Studi intorno alla storia della Lombardia - 05

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immoti, quando il conte Verri, accorrendo per l'ultima volta presso i
colleghi, disse loro, non aver essi più di due minuti per deliberare,
dopo del che tutto sarebbe perduto. Parecchi ufficiali della guardia
civica, fra' quali trovavasi il capo di battaglione Pietro Ballabio,
si precipitarono in quella nell'aula, pallidi e spaventati. Il conte
Benigno Bossi, altro dei capi della fazione dei sedicenti Italici
puri, esclamò doversi promettere al popolo il richiamo dei deputati e
la convocazione dei collegi elettorali; altri a lui si unirono per
indurre i senatori a questa sì grave concessione. Allora il
presidente, ben s'avvedendo che a lui sarebbe data la colpa se
avveniva una carnificina, scrisse di suo proprio moto e senza
consultare alcuno de' suoi confratelli, queste parole sur un pezzo di
carta: «Il senato richiama i deputati e convoca i collegi». Ma questa
carta, recata subito al popolo, non fu accolta a quel modo che dovea
aspettarsi il conte Veneri. Temevasi che, attutato il tumulto, il
senato non venisse ad altra deliberazione che avesse per effetto di
annullare la prima. Le grida continuarono, e il conte Bossi ricomparve
nell'aula significando a' senatori come il popolo non acconsentisse a
ritirarsi se non era anzi tutto disciolta la seduta. Fu forza
sottomettersi di nuovo, e un altro scritto uscì dalle mani del
presidente il quale diceva. «La deputazione è richiamata, i collegi
convocati, e la seduta è sciolta».
Ma dopo che il senato ebbe in tal guisa sottoscritta la sua propria
sentenza; dopo che quel corpo, autorevolissimo per le qualità de' suoi
membri, e vero consesso nazionale, e conservatore naturale delle
pubbliche libertà, fu per così dire scomparso dinanzi all'ira sciocca
ed alle false prevenzioni d'una plebaglia demente, questa plebaglia,
non che chiamarsi paga, ricusò di ritirarsi. Furono, all'incontro, i
senatori violentemente detrusi dai loro seggi; e dovettero, inseguiti
(alcuni almeno di loro) dagli schiamazzi e dalle invettive della
moltitudine, traversarne lentamente le file, e ritirarsi mesti e
confusi nelle loro case. Il popolo poi irruppe nell'aula ond'erano
usciti i senatori, e in pochi istanti riempiè tutto quanto il palazzo.
Ebbe allora principio il saccheggio, nel quale concorrendo l'odio
degli uni con la cupidigia degli altri, tutti gl'imperiali emblemi, i
mobili, le tende e perfino i vetri delle imposte furono o rotti o
rubati. Corse voce allora, e fu replicata anche da poi, che il conte
Confalonieri strappò di sua mano dal muro un ritratto dell'imperatore,
e dopo averlo trapassato da parte a parte col suo ombrello, gettollo
dalla finestra. Egli ha acremente impugnato quest'accusa, la quale non
sembra tuttavia grave a trafatto. Il conte Confalonieri teneasi nelle
file dei nemici dell'imperatore e del vicerè, e questa nimistà gli fu
guida in quel tempo, influendo nelle sue opinioni. L'azione
attribuitagli d'avere strappato e lacerato il ritratto dell'imperatore
sarebbe stata senza dubbio screanzata; ma non era tale, al postutto,
da far torto o danno ad alcuno; e ognuno sa che l'urbanità delle
civili brigate non è la regola a cui i rivoluzionari sono tenuti
d'attenersi sulla piazza pubblica.
I senatori eransi cionnonpertanto ritirati nelle proprie case senza
impedimento; nè goccia di sangue era stata sparsa. Il popolo non era
trascorso a sufficienza; e certi membri dei diversi partiti eransi
indettati per provocare, come necessaria, una seria sommossa. Furono
udite alcune voci, che proferivano un nome odiato dal popolo, perchè
d'uomo riguardato generalmente come il rappresentante del vessatorio
sistema delle finanze imperiali; ed era il ministro delle finanze,
conte Prina. Nel concetto popolare questo ministro passava per ricco
sfondato, e il sacco della sua casa credeasi dover fruttare almen
quanto l'escavazione d'una miniera di diamanti. Non eravi forse uomo
del popolo, il quale nel pagare le eccessive imposte che
l'opprimevano, non ne desse al ministro istesso tutta la colpa. Ei
passava per uomo che si studiasse di scoprire ogni giorno un qualche
nuovo compenso per aggravar la miseria del popolo; e si supponea che,
cessando egli di esistere, sarebbero tosto a terra le imposte. Così
ragionava il popolo, e chi fece udire pel primo alla moltitudine
accalcata nel palazzo del senato, il nome del Prina, ben sapea
d'aprire con ciò un ampio aringo al furore ed all'avidità popolare.
