Studi intorno alla storia della Lombardia - 11

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gli permisero di accondiscendere al desiderio della contessa
Frecavalli, coll'uscir fuori un solo istante dalla camera di lei, nei
tre giorni e nelle tre notti dell'arresto della medesima. Ond'essa non
volle andare a letto, nè abbandonare la seggiola su cui si era gittata
quando vide entrar nella camera gli agenti di polizia, sopportò con
piena calma quella soggezione, non tralasciando di tribolare co' suoi
sarcasmi quegli agenti, e in particolare il Fedeli, per l'uffizio
rozzamente vile cui avevano accettato verso ad una donna. Non era essa
più giovinetta in quel tempo, e lo sforzo che fece per non dar a
conoscere di sentirsi affetta di soverchio da quella brutalità, le
guastò la salute per sempre.
Non debbo omettere di far edotto il lettore del modo col quale venne
osservata la promessa fatta dal conte Strassoldo, presidente del
Consiglio di governo, alle famiglie dei giovanetti che si erano
arruolati nel battaglione di Minerva. Non appena fu in piede la giunta
straordinaria per istruire il processo contro i congiurati, che tutti
quegli scuolari furono catturati. Invano se ne richiamarono le loro
madri presso il presidente del governo; perocchè questi non avea
promesso che quel tanto cui credea poter attenere, e il gabinetto di
Vienna, poco sollecito dell'onore de' suoi ufficiali, avea testè
nominato dei commissari, le cui attribuzioni erano affatto
independenti dal presidente del Consiglio di governo. Parecchi di quei
giovanetti vennero poi condannati come rei di ribellione; altri furono
discacciati dall'Università e ributtati da ogni aringo, come rei di
poco attaccamento alla Casa d'Austria.
La casa di correzione riboccava di catturati politici, e novelle
catture accrescevano cotidianamente il numero di questi. Tutte le
famiglie erano immerse nella costernazione. Niuno usciva di casa senza
guardarsi dietro, e senza vedersi seguito da uno o due uomini, male in
assetto, e di cera ignobile, come sono per lo più gli agenti segreti
di qualunque potestà, e quelli in ispecie di una potestà arbitraria.
Quante volte ho io veduto dalla mia finestra un uomo da' cinquanta a'
sessant'anni, vestito d'un abito verde, con un cappellaccio calato sul
viso, un fazzoletto a colori annodato attorno al collo, la schiena
arcata, l'incesso tardo, passeggiar tristamente in istrada, e sostare
tratto tratto sotto il portone dalla casa posta dirimpetto, guardando
ora all'uno, ora all'altro dei capi di quella strada, o sforzandosi di
spinger lo sguardo a traverso le cortine dietro le quali io mi stava.
Era costui uno spione ben noto, simile a tutti quelli che erano
egualmente appostati in ogni altra strada o davanti ad ogni casa
sospetta. Non poteano due persone salutarsi cammin facendo per le vie
della città, senza che il direttore della polizia ne fosse subito
ragguagliato. Niuno si accostava ad un altr'uomo senza diffidenza;
niuno si arrischiava di andare per due giorni di seguito nella istessa
casa, per tema di destare sospetti.
Chiari vedeansi sopra tutte le lettere affidate alla posta i segni
dell'infrazione del suggello. Quante persone furono chiamate dal
direttore della polizia, o tratte a lui dinanzi in sembianza di
malfattori, per essere da lui interrogate, per esempio, sur un
discorso fatto in loro presenza in un dato giorno e in un dato luogo!
Potevano ben esse negare il fatto, fosse o non fosse vero realmente;
ma non poteano con ciò raddolcire l'umore aspro del direttore, il
quale, contento di incutere loro un momentaneo terrore, le avvertiva
con tuono d'oracolo, essergli noti i loro minimi pensieri, biasimarsi
questi da lui fortemente, e poco voler tardare a dargliene pruova.
Nella città non si parlava d'altro che dei tormenti inflitti ai
prigionieri politici, e le segrete dell'Inquisizione pareano un nulla
a udire quel che si diceva delle segrete della casa di correzione di
Milano. Bucinavasi di cibi o bevande dati ai captivi per alterarne il
senno e strappar loro il segreto: ma questa tortura non fu mai e poi
mai posta in uso in Milano, nè dagli Austriaci; e si dee lasciarne
l'ignominia al duca di Modena, che se ne valse. Se non che i mezzi
posti in opera dalla giunta estraordinaria di Milano, dacchè in
ispezieltà il Salvotti era stato chiamato da Venezia a Milano per
farvi l'ufficio di giudice inquisitore in luogo del Menghini, questi
mezzi, men grossolani certamente, erano tuttavia crudeli ed iniqui.
