dichiararono paghi e contenti, resero grazie
all'imperatore d'Austria, lo servirono, accorsero alla corte, e taluni
anzi in assisa di ciambellano.
Non è ella, per Dio, troppa bonarietà il supporre che siffatta gente
si trovasse delusa?
Io parlo qui della maggior parte. Ebbevene alcuni che, delusi davvero
questa volta, tentarono in processo di tempo di sottrarre la contrada
natia al giogo cui erano concorsi a ribadirle sul collo; ebbevene di
quelli che posero a repentaglio per questo fine, l'avere, la libertà,
e perfino la vita. Pagarono questi il ricatto delle colpe dell'età
prima, e l'Italia, spettatrice dei loro patimenti e della loro
espiazione, gli ha generosamente assolti.
Io farò più sotto novella menzione di essi.


PARTE SECONDA
La prima parte del cómpito ch'io mi sono imposto è terminata; e per
quanto essa siami stata penosa, ancor più lo sarà quella che mi rimane
a tessere. Io ho dato a conoscere quanto irrequieto e turbolento fosse
lo spirito dell'aristocrazia milanese, e a quanti diversi e
sconsigliati progetti esso la traesse; ho mostrato come risoluti ed
anzichenò feroci fossero gli abitatori del contado lombardo, e come,
chiamati ad incarnare i disegni dell'aristocrazia, vi adoperassero con
brutale energia. Sono alieno a trafatto dal far plauso allo spirito e
ai fatti di quel tempo; e di fatti ho deplorato abbastanza nel corso
della mia narrazione il funesto acciecamento di cui sembravano tutte
colpite le diverse fazioni che brulicavano allora in Milano. Ma pure,
se la Lombardia procedeva allora da cieca, non era essa tuttavia
immobile; se tristi affetti bollivano nei cuori, non vi si annidava
almeno la stupida indifferenza; se i membri dell'aristocrazia si
lusingavano con la speranza vana di troppo splendidi destini,
sentivano almeno la voce dell'ambizione; se lo spirito nazionale
pareva affetto da demenza, il male derivava tuttavia da soverchio,
anzichè da difetto di vitalità. Ora, per quale politico processo
avvenne egli mai che quel soverchio di vitalità, quei sensi ambiziosi,
quelle triste e terribili passioni, quello spirito di vertigine e di
turbolenza si sieno spenti così pienamente, che il popolo lombardo è
oramai non meno straniero ed indifferente ad ogni pensiero di
progresso, ad ogni diviso di mutazione, di quello ch'ei sarebbe se
fosse vissuto rinchiuso, dal principio dei secoli, in un'isola ignota
al rimanente del mondo?
Questa trasformazione sì rapida, poichè operossi nello spazio di
trent'anni, questo trapasso dalla vita alla morte è opera della
polizia austriaca, è effetto de' suoi provvedimenti, intesi a
convincere i Lombardi: 1.° che il più segreto pensiero di ognuno di
essi le è conto bentosto; 2.° che il menomo pensiero liberale, il
menomo desiderio di libertà, e qualsivoglia giudizio emesso intorno
agli atti del governo o dei membri di quello, costituisce un reato,
alla pena del quale dee soggiacere tosto o tardi il colpevole; 3.° che
ogni sentimento che non vada a versi del direttore della polizia, è
parimenti un reato; 4.° che non v'è cosa al mondo che possa smuovere
il governo austriaco, nè indurlo a concedere ai suoi sudditi riforme,
ordini novelli, ecc.
Uom si rappresenti un popolo convinto appieno della verità di siffatti
aforismi, e poi faccia ragione del grado di energia onde possa essere
capace un tale popolo; ed egli avrà un adequato concetto
dell'oppressione dei Lombardi. Domandasi ora il come sia venuto fatto
all'Austria di inculcare siffatte massime negli animi del popolo
italiano? Eccoci a chiarire alquanto un tale subbietto colla breve
sposizione dei tentativi di affrancamento fatti dai Lombardi nei
trent'anni ultimi scorsi, e dei provvedimenti repressivi mercè dei
quali tutti quei tentativi furono sventati.