Il palazzo senatorio, e i luoghi circonvicini furono ben presto
deserti. La moltitudine avviossi rapida verso il palazzo del Marino, e
s'ingrossò, via facendo, di tutti quelli ch'eransi riserbati per
l'ultima scena. La moltitudine mal custodisce il segreto, e il grido
della trama ordita contro il ministro era giunto e a lui e a' suoi
congiunti ed amici. La mattina stessa del 20 d'aprile un congiunto del
Prina l'avea scongiurato di cansarsi dai pericoli che lo minacciavano,
e di lasciarsi condurre in una carrozza fino a Pavia, ove egli avrebbe
potuto agevolmente rimanersi celato o passare in uno Stato straniero.
Ributtò il Prina ostinatamente le instanze ed offerte del suo
congiunto. «Perchè mai», diceva egli, l'ira del popolo dovrà volgersi
contro di me piuttosto che contro gli altri membri del governo? E
altronde che è mai l'ira del popolo milanese, che è il più bonaccio
del mondo? Poche parole basteranno ad acchetarlo, e se non bastassero,
la città è ella priva di forza armata? un drappello di granatieri
passeggerà coll'arme al braccio dinanzi alla mia casa, e ognuno
tornerassene a casa sua».
Pensava inoltre il conte Prina che in siffatte congiunture i membri
del governo non doveano abbandonare il loro posto, e domandava agli
astanti che mai sarebbe dello Stato se le minacce popolari e i privati
timori potessero giustificare la fuga degli uomini cui esso era
affidato. E avea certamente ragione; perocchè non sapea che la sua
perdita era stata previamente giurata, non già dal popolo di Milano,
ma da coloro che si celavano dietro di esso; e che l'istessa sua
perdita doveva essere il segnale della caduta definitiva del governo,
come pure della totale rovina dell'independenza italiana. Stavasi egli
pertanto tranquillamente occupato nel suo gabinetto allorchè il sordo
mormorío della moltitudine che ringhiosa appressavasi lo sorprese,
senza turbarlo tuttavia; ma raddoppiatosi repentinamente il rumore, e
mutato, per così dire, di carattere, alcuni domestici accorsero
ansanti e gli gridarono, traversando in fretta le stanze per cercare
un uscita, che le porte del palazzo erano state atterrate, e che la
plebaglia saliva le scale. Colpito allora dall'inaspettato avviso, nè
più potendo dissimularsi il pericolo che gli sovrastava, tentò egli di
nascondersi sotto i tetti del palazzo, donde sperava poter passare in
una casa vicina. Egli era altronde convinto pur sempre, che solo
abbisognavagli guadagnar tempo, e che la forza armata non potea
tardare gran fatto ad accorrere sul luogo del tumulto. Il suo
nascondiglio fu bentosto scoperto. Vedendosi allora in balía d'un
popolo furibondo, il Prina sforzossi di dire alcune parole, chiedendo
che gli esponessero i loro gravami e si tenessero certi della sua
premura nel farvi ragione; ma niuno diedegli retta. Lo gettarono a
terra, lo trascinarono presso una finestra che dava sulla strada, e lo
gettarono a capo in giù a quelli che lo aspettavan di fuori, ponendo
cura tuttavia di non finirlo sul colpo.
La scena che tenne dietro è una di quelle che lasciano un'indelebile
traccia nella storia della nazione che se n'è fatta colpevole. Il
generale di divisione barone Pein fu il solo che, animosamente
scagliatosi frammezzo a quella frenetica calca, scongiurolla di non
bruttarsi d'un inutile delitto e di lasciare la vita al ministro. Non
solo non gli si diè retta, ma rivoltosi per un istante contro di lui
il furore popolare, gli furono lacerati o strappati gli abiti di
dosso, e solo a grave stento ei potè scampar dal pericolo. Ho detto
che le truppe erano chiuse ne' loro quartieri con ordine di non
uscirne. Il generale Pino passeggiò per più ore col conte Luigi Porro
poco stante dal luogo in cui commetteasi il più feroce degli
assassinii. Ei disse alcune parole alla moltitudine, che, secondo gli
uni, tendevano ad inanimirla, e, per quanto disse egli stesso, non
erano, all'incontro, che rimostranze e consigli pacifici. Le vie per
le quali il Prina fu strascinato erano gremite d'uomini in buon
assetto, che si riparavano dalla pioggia con ombrelli di seta. Ma
niuno di costoro fecesi innanzi nè a fine di ammansar con parole il
furor popolare, nè a fine di strappargli di mano a forza la vittima.