Non posso tacere qui di un fatto che varrà di risposta a coloro i
quali, per troppa ingenuità di animo, dicessero non potersi dare in
Europa un governo capace di sancire, inscrivendole nel suo codice,
disposizioni simili a quelle che io debbo menzionare. Ed è, non
esservi negli Stati austriaci codice di processura determinato per le
giunte estraordinarie, e condursi da queste i processi che sono loro
demandati, a seconda delle momentanee occorrenze. Facciasi da ciò
ragione dell'estensione veramente sconfinata delle facoltà concesse a
queste giunte.
Il Salvotti entrava talvolta a mezza la notte nelle segrete de'
prigionieri, e destandoli di repente, facea loro, prima che
risensassero dallo stupore e dallo spavento, interrogazioni insidiose,
per le quali vantavasi di possedere una rara perizia. La mancanza
d'aere libero, e di esercizio, le angoscie d'animo ond'erano oppressi
i captivi, tutto in somma conferiva a guastar loro la sanità. Parecchi
caddero infermi; alcuni corsero rischio di perder la vita, mentre il
Salvotti richiedeva la più piena confessione per concedere agli uni la
visita del medico, agli altri il conforto di abbracciare un'ultima
volta una persona carissima, o alla maggior parte l'ultimo colloquio
con un confessore. Ebbevi un moribondo al quale fu negato un
confessore di sua propria scelta, per imporgliene uno il quale, giusta
ogni apparenza, era una spia. Avendo l'ammalato risposto che si
confesserebbe a Dio, non si osò fare più lunga instanza in proposito e
chiamossi il sacerdote desiderato del moribondo. Fecesi però una
picciola vendetta sopra il sacerdote istesso, mandando in cerca di lui
per modo da indurlo a credere ch'ei fosse chiamato in prigione per
rimanervi.
Gli interrogatorii aveano luogo tra l'accusato e il giudice istruttore
Salvotti, in presenza d'un cancelliere, il quale scrivea le domande e
le risposte. Componea poscia il Salvotti un epilogo di tutti questi
interrogatorii, di cui lasciava copia, dopo terminati i costituti,
all'inquisito, esortandolo ad apparecchiare pel giorno seguente la
risposta, cui davasi il nome di difesa; perocchè in siffatti processi
l'accusato non può nè affidare la propria difesa ad un avvocato, nè
tampoco giovarsi della dottrina e dei consigli altrui. Il captivo
trovavasi adunque improvvisamente e pel breve spazio di ventiquattro
ore, costretto a prendere in disamina la voluminosa raccolta delle
interrogazioni ch'erangli state fatte, e delle risposte da lui datevi
mesi e mesi prima, ed a difendersi. Uno di quegl'inquisiti, fra altri,
stette diciotto mesi in carcere, nel quale tempo fu interrogato due
sole volte, la prima, subito dopo la cattura, entrante la primavera
del 1822, per non altro uopo, che per constatare l'identità della
persona; la seconda alla fine dell'anno 1822; dopo del che non vide
più i suoi giudici se non nel mese di ottobre dell'anno seguente, in
cui fu riposto in libertà. Un captivo può egli assicurarsi
dell'esattezza od inesattezza di costituti avvenuti da sì remoto
tempo, quando inoltre essi sieno, come furono quelli per esempio del
Confalonieri, in tanto numero da giugner quasi ai cento? Se
l'inquisito tentava di ridursi le cose a memoria, se pigliava a
rettificare i fatti stabiliti dai costituti, se ardivasi ad entrare in
discussione col proprio giudice, egli era irreparabilmente perduto.
Alcuni appigliaronsi ad un felice compenso. Pregarono l'istesso
consigliere Salvotti di stendere le loro difese, in quel modo che avea
steso le accuse, dichiarando di rimettersi in tutto e per tutto al suo
senno e alla perfetta sua probità. Ed egli, pago di questo tratto di
confidenza, si diede con una certa quale vanagloria a fare con eguale
acume due parti, l'una opposta all'altra, a sostenere con l'impegno
medesimo il pro e il contro. Ond'è che gl'inquisiti che posero le
proprie sorti nelle mani di quello strano avvocato, furono meglio
difesi che non quelli i quali vollero pigliarsi essi medesimi questa
briga.