Ho di già raccontato il come l'Austria prendesse possesso della
Lombardia; ho riferito il bando col quale i Milanesi furono edotti che
il già regno d'Italia non era più altro che una provincia dell'impero
d'Austria. Ho detto che nissuno fece protesta in contrario, che i
collegi elettorali cessarono le loro assemblee, e che la Reggenza
provvisionale, in cui presiedea il maresciallo Bellegarde, continuò a
porre la sua firma in calce ai decreti fatti da quel commissario
plenipotenziario.
Recavano quei decreti, per la massima parte, un'impronta che allora
poteasi non avvertire, ma ebbe in appresso una precisa spiegazione.
Il regno d'Italia possedeva in realtà un governo completo, il cui
capo, residente in Parigi, ma imperante in Italia nella qualità di re
d'Italia, e non già d'imperatore dei Francesi, deferiva l'esercizio
della sua potestà ad un vicerè. Eranvi in Milano, cioè nella capitale
di quel reame, un senato, un Corpo legislativo e consultivo, un
Consiglio di Stato ordinato a foggia del Consiglio di Stato di
Francia, una corte dei conti, un ministro della guerra, un ministro
delle finanze, un ministro dell'erario, un ministro delle cose
interne, un altro degli affari stranieri, ecc., ecc. Eravi una
direzione generale della polizia e una prefettura di polizia; e niuno
di questi collegi od uffiziali dipendeva dai collegi od ufficiali di
simil fatta stabiliti in Parigi. Il regno d'Italia stava in somma da
sè; e se i suoi interessi politici erano sempre ed ingiustamente fatti
dipendere da quelli della politica francese, non v'era tuttavia
capitolo costitutivo e fondamentale degli statuti nazionali che
legittimasse quella dependenza. E in fatti il legame che, sotto
l'Impero, avvinceva l'Italia alla Francia, o per me' dire, la catena
per cui quella era strascinata dietro questa, potea venire infranta
senza che la costituzione dei due Stati avesse perciò da subire alcuna
trasformazione.
Non intendeva già l'Austria a fare che le sue relazioni con l'Italia
fossero di tal maniera. Tutt'altro proponevasi essa che di creare in
Italia un reame più o meno independente, e di dargli solo quel tanto
d'independenza che non potesse nuocere all'Austria istessa. Voleva
dall'un canto annichilire ogni esistenza propria all'Italia, e
dall'altro curvarla sotto il giogo senza farsi mormorare. Un decreto
della Reggenza provvisionale, in cui presedeva sempre il maresciallo
Bellegarde, dato il 27 luglio 1814, abolì la carica di ministro della
giustizia, lasciando sussistere la commissione legale, ed avocando
alla Reggenza stessa una gran parte degli uffizi di quel ministro. Un
altro decreto dello stesso giorno abolì la carica di ministro
dell'interno, surrogando pure al medesimo in molti casi l'istessa
Reggenza. Così pur fecesi per le cariche del ministro delle finanze e
di quello del culto. Due giorni di poi venne la volta della corte dei
conti e del ministro dell'erario. Alla fine il giorno 16 d'agosto fu
soppressa la carica di ministro della guerra e della marineria, e
creata in quella vece una commissione straordinaria per terminare le
rilevanti operazioni che rimaneano pendenti in quel ministerio. Ma
essendo poi stata disciolta il 20 d'ottobre successivo anche questa
commissione, gli uffici di essa devolsersi al comandante militare
della piazza, il quale era un ufficiale austriaco ed anzi viennese.
Quanto è alla commissione legale, essa non rimase lungamente in
ufficio, ed abdicò il 14 dicembre dell'anno stesso nelle mani di un
Ufficio fiscale, composto d'un procuratore regio, di cinque avvocati
del fisco, d'un assistente, d'un protocollista, d'un registratore,
d'uno speditore e di un commesso. Il quale Ufficio, di pochissimo
rilievo, come apparisce per la qualità de' suoi membri, era esso pure
meramente provvisionale.