Affranto dalla caduta e dai colpi che gli fioccavano addosso da ogni
parte, il Prina giacea steso a terra nella via del Marino, dinanzi al
suo proprio palazzo. Un vinaio, la cui casa sorgea lì presso,
cogliendo un momento in cui la moltitudine parea titubante intorno a
che avesse a farsi di quel corpo immobile, gli si avventò sopra, sel
pigliò in braccio, corse a casa sua, entrovvi, chiuse la porta e la
sbarrò; e lieto poscia di questo primo successo, portò il ministro
nella sua cantina, ove sperava poterlo nascondere. Ma l'istessa azione
di quell'onesto avea fatto ridesta dalla passaggera inerzia
l'addensata moltitudine; credette essa avere perduta la sua preda, ed
agognò subito un'altra vittima che ne tenesse il luogo; è anzi
verosimile che non sarebbesi più appagata d'una sola. Scagliarono una
grandine di sassi contro la casa del vinaio, ne ruppero le imposte; e
taluno propose di appiccarvi il fuoco, acciò nessuno di quelli che vi
si erano rinchiusi potesse scampare. Udiva il vinaio queste minacce, e
non erane atterrito; ma il ministro, al quale pochi istanti di riposo
aveano ridonato un po' di forza, comprese non esservi più scampo per
sè, ed anzi aver egli a cagionare la perdita di chi avea tentato di
salvarlo, se rimanea quivi. Alzossi pertanto, e trascinatosi a stento
per la scala fino alla porta di strada, l'aperse e presentossi di
nuovo alla moltitudine, dicendo: «Sfogate sopra di me l'ira vostra, e
almeno ch'io ne sia la sola vittima». Volle pure pregare, ma
l'inferocita impaziente moltitudine non gliene diede tempo;
avventoglisi addosso con quell'impeto con cui il fanciullo afferra il
trastullo da lungo tempo bramato, e sopra di esso intraprese le più
orribili esperienze, come se avesse voluto conoscere qual somma di
patimenti possa l'uomo durare senza morire, e libare a centellini il
calice della vendetta. Il conte Prina fu strascinato vivo per le vie
di Milano per ben quattr'ore, coperto di fango e d'oltraggi, battuto,
spinto, punzecchiato dagli spuntoni degli ombrelli. Finchè ebbe voce,
non cessò di proferire tratto tratto la sacra parola di misericordia,
e finchè ebbe facoltà di muover le membra, sforzossi di tenere giunte
le mani. Da taluno che in lui s'abbattè quand'esso avea già perduto e
la voce e il moto, mi è stato detto ch'egli era allora sfigurato del
tutto, nè dava più altro segno di vita che alcuni soffocati singulti.
Cessò di vivere, non già che fosse mortalmente ferito, ma perchè evvi
un termine alle corporali torture, e le forze dell'uomo sono limitate.
Il suo cadavere fu recato nel palazzo del Broletto, e niuno dei tanti
che dalla curiosità, dall'astio, o dall'affetto furono tratti a
vederlo, potè ravvisarlo, tanto sfigurato era quel cadavere pei patiti
strapazzi. A mala pena serbava aspetto di umana creatura, eppure i
chirurghi chiamati a constatarne il decesso, dichiararono, niuna delle
ferite ond'egli era coperto essere stata tale da determinarne la
morte. Il soverchio dei patimenti e la disperazione l'aveano spento.
Tratto era il dado; tutte le fazioni opposte ai Francesi credeansi
averla vinta, ma in realtà gli Austriaci puri erano i soli vincitori.