Ebbevi in questa occasione dei fratelli incarcerati e condannati per
non avere voluto farsi accusatori l'uno dell'altro; furonvi persone
condannate per non avere tradito il segreto ch'era stato confidato
loro; e per meglio dire, quasi tutti coloro de' cui gemiti risuonarono
poscia le segrete dello Spielberg non per altro vennero condannati che
pel reato di non-rivelazione. Io non preterirò qui l'occasione di
encomiare una volta almeno senza miscuglio di biasimo il procedere del
conte Confalonieri. Non appena si fu egli addato delle vere intenzioni
dell'Austria, e si persuase ch'era certa la sua perdita, e che la
speranza con cui lo aveano in sulle prime lusingato, era meramente
un'insidia tesa contro la fedeltà sua agli amici, che si appigliò e
aderì fermamente al sistema di negar tutto. Allora spiegò
quell'irremovibile forza di volere, che fino allora eragli stata sì
male in aiuto. Facendo egli forse in allora giusto giudizio dei
passati suoi portamenti, riguardò con occhio sereno i patimenti che
gli erano destinati e cui poteva accettare a titolo di espiazione.
Fatto è che niuno de' suoi compagni di sciagura ebbe a rimproverargli
un momento di debolezza; e l'Italia tutta quanta, ponendogli a merito
i tanti e sì angosciosi anni di captività, e la nobile rassegnazione
con cui egli seppe fare il sagrificio della propria vita e della
propria libertà, sdimenticossi gli sgraziati fatti del tempo addietro,
e diedegli un posto fra' suoi figliuoli prediletti. In un tempo di
crisi e di rivoluzioni come si è quello in cui viviamo da poco meno
d'un secolo, gli uomini politici che non s'ingannino mai sono in poco
numero; ma minore ancora è il numero di quelli che si purghino in tal
guisa di un fallo con un eroico procedere serbato sì a lungo. Gli
altri inquisiti si diportarono bene, e quanto a me, io sono accertato
che non uno di loro mancò al proprio debito, e che i più fiacchi non
peccarono se non contro sè stessi, vale a dire che si persuasero di
non confessare se non a proprio danno. Io recherò qui di nuovo un
esempio del modo adoperato dalla giunta per istrappare il segreto di
bocca agl'inquisiti. Un notaio di Brescia, per nome Bontempi, avea
fatto un istromento di donazione o di cessione dei beni dei fratelli
Camillo e Filippo Ugoni a pro del loro zio Francesco Ugoni.
Quell'istromento fu impugnato come nullo, perchè destinato a
conservare ai fratelli Ugoni le loro sostanze, che secondo le leggi
portate contro gli spatriati doveano soggiacere a sequestro. Il notaio
fu incarcerato e assalito in mille varii modi per trarlo a confessare
la simulazione di quella donazione. Ma sia che realmente egli avesse
fatto quell'istromento in buona fede, sia che comprendesse essere
d'uopo pel proprio scampo il dirlo, fatto è ch'ei negò risolutamente
di saperne di simulazione, e sostenne inconcussamente di avere creduto
di fare un istrumento valido, e che l'atto era stato fatto nella
debita forma, ec., ec. Uno dei testimoni che aveano sottoscritto
l'istromento, per nome Panigotti, ricoveratosi in estero Stato subito
dopo la cattura del notaio Bontempi, e condottosi a Brusselle, ove
stette alcun tempo, era un amico dello stesso notaio. Conoscea la
giunta l'amicizia che passava tra 'l Bontempi e il Panigotti, nè
ignorava, perchè esperta oramai in siffatte materie, il sentimento
angoscioso e cocente da cui viene affetto un uomo posto a fronte di un
altro per sostenergli in faccia ch'esso ha mentito; il qual
sentimento, ove i due confrontati sieno stati amici fra loro, ne rende
il confronto affatto insopportabile. Dietro la cognizione che avea di
un tale fatto e, sto per dire, d'una tale legge, il giudice istruttore
disse al Bontempi, che il Panigotti, anch'esso captivo, avea
confessato quel tanto ch'ei s'ostinava a negare. E aggiunse che,
ostinandosi egli tuttora nella impugnativa, gli avrebbero condotto
dinanzi l'amico per vedere quello che saprebber dire entrambi in un
tale frangente. Udendo e della cattura dell'amico e della confessione
del medesimo, rimase il Bontempi costernato. Non reggendo al pensiero
di dover dare una mentita all'amico e di passare presso di lui per
mentitore, interruppe frettoloso le parole del giudice, che facea le
viste di ordinare che colà conducessero il Panigotti, e confessò
quanto si volle da lui confessato. Venne perciò condannato ad un anno
di carcere. Era egli tratto con buona scorta dalla prigione
degl'inquisiti a quella dei condannati per iscontarvi la pena, quando
gli venne in mente la speranza di poter conoscere la sorte dell'amico.