È fatto degno di essere avvertito, che la Reggenza provvisionale
veniva ad eredare essa stessa quasi tutte le facoltà ed uffizi
ch'erano assegnati in addietro ai ministri e agli altri corpi dello
Stato aboliti dal commissario plenipotenziario; e può ben darsi che i
membri della Reggenza e il partito austriaco mitigato non
risguardassero altrimenti una tale arrota d'autorità, spontaneamente
conferita ad un corpo che in origine era stato eletto popolarmente,
che come un segno di ossequio a quel principio dell'elezione, e come
un atto di condescendenza inverso alla Lombardia ed a' suoi
rappresentanti. Ma tale non era certamente il divisamento del
commissario plenipotenziario e del suo governo. La Reggenza essendo
essa pure provvisionale, non potevano essere intese a pro di essa le
accennate spogliazioni, ma bensì a pro di quella autorità che doveva
poi eredare definitivamente le attribuzioni tutte della Reggenza
medesima. La quale autorità era poi, come vedremo a suo tempo,
l'autorità centrale, il gabinetto di S. M. l'imperatore d'Austria, il
governo stabilito in Vienna, il quale regola le cose delle sue
province lombarde.
La tendenza minuziosamente oppressiva, che è uno de' principali tratti
del carattere della politica austriaca, chiarivasi fin d'allora. La
società segreta dei Liberi-Muratori, ed altre società segrete furono
espressamente proibite con un decreto del 26 agosto 1814, e comminata
a' rei del delitto di associazione la pena della prigionia, per uno
spazio di tempo non maggiore di tre anni. Un altro decreto del 25
d'ottobre prescrivea severe pene contro i disertori, e rammentava a
tutti _i cittadini dabbene_ l'obbligo che loro correva non solo di
negare ogni soccorso ai disertori, ai coscritti contumaci o
refrattari, ecc., ma anche di denunciarli ai magistrati, del pari che
i loro ricettatori o fautori. Ben presto dovea venire in pieno fiore
il sistema dello spionaggio e delle delazioni.
Intenti a ristabilire in tutta l'Europa l'antico ordine di cose,
aveano gli Austriaci pochissime truppe da porre all'opera in
Lombardia. Poche migliaia di soldati erano distribuiti in tutta l'Alta
Italia, e chiusi nelle fortezze ond'è coperta la contrada. Milano era
perciò privo quasi di presidio austriaco; e intanto l'esercito
italiano, all'un di presso numeroso egualmente, era tuttora in armi.
Riunito nel paese compreso tra Mantova e Milano, esso ubbidiva ancora
a quegli stessi capitani che tante volte lo aveano guidato alla
vittoria contro gli Austriaci. Non richiedeasi di più per indurre i
generali italiani a rinfrescare il divisamento concepito alcuni mesi
prima, e abbandonato in allora per l'opposizione del generale Pino. Il
generale Teodoro Lecchi scrisse al fratello Giuseppe, che stava allora
al soldo del re di Napoli, esortandolo a chiedere l'aiuto di quei re
pel caso che l'esercito italico insorgesse contro gli Austriaci.
Soddisfacentissimo fu il riscontro, perocchè dava formale promessa che
il re di Napoli accorrerebbe prontamente in soccorso dell'esercito
insorto.
Fu allora ordita una congiura militare, a cui accederono: i generali
Fontanelli (già ministro della guerra), Lecchi Teodoro, Bellotti
Gaspare e Demeester, i colonnelli Moretti, Olini, Varese, Pavoni e
Gasparinetti, il comandante Cavedoni, l'aiutante maggiore della
guardia civica Lattuada, il caposquadrone Ragani, l'ispettore alle
rassegne Brunetti, il celebre Rasori, Marchal, oriundo francese, e
molti altri ancora, cui troppo lungo sarebbe l'enumerare partitamente.
Divisavasi di suonare in una data notte le campane a stormo; al qual
segnale i soldati italiani ch'erano in Milano doveano riunirsi tutti
in arme, e prima che gli Austriaci fossero risensati dallo stupore in
cui quel suono a stormo gli avrebbe immersi, impadronirsi di loro,
come pure dei principali personaggi in carica, o vivi o morti. Il
generale Fontanelli doveva indirizzare questa mossa, e proclamar
poscia un governo italiano. I varii corpi italiani, acquartierati
lungo la via da Milano a Mantova, dovevano accorrere in aiuto del
Fontanelli. La città, o almeno la fortezza di Mantova non potea
reggere col debole presidio che vi stava, contro l'esercito italiano.