Alla notizia della morte del ministro, le porte dei quartieri delle
truppe furono aperte, e le soldatesche si sparsero per la città onde
impedire novelli attentati. Urgentissimo era di fatti il bisogno del
braccio della forza armata, perciocchè la folla, inebriata da quel
primo sangue, proferiva di già altri nomi, e quello fra altri del duca
di Lodi, e formava parecchi sinistri disegni. Non appena fu essa però
edotta dell'appressarsi della truppa, che si disciolse, gettando grida
meno spaventose, ma non meno significative delle prime, e quello fra
altre: Viva il re Pino. Non si tralasciò di dire che, se la calca così
subitaneamente si disciolse alla notizia dell'arrivo dei soldati, ciò
avvenne perchè la sua sete di vendetta era saziata, e che più
difficile cómpito sarebbe stato il ridurla al dovere quando il Prina
tuttora vivea. Ma un fatterello atterra del tutto questa opinione.
Intanto che la moltitudine era tuttora inferocita contro la sua preda,
e che il palazzo delle finanze era saccheggiato e demolito, coloro che
stavano nella strada scorsero un pezzo di grondaia, che, distaccato
dal tetto, pendea sulla strada; parve loro che fosse un cannone, e
gridarono esservi nel palazzo artiglieria e doversi far fuoco sopra di
loro. Questo falso e ridicolo all'erta bastò pure a volgere in fuga un
grandissimo numero di quegli assassini e di quei saccomanni; ma
essendosi troppo presto riconosciuta la verità, gli uni e gli altri
incontanente si riposero all'opera.
Una parola dobbiam dire ancora del conte Prina. La plebaglia, che
spianò quasi affatto il palazzo di lui per la speranza di trovarvi
tesori nascosti, non vi trovò altro che la mobiglia ond'è fornita ogni
casa abitata. Quanto è al suo patrimonio, è cosa costante oramai che
egli non ne avea, e che la sua famiglia alla morte di lui nulla eredò.
Ora qual esser dovea il destino di Milano? Qual partito abbraccierebbe
il vicerè? Con qual occhio riguarderebbero le potenze alleate gli
eventi del 20 d'aprile?
I conti Luigi Porro e Giovanni Serbelloni recaronsi alla sera del 20
nel quartier militare detto di Santa Marta, e gridarono entrandovi che
le cose erano ite meglio di quel che potessesi ragionevolmente
sperare. Con ciò intendevano a dire, certamente, che il furor della
plebe erasi appagato d'una sola vittima. Pochi momenti dopo uscirono
da quel quartiere e dalla città, e trasferironsi al quartiere generale
austriaco per ragguagliare il maresciallo Bellegarde dei fatti
operati, e dei cambiamenti sopragiunti nella condizione della
contrada, e per invocare il possente patrocinio di lui.
Il partito sedicente italico puro brigavasi intanto della convocazione
dei collegi elettorali, e lusingavasi colla credenza che lo Stato
fosse omai posto in salvo; poichè la cosa stava per comporsi fra il
paese stesso, rappresentato dai collegi, e i Sovrani alleati,
solleciti e teneri della felicità di esso.
I Muratisti subivano in questo mentre una trasformazione. Già in
occasione della conclusione dell'armistizio tra il vicerè e il
maresciallo di Bellegarde, Murat avea tentato di appressarsi a Milano
per la parte di Piacenza; ma erane stato impedito dagli Austriaci, i
quali aveangli inoltre fatta minaccia, nel caso ch'egli proseguisse il
cammino, di rompere ogni alleanza con lui e di entrare dal canto loro
nel territorio milanese, come pure nel reame di Napoli. I progetti del
re di Napoli essendo con ciò sventati, il generale Pino, capo del
partito muratista, imaginava un piano novello, in cui la prima parte
doveva essere la sua. Le grida _Viva il re Pino_! mandate da una parte
della plebaglia il 20 aprile, non erano state proferite a caso, e il
generale Pino, che aveale probabilissimamente suggerite, erasene
tuttavia ringalluzzito e insuperbito; accadendo a lui ciò che accade
non di rado all'autore d'una novella composizione dramatica, di
sentirsi, cioè, commosso fino alle lagrime dai plausi pagati colla
propria moneta. Gli è certo, almeno, che il generale Pino passò la
notte del 20 venendo al 21 d'aprile nella speranza e nell'ansiosa
espettazione del più glorioso degli avvenimenti. Un tale, degnissimo
di fede, essendosi in quella notte recato da lui per essere edotto dei
provvedimenti fatti onde assicurare la pubblica tranquillità, trovollo
assiso dinanzi allo specchio, col capo tra le mani del parrucchiere,
che gli pettinava, arricciava e impolverava la chioma. Ei s'aspettava
probabilmente di essere chiamato dal popolo, nè volea presentarglisi
in un disordine naturalmente poco imponente. La quale coniettura mi
sembra avvalorata dalle parole che il generale Pino disse con lieto
piglio, e fregandosi le mani, a colui che veniva così per tempo a
visitarlo. _Che avverrà mai ora? E chi sa?_ soggiunse dopo un breve
silenzio. _Chi era egli, al postutto, il primo re? Un soldato
fortunato, e null'altro_. Ecco a qual punto trovavasi, il 20 d'aprile,
la fazione de' Muratisti.