Trovandosi vicino ad uno dei custodi, lo interrogò se il Panigotti
fosse condannato alla stessa pena, se avesse a subirla nell'istesso
carcere, e se non fosse soverchiamente afflitto dalla sua sventura.
Avrebbe detto anche di più se il custode, che non era edotto di tutti
i lacciuoli tesi agl'inquisiti dalla giunta, non l'avesse interrotto
ridendo, per assicurarlo che il Panigotti, anzichè essere in carcere,
era scampato e stava ottimamente in Brusselle. Il povero notaio
s'accorse allora soltanto dell'abisso che gli aveano scavato sotto i
piedi, e il raccapriccio cagionatogli dalla scoperta di tanta iniquità
fu sì fiero, ch'egli stramazzò tramortito a terra, e non appena
risensato, fu côlto da una febbre nervosa, dalle conseguenze della
quale non potè mai pienamente riaversi. Il suo gastigo non dovea però
finire con la fine della sua prigionia. Ricuperando la libertà, egli
non ricuperò già la carica, statagli tolta per effetto della sentenza
contro di lui proferita. Avanzato in età, estenuato dal carcere, e
sprovvisto di sostanze, il Bontempi visse ancora alcuni anni con le
limosine che gli faceano or l'uno or l'altro de' suoi soci di
sciagura. Alla fine parecchi mesi trascorsero senza ch'ei fosse veduto
recarsi da veruno di loro, com'era il suo solito, per chiedere,
quand'era angustiato dal bisogno, un qualche soccorso. Più sollecito
degli altri, uno di costoro andò in cerca del vecchio notaio, e le sue
indagini lo condussero allo spedale, ove trovò il nome del Bontempi
inscritto fra quelli dei defunti nella settimana precedente.
Mesi e mesi erano scorsi dacchè era stata posta in seggio la giunta
estraordinaria. Contradittorie voci andavano in giro per la città. I
genitori, le mogli, i figliuoli, i congiunti degl'inquisiti
assediavano del continuo le anticamere dei giudici, riportando parole
di conforto degli uni, minacce terribili degli altri. Il popolo,
sempre mal disposto inverso quelli che la pubblica potestà perseguita,
obbliava che quegli accusati erano stati già oggetto per lui di
reverenza e di affetto, e omai risguardavali come malfattori. La
polizia si era data molta briga per ottenere questo effetto. Essa avea
calunniato gli inquisiti, dipingendoli come empi, come riprovati dalla
nostra santa madre Chiesa, come biastemmiatori, come fabbricatori di
veleni, rapitori di fanciulli. Quei nobili cuori, sentendosi
abbandonati dal popolare interessamento, erano prostrati. L'Austria
poteva esser crudele o generosa a suo senno, ma non fu nè crudele nè
generosa.
Il re di Piemonte, il re di Napoli, il duca di Modena e la duchessa di
Parma aveano sparso il sangue dei loro sudditi. L'Austria non imitò in
questo il loro esempio. Ed ecco il perchè si può dire ch'essa non fu
crudele. Ma è egli d'uopo spiegare il perchè non si può encomiarla per
clemenza?