Murat promettea d'accorrere sollecito. Napoleone era nell'isola
d'Elba. Le congiunture erano assai propizie; e nel caso pure che la
fortuna non fosse del tutto favorevole all'armi italiane, rimaneva
aperta a queste la via per ritirarsi in Toscana, e il modo di venire a
patti e per l'esercito e per la patria con gli Austriaci. Ogni cosa
era apparecchiata; solo rimaneva da prefiggersi il giorno. L'ispettore
Brunetti recossi alla villa del generale Fontanelli, e, avvertendolo
esser pronta ogni cosa per l'esecuzione, lo richiese a dare gli ordini
opportuni. Era il Fontanelli un militare valoroso ed onoratissimo; ma
non si dovea già allora dar dentro ad un battaglione nemico o superare
all'assalto un ridotto. Sintantochè i progetti dei congiurati gli
erano apparsi come destinati ad essere recati in atto in un lontano
avvenire, aveali egli riguardati come una pugna da ingaggiarsi, od una
incamiciata da tentarsi. Ma giunto l'istante di operare, la cosa mutò
per lui d'aspetto. Quella segretezza con cui si doveano condurre le
cose, gliele vestiva di misteriosa e tremenda apparenza. Pensava egli
che gli Austriaci non avrebbero certamente tutti fatto contrasto
coll'armi, e con raccapriccio investigava il come si avrebbe a
trattare i feriti, o quelli che di buon grado si arrendessero. Era
pure preoccupato dal pensiero di quanto si dovea fare dopo occupata la
contrada. Egli era stato un lungo tempo ministro, ma ricevea allora
dall'alto gli ordini che tramandava al di sotto. Ormai doveva
assumersi il carico delle più gravi risoluzioni, e, caso che la
fortuna gli fosse contraria, non sapea qual destino avesse ad
incogliere e lui e gli amici. Non era già minacciato, come sul campo
di battaglia, da una palla di cannone, ma da un processo, dal carcere
da una condanna ignominiosa, lo scorno della quale ricadrebbe sopra i
suoi figli. Affacciandosegli affollate alla mente tutte queste
considerazioni, egli era talmente agitato che, appressatosi al
Brunetti per pigliare nella tabacchiera di questi una presa di
tabacco, fu dal Brunetti notato il tremito convulsivo della sua mano.
Un uomo in tale stato non si pone a capo di un insorgimento, e ben gli
sta, chè, volendo farsi indirizzatore, trarrebbe gli altri a
perdizione. Fontanelli pertanto si schermì, e vane furono tutte le
instanze del Brunetti.
Ritornatosene questi dai congiurati, e ragguagliatili del rifiuto del
Fontanelli, la costernazione si sparse fra loro. Proposero alcuni di
sostituire al Fontanelli il generale Teodoro Lecchi, ma questi, mosso
per avventura da soverchia modestia, opponeva, non essere il suo nome
splendido abbastanza per dare splendore ad una intrapresa di tal
fatta; la mitezza ben nota dell'indole sua farlo altronde male
acconcio a indirizzare una mossa della fatta di quella che si dovea
tentare in Milano, e in cui non si doveva indietreggiare in faccia
alla necessità di sbrigarsi ad ogni costo del presidio austriaco; non
essere in Milano i reggimenti dei quali potea disporre; doversi lui
recare a pigliarli per condurli a quella vôlta quando la mossa fosse
stata operata. Le ragioni allegate dal Lecchi per ischermirsi
dall'onore di dare il primo e più tremendo colpo agli Austriaci,
furono poi anche poste innanzi alla vôlta loro dagli altri congiurati.
Non potendo invero tentarsi una mossa militare di tanto rilievo senza
un capo ben noto, si riconobbe con dolore doversi per allora deporre
il pensiero e le speranze. Separaronsi i generali con gli occhi
lagrimosi e il cuore angosciato, non osando nemmeno proporsi di
differire la cosa ad altra occasione, che non erano sicuri di saper
afferrare.