Giunsero alla fine le determinazioni dell'imperatore Francesco intorno
alle conclusioni della giunta. Alcuni degl'inquisiti furono riposti in
libertà, ma assoggettati alla invigilanza della polizia, e astretti a
rimanere in città. Quelli fra loro che testè occupavano una carica o
esercitavano una professione dependente in qualsivoglia modo dal
governo, ne erano privati. Inoltre, aggravando la disgrazia e il danno
di questi uomini che avevano sfuggito la condanna, non tralasciò il
governo di sparger voci sinistre contro i medesimi; voci che il
pubblico accolse premurosamente. Laonde ne avvenne che, usciti dal
carcere, privati della carica o della professione, rovinati per
l'abbandono delle cose loro, posti in un'ingrata soggezione,
pregiudicati gravemente nella salute, esclusi dal posto che aveano
lasciato vacante nella società, epperciò doppiamente bisognosi, per
poter sopportare la vita nei termini in cui gliel'aveano ridotta, di
essere sorretti dalla stima e dalla simpatia generale, ei si trovarono
all'incontro isolati frammezzo agli antichi loro amici, videro sul
volto di questi non dubbi segni di diffidenza, e dovettero comprendere
che nulla ormai rimaneva loro, nemmeno la stima di coloro a pro de'
quali aveano posta a repentaglio ogni loro cosa. Tale si era il
destino di tutti gli inquisiti riposti in libertà. Omisi di far
avvertire che quasi tutti furono rimandati liberi per difetto di
pruove legali, cosicchè il loro processo rimaneva aperto, ed essi
potevano ad ogni istante essere tratti in carcere di bel nuovo.
I conti Confalonieri e Pallavicini, il barone Arese, Gaetano
Castillia, il Borsieri e il Tonelli furono condannati a morte per
crimine di alto tradimento. Se non che l'imperatore commutò poi la
pena di morte, riguardo al Confalonieri, in quella del carcere duro in
perpetuo; riguardo al Pallavicini, al Castillia e al Borsieri in
quella del carcere duro per venti anni; riguardo al Tonelli in quella
del carcere duro per dieci anni, e infine riguardo al barone Arese in
quella del carcere per tre anni.
Or ecco l'accaduto in Vienna relativamente alla condanna del
Confalonieri. Il padre e la moglie di lui, un vecchio cioè ed una
donna già affetta dalla crudele infermità che la trasse a morte pochi
anni di poi, recaronsi a Vienna per implorare a suo favore la grazia
imperiale. Durante il processo contro il marito, la contessa
Confalonieri erasi mostrata simile a quelle matrone dell'antica Roma,
di cui i poeti, anzichè gli storici, ci hanno tramandata la dignitosa
imagine. Giovane ancora e dotata di somma avvenenza, ella si chiuse
nel proprio palazzo, ne sbandì i piaceri e la compagnia de' suoi
coetanei, s'interdisse persino i meri e semplici sorrisi
dell'urbanità, per non più attendere ad altro che alle cose del marito
e ai mezzi di salvarlo. Un sì nobile dolore avea toccato persino i
cuori dei primari ufficiali austriaci, o almen di quelli che non erano
stati corrotti dall'abito dell'ipocrisia. Giunse a Vienna, preceduta
da una gran riputazione e munita delle più instanti commendatizie pei
membri più autorevoli del gabinetto. Uno dei quali, proponendosi
veramente di giovarle, avvertilla come un corriere stesse pronto a
partire alla vôlta di Milano onde recarvi l'ordine di giustiziare il
conte; ed anzi (ma io non so bene se fosse l'istesso od un altro de'
suoi colleghi) le fu in aiuto per trattenere con arte quel corriere,
quell'istessa mattina in cui ella e lo suocero dovevano essere ammessi
ad udienza dall'imperatore.
Francesco I imperatore era d'aspetto così pacato, che sembrava
impassibile, e l'imperio che aveva di sè stesso facealo parere mite e
dolce. Egli è severo, diceano di lui i cortigiani, ma non iroso; e
s'ei punisce, sì il fa per giustizia, e non per passione. La presenza
del vecchio padre del Confalonieri turbò tuttavia quella serenità.
Gettatoglisi dinanzi ginocchione, il vecchio chiedeagli grazia:
esponeva le seduzioni a cui era stato esposto il figliuolo, rammentava
i servigi da lui in altri tempi prestati, la devozione da lui e dalla
sua famiglia sempre nutrita pei discendenti di Maria Teresa. Parlò
alcun tempo, con favella interrotta da' singhiozzi e dalle lagrime,
cui asciugava per tornare a supplicare. L'imperatore taceva, ma l'ira
che bollivagli in petto parea viepiù gonfiarlo. Proruppe alla fine.