Progetti sì presto abbandonati, macchinazioni rimaste affatto
ineseguite impacciavano il maresciallo Bellegarde. Il pericolo era
passato, e per impedirne il ritorno, il 18 novembre fu dato ai capi
dei reggimenti italiani l'ordine di recarsi in Alemagna, ed eseguito
il 21. Ma la brama austriaca di vendetta non era appagata, e sì dovea
venir fatta paga; ed ecco il come il maresciallo Bellegarde avvisossi
di conseguire l'intento:
Savoiardo di nascita, il Bellegarde aveva ancora in patria dei
congiunti poveri e oscuri, i quali, chiusi nelle cupe valli dell'Alpi,
s'affidavano nel cugino per trovar mezzo di uscirne. Uno di questi
congiunti era noto al maresciallo per la sua valenzia nell'arte
degl'intrighi e della menzogna, e a lui si volse egli per tendere ai
liberali italiani un agguato. Partì costui dietro la chiamata del
cugino da Ciamberì nella diligenza per a Milano; ma non appena fu
lungi dai luoghi in cui era troppo conosciuto, spacciossi per vegnente
da Parigi, e assunse il nome di visconte di Saint-Aignan, dicendo di
appartenere alla nobile famiglia di tal nome, la quale nel servire
all'imperatore avea tenuto di servire alla Francia, e di buon grado
erasi allora rappattumata coi discendenti degli antichi suoi re. Per
mala ventura, uno de' compagni di viaggio di questo impostore fu il
Marchal, altro de' complici della congiura militare testè abbandonata;
presso il quale l'impostore, ufficioso ed entrante, come sogliono
essere gli uomini di tal fatta, s'insinuò ben presto, e venne con lui
in tanta intrinsechezza, che non durò stento a conoscerne le opinioni
politiche, e i sensi ch'esso nodriva verso il governo austriaco.
Giunto a Milano e venuto in casa del Marchal, il visconte parve di
repente risoluto ad aprirsi a lui. Gli confessò che il re di Francia
Luigi XVIII, il reggente d'Inghilterra, e specialissimamente poi il
duca di Angulêmme l'aveano spedito a Milano per iscandagliare le
disposizioni della popolazione. Il re Luigi, il reggente d'Inghilterra
e il duca suddetto non poteano sopportare in pace che questa bella
contrada, stata unita per tanto tempo alla Francia, ne fosse ora
staccata, non già per godere della propria independenza, ma per subire
un giogo straniero. Angosciati erano i loro cuori da un tale
spettacolo, ond'è che avevano concepito il pensiero di infrangere le
catene di cui era l'Italia gravata. Ora, l'Italia era essa disposta ad
accogliere le generose proposte? Era essa impaziente dell'oppressione
austriaca? Era essa parata a far qualche sforzo per conseguire
l'intento? ad esporsi a qualche pericolo? a tentare alcuna mossa? Ciò
desideravasi conoscere.
Io ho già riferito più tristi esempi della credulità italiana, e se
invece di ristrignermi a raccontare i fatti avvenuti dopo il 1814
avessi rivangate le cose accadute fin dal primo ingresso in Lombardia
degli eserciti repubblicani, ne avrei riportato un numero assai
maggiore. Ed ecco una novella congiuntura in cui ebbe quella credulità
i più funesti effetti. Al Marchal parve quella una occasione
favorevolissima per ravviare le già dismesse fila della congiura. Il
medico Rasori andava cotidianamente in casa del Marchal, la cui
consorte era ammalata, e il Marchal propose subito al visconte di
parlare al Rasori. La proposta essendo stata alacremente accolta, ecco
che il falso Saint-Aignan e il Rasori si trovarono insieme. Ricominciò
il Savoiardo la patetica sua sposizione del rammarico ond'erano
crucciati Luigi XVIII, il reggente e il duca d'Angulemme. Trasse fuori
lettere e mandati, da cui egli appariva un inviato plenipotenziario
dei re di Francia e d'Inghilterra presso i liberali italiani.
Raccomandando a quei due la massima segretezza, disse loro essere
necessaria dal canto loro e dei loro amici un'intiera fiducia per
condurre a buon fine i loro disegni. Lieti di vedersi inopinatamente
aperta una via novella nello stesso mentre che erasi chiusa quella per
la quale speravano uscir di servaggio, il Marchal e il Rasori
approvarono checchè loro disse il visconte, assicurandolo che non si
attraverserebbero con indegni sospetti ad una sì nobile e sì grande
intrapresa. Il Rasori nell'accommiatarsi pregò il visconte di recarsi
da lui il 23 di novembre per imparare a conoscervi alcuni dei
principali congiurati, ed indettarsi con loro.