Alzatosi, e, deposto repentinamente il sussiego dignitoso e l'usata
dissimulazione, si fece presso al vecchio infelice, il quale, sempre
inginocchioni, chinava il capo e tenea giunte le mani; gli si chinò
all'orecchio e alzando le braccia, come se, suo malgrado, avesse a
percuoterlo, dissegli con amaro sorriso e con voce chioccia, ma forte:
«Conte Confalonieri, conte Confalonieri, date retta a queste parole: a
quest'ora voi non avete più figli».
Pronta fu la contessa a sorreggere il vecchio suocero, che era stato
come colpito da fulmine all'udire quelle parole. E, compressi gli
affetti ond'era agitata, ripigliò ella le preghiere, cui l'imperatore,
pentito forse dell'impeto a cui erasi lasciato andare, diede ascolto
finalmente. Parve egli commosso, esitò e finì per promettere di
spedire _all'indomani_ lettere di grazia. Per _l'indomani_ ei promise!
e il corriere latore del comando di morte stava aspettando, trattenuto
unicamente dal protettore della contessa! Raccapricciò la povera
donna, perocchè rammentava un episodio dell'antica dominazione
austriaca in Lombardia, il fatto cioè di un condannato a morte (era un
conte di cui non ricordo il nome), il quale era stato giustiziato
un'ora prima che giugnesse l'ordine di grazia. Mostrossi tuttavia
lietissima della promessa imperiale, e all'uscir dalla reggia corse
dall'amico che avea trattenuto il corriere. Lo zelo di quell'amico non
s'intiepidì, chè anzi ei fece ogni sua possa onde ottenere che le
lettere di commutazione di pena fossero spedite pria del comando di
morte; e la contessa Confalonieri, impaziente d'ogni ritardo al
giugnere nella città ove la scure pendea sul collo del marito, si pose
in viaggio incontanente con lo suocero alla vôlta di Milano, tremante
dalla paura che la tremenda sentenza non venisse eseguita. Dio nol
volle. Confalonieri e gli amici suoi viveano, ma destinati a tal vita
che allora teneasi quasi peggio che morte.
Evvi legge che comanda l'esposizione pubblica di tutti i condannati a
pena del carcere per cinque anni o per tempo più lungo. Io ben ricordo
tuttora il giorno destinato all'iniquo spettacolo. I cittadini onesti
ed illuminati eransi chiusi in casa, sfuggendo checchè potea loro
rammemorare che valentuomini doveano essere in quel giorno trattati a
guisa di malfattori, pel loro troppo amore alla propria patria. Il
popolo però avea subito l'influenza della doppiezza austriaca. Aveva
udito leggere nei templi l'editto contro i _carbonari_; e avea sentito
ripetere tante volte che i liberali macchinavano contro la vita dei
poveri, contro la quiete dello Stato e la pubblica felicità che ne
deriva, che avea finito per crederlo. Gl'infelici condannati
soffrirono certamente di più al veder lo spettacolo di quel popolo
traviato, che non soffrissero poi nel subire le umiliazioni cui
vollesi altrove assoggettarli. Confalonieri, Andryane, Pallavicini,
Castillia, Borsieri e Tonelli, uscirono dal carcere col saio grigio
dei prigionieri indosso, e incatenati a coppia. Giunti dinanzi al
palazzo di giustizia, salirono sur un palco od armadio di legno, che
serve solitamente per queste esposizioni; e di colà udirono leggere la
loro sentenza, e subirono gli sguardi insultanti e il mormorare
espressivo della plebaglia.
Dopo essere colà rimasti per più d'un'ora, vennero tratti di nuovo
nella guisa stessa in carcere, ove passarono ancora alcuni giorni pria
di partire alla vôlta dello Spielberg. Invano i loro congiunti
arrecaron per essi quei materiali conforti che non sono interdetti nè
ai ladri nè agli assassini, i quali sieno in grado di procacciarseli.
Volle l'imperatore che i condannati politici avessero a soffrire di
più che i galeotti. Ad un pittore amico della casa Castillia, il quale
seppe che a Gaetano Castillia era concesso di recare con seco un libro
di orazioni, venne in mente di delineare sur un foglio di quel libro i
ritratti della sorella e del vecchio genitore del prigioniero; ma
essendosi i custodi addati che quest'ultimo tenea per un lungo tempo
il libro aperto all'istesso luogo senza voltare la pagina, vollero
vedere che cosa ci fosse dentro, o il libro fu incontanente
confiscato.
Alla fine il tristo convoglio si avviò; e i condannati, scorrendo
quelle vie sì piene per loro di grate memorie, quelle campagne che
avevano sì spesso percorse e alcune delle quali loro appartenevano,
disperarono certamente di rivederle un'altra volta. Dissero un lungo
ed eterno addio all'incomparabile verzura de' nostri prati, al placido
azzurro del nostro cielo, alla splendida luce, e ai caldi raggi del
nostro sole. Abbandonavano la patria e avevano perduta la libertà; si
può egli dare maggiore sventura?
«La buona compagnia che l'uom francheggia
»Sotto l'usbergo del sentirsi pura»
non veniva loro meno certamente. Io però non saprei dire se l'animo
mio sia più fiacco di quello degli altri uomini, o se siamo tutti
soggetti alle istesse debolezze; ma, in quanto a me, confesso che
difficilmente potrei serbare ferma ed intatta la stima di me medesimo,
a dispetto del biasimo universale. Trattisi un uomo virtuoso come si
tratta un malfattore; gli si dimostri disprezzo, avversione,
commiserazione all'uopo; sia egli esortato a pentirsi; non gli si
lasci udire giammai la verità; sia un tale supplizio per un lungo
tempo prolungato, e vedrassi che costui finirà per dubitare di sè
stesso. Fra' condannati di quei tempi, ebbevene forse taluno per cui
un tale tormento s'aggiunse agli altri, assai meno fieri di questo. Il
contegno della popolazione milanese in tutto il tempo dell'esposizione
pubblica dei condannati politici fu tale invero dal far entrare quel
dubbio cocente negli animi timorati. Il difetto di simpatia o, per
meglio dire, l'indifferenza che i condannati videro sui volti nel loro
passaggio, ne esacerbò certamente l'angoscia. Un grand'amore di patria
richiedesi per esporsi a siffatta ventura; e la storia di queste
splendide annegazioni è il più valido argomento che si possa addurre
per ismentir formalmente le parole di tutti coloro che ritraggono
l'Italia come un mucchio di rovine abitate da una schiatta tralignata.
Poichè ho fatto cenno dell'indifferenza delle popolazioni lombarde
inverso a quei condannati, mi tengo in debito di rettificare la
esposizione di un fatto, il quale, narrato da un testimonio di buona
fede, è stato cionnonpertanto falsamente e calunniosamente
interpretato, per modo che una città se ne tenne offesa tutta intiera.
L'Andryane lagnossi delle fischiate e delle vociferazioni con cui i
condannati vennero accolti al loro passaggio in Verona: ed ei non è
uomo che possa cadere in sospetto d'aver alterato scientemente i
fatti; perocchè, chiuso com'era in una carrozza, all'udir le fischiate
al di fuori, dovette credere che quegl'insulti erano scagliati contro
di lui e de' soci. Ma pure altrimenti è spiegata la cosa dai Veronesi.
Un ufficiale superiore d'un reggimento del presidio di Verona, temendo
certamente di veder prorompere il popolo a qualche dimostrazione di
affetto, era uscito dalla città alla testa de' suoi soldati per movere
incontro al convoglio dei condannati e scortarlo fino alle carceri
della città. Il comandante di Verona avvisò, per lo contrario, che
quel provvedimento avesse a far prorompere più facilmente quei
sentimenti che importava comprimere, e mandò frettolosamente al detto
ufficiale superiore l'ordine di tornare in città e di non far che la
cosa dêsse nell'occhio al pubblico. Non pervenne quest'ordine se non
dopochè l'ufficiale suddetto avea già incontrato il convoglio, e
nell'atto che disponeva i soldati a scortarlo. Ubbidì egli, ma per
ricattarsi della contrarietà, e fare un atto di autorità nel mentre
stesso che venivagli ingiunto un atto di sommessione, ordinò che
venisser calate le gelosie delle carrozze in cui eran chiusi i
prigionieri. Il popolo, affollato attorno a quelle carrozze e bramoso
di conoscere le nobili vittime, proruppe allora in quelle
vociferazioni e fischiate, che i prigionieri tennero per fatte a sè
stessi, mentre in realtà andavano a ferire l'autorità militare per la
sua premura d'impedire ogni comunicazione fra il popolo stesso e i
prigionieri. Duolmi invero che una tale spiegazione non sia stata data
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