Il visconte e il Marchal recaronsi di fatti il dì prefisso in casa del
Rasori, che stava aspettandoli con l'avvocato Lattuada e il colonnello
Gasparinetti. Entrato il visconte, presentollo il Rasori a' suoi
amici, dicendo: «Eccovi, signori, il signor visconte di Saint-Aignan,
di cui mi fo io mallevadore»; e poi rivoltosi al visconte, gli disse:
«Eccovi, o signore, i signori Lattuada e Gasparinetti, di cui mi fo
parimenti mallevadore». Si pigliò tosto a ragionare, gl'interrotti
progetti furono riposti in campo, i nomi dei congiurati passati a
rassegna, novelli disegni discussati. Non ne farò minuto racconto,
perocchè niuno di questi novelli disegni fu seriamente stabilito.
Troppo acceso era il desiderio dell'insorgimento nei liberali
italiani; laonde non era possibile che ne investigassero profondamente
i mezzi, le speranze e i pericoli. Quello che si fermò, egli era di
ristaurare ad ogni costo il passato, di cancellare dalla storia
italiana i due mesi ultimi scorsi, di tentarlo almeno, di non
trascurare perciò veruna occasione, e di non badare ai pericoli. Avea
il Lattuada portato le varie minute di costituzione fra le quali tra'
congiurati militari non era ancora stata fatta l'elezione; ed a
speciale richiesta del visconte si assunse l'incarico di compilare
colla scorta di quei diversi progetti una costituzione. Il colonnello
Gasparinetti promise di stendere un bando per l'esercito, e il Rasori
un manifesto al popolo. Il Marchal dovea incontanente recarsi dal re
di Napoli per assicurarsi della cooperazione di lui; e il Rasori
partire alla vôlta di Douvres per porre sotto la protezione del
Reggente il novello Stato italiano; dopo del che, reduce in Francia,
otterrebbe, volendo colà accasarsi, giusta le promesse del
Saint-Aignan, un'onorata e lucrosa carica. Il visconte poi dovea far
pagare al Lattuada per mezzo d'un banchiere di Lugano un milione di
franchi, destinato a pagare la diserzione che facea di mestieri nei
reggimenti italiani partiti alla vôlta dell'Austria. Indettatisi in
questi termini, i quattro congiurati si separarono promettendo di
riunirsi di nuovo il 26 di novembre, e di recare al convegno un
progetto definitivo di costituzione, un bando all'esercito e un
manifesto al popolo. Furono tutti fedeli alla promessa nel giorno
prefisso; ma l'impostore, che giunse per l'ultimo, entrò trepidante e
smanioso nella sala della conferenza, dicendo ch'era stato seguito da
emissari di polizia, che aveane veduti parecchi cammin facendo, ed
eragli forse venuto fatto di sottrarsi alla vista loro coll'allungare
il passo; ma che in tale condizione di cose era necessario deliberar
prontamente e subito separarsi. Facea l'impostore egregiamente la sua
parte. Sembrava sbigottito e sdegnato ad un tempo, volgeasi
bruscamente di quando in quando per vedere se non aveva alcuno dietro,
e coll'occhio ardente, col volto acceso, parlava ad alta voce,
gestiva, si dimenava. Trasse anzi di tasca una pistola da due colpi,
cui disse carica, e depostala sul tavolino, presso il quale i
congiurati, rimasi a tale atto interdetti, erano raccolti, esclamò:
«Vengano, vengano questi bricconi, questi sciaurati, e se alcuno fa
mostra di pormi le mani addosso, avrà a che fare, per Dio! con la mia
pistola». Acchetatosi poscia alquanto, pregò gli amici di entrar
presto in materia. Avevano i signori Lattuada, Rasori e Gasparinetti
deposto sul tavolino le carte che arrecavano e ch'erano state
dall'impostore bene adocchiate. Non appena le ebbe egli prese in mano
e cominciatane la lettura, che l'aia della figliuola del Rasori entrò
a furia nella sala e avvertì il padrone che la strada era piena di
gente, e la casa accerchiata da agenti della polizia e soldati. A
questa notizia, il visconte è côlto da un nuovo accesso di furore;
biastemmia, si frega il fronte colle mani, si dimena proferendo parole
interrotte; e approfittando dello stupore che a bella posta destava
nelle sue vittime, s'avventa anzi tutto sopra la sua pistola, poi
sopra la minuta di costituzione, il bando e il manifesto, e gridando
voler andare a rompere il cranio a quegli sfacciati bricconi, non li
temer punto, ec., balza fuori rapidamente dalla sala e dalla casa,
lasciando i signori Rasori, Lattuada, Gasparinetti e Marchal più
inquieti di quella gran furia e delle conseguenze che aver potea per
chi vi si era dato in preda, che non pensosi di sè stessi.
Ov'erasene egli andato l'impostore? Chi lo avesse seguito, avrebbelo
visto sguizzare in mezzo agli agenti della polizia, parlare a bassa
voce coi principali di loro, ricevere graziosamente le loro
congratulazioni, e poi trottare sollecito alla casa del suo congiunto
il maresciallo Bellegarde, per annunziargli l'esito felice della sua
frode. Volendo finir presto di parlar di costui, licenzierommi a
romper l'ordine cronologico per riferire quanto gli accadde molt'anni
di poi. Reduce in Francia, passeggiava un giorno il Marchal sotto i
portici del Palazzo Reale, quando l'aspetto d'un uomo che camminava
pochi passi stante, ridestò in lui repentinamente angosciose memorie.
In pochi momenti potè il Marchal convincersi che punto non s'ingannava
e che aveva realmente dinanzi agli occhi il falso visconte di
Saint-Aignan. Corsegli contro difilato, e tenendolo afferrato con una
mano gagliarda, gli sferrò con l'altra quante bastonate potè.
Torniamo ai congiurati. La precipitosa partenza del visconte, e la
scomparsa delle rilevanti carte ch'erano sul tavolino non tardarono a
destare in loro forti sospetti. Pensarono certamente a salvarsi
fuggendo in istraniere contrade; ma non vi si seppero indurre presto
abbastanza. A rilento sempre si suole fare una risoluzione penosa, e
solo all'ultima estremità si cede ad una convinzione angosciosa.
Rasori, Gasparinetti, Lattuada e Marchal pensavano sì sgomentati alla
scomparsa del segreto emissario della Francia e dell'Inghilterra, ma
non erano però lungi dal credere che si tenesse nascosto in alcun
luogo; non doversi, dicevano anche fra loro, fare giudizio d'alcuno
con tanta precipitazione; avere il tempo chiariti ben altri misteri.
Niun d'essi, altronde, avea fatto sperimento della politica austriaca.
Nei tempi che corrono si fugge, si emigra, si abbandona la patria
senz'avere di gran lunga motivi così gravi di inquietudine.
Due o tre giorni dopo la narrata scena, il medico Rasori e i suoi tre
amici vennero arrestati. Il maresciallo Bellegarde aveva in mano prove
esuberanti per trarre a perdizione quei quattro infelici; ma ciò non
bastavagli. Ei volea porre addosso le mani sopra i complici della
congiura militare, e a questo fine soltanto aveva fatta ordire la
picciola congiura secondaria in cui si erano immischiati quei quattro
soltanto. Aveva già egli per via dei rapporti del falso visconte,
piena cognizione dei particolari della congiura militare; ma non sapea
come recare dinanzi ai giudici cosiffatti rapporti, e arrovellavasi
dal desiderio di strappar di bocca ai captivi delle confessioni simili
a quelle ch'erano state fatte all'impostore, suo cugino. Un uomo,
divenuto poi celebre nei fasti dell'austriaca polizia, uno di quelli
che più adoperarono nel fabbricare quella ampia ed inestricabile rete
che avviluppa tutti i Lombardi, e che talmente costringe le facoltà
naturalmente libere del loro intelletto, da annichilirle, vo' dire il
signor Pagano, si prese l'assunto di captare la confidenza dei
captivi. Ed ecco il come vi si accinse.
Il colonnello Gasparinetti era interrogato da un maggiore austriaco,
cui assisteva il signor Pagano. Negava egli tutto, e così le promesse,
come le minacce erano state indarno adoperate per espugnare la sua
costanza. Una mattina, il maggiore austriaco interruppe
l'interrogatorio per uscire un istante, lasciando il prigioniero solo
col signor Pagano. Il quale, appressatosi tosto guardingo al
colonnello Gasparinetti, non senza guardarsi attorno, quasi per tema
di essere sorpreso: «Colonnello», dissegli a bassa voce e con tuono
commosso, «colonnello, guardate che cosa vi facciate. Non vi avvedete
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