Mi si conceda qui di ripetere, dopo tant'altre, una considerazione
triviale. Egli è più difficile assunto l'attutare l'ira popolare, che
non l'eccitarla. Tutti coloro che col massimo sforzo aveano preparati
i fatti del 20 d'aprile, erano paghi ormai dell'accaduto, e volevano
subitamente sostare sulla sdrucciolevole china delle rivoluzioni e
degli attentati. Il senato non esisteva più, perocchè non ardiva
congregarsi, ed era in sua vece convocata un'altra autorità. Il popolo
milanese l'aveva rotta irremissibilmente per un misfatto col governo
italo-francese. L'opera di distruzione era compiuta, e doveasi
sollecitamente riedificare alcun che sopra quelle recenti rovine.
Malagevole era l'impresa, anzi tutto, perchè le diverse fazioni
ch'eransi indettate per atterrare il governo esistente discordavano
essenzialmente fra di loro intorno al novello governo da instituirsi,
e poi, perchè la plebaglia, assaggiato che ebbe il sangue e il sacco,
non pareva disposta a sostare in sì bel cammino a piacimento di quei
medesimi che l'aveano da principio sguinzagliata. Ho accennato testè
la trasformazione subìta dalla fazione muratista, e l'ansiosa
espettazione in cui il generale Pino, capo di essa, avea passato la
notte del 20 venendo al 21. Le ore intanto erano scorse, e giunto il
giorno, il generale Pino aveva scorse in grande assisa le vie della
città, senza essere stato acclamato monarca. In queste congiunture,
non rimaneva al Pino altro partito da abbracciare che quello di unirsi
alla fazione degl'Italici sedicenti puri, a quella fazione che
riguardava i sovrani alleati come tanti protettori disinteressati, e
forse in segreto si lusingava colla speranza che alcuno de' membri
dell'aristocrazia milanese fosse chiamato dall'imperatore d'Austria
per salire sul trono d'Italia. Unendosi con questo partito, che
reggeva per ora la somma delle cose, il generale Pino ponevasi fra'
candidati alla corona d'Italia, fra' quali l'Austria dovea dare
sentenza. Erasi perciò operata la unione dei Muratisti e degl'Italici
sedicenti puri. Quanto è agli Austriaci puri ei se ne rimasero quieti;
chè dal 20 aprile in poi poterono tenersi sicuri della vittoria.
La mattina del 21 l'aspetto della città era cupo e terribile. Uomini
armati, collo sguardo torvo e il portamento altiero, scorrevano le
strade, biastemmiavano nomi fino allora riveriti, segnando le case dei
ricchi cittadini, proferendo minacce e facendosi animo a vicenda alle
vie di fatto. Le guardie daziarie avevano abbandonato il loro posto
alle porte della città, non valendo a difenderle contro la moltitudine
armata che accorreva dal contado per partecipare il sacco generale,
cui ognuno aspettavasi.
I due partiti momentaneamente riuniti, quello cioè dei Muratisti,
ond'era capo il generale Pino, e quello degl'Italici liberali o
Italici sedicenti puri, fra' quali era inscritto il podestà conte
Durini, provvidero in quel modo che parve loro acconcio al
ristabilimento dell'ordine e della quiete. Alla sera del 20 d'aprile
il conte Durini fece promulgare un bando in cui diceva al popolo: il
senato, propriamente parlando, non esistere più; essere convocati pel
giorno 22 i collegi elettorali; doversi nel seguente giorno riunire il
Consiglio comunale, e sedere permanentemente insino a tanto che le
congiunture lo richiedessero; avere il generale Pino assunto il
comando di tutte le forze allora esistenti nella città.
La mattina del 21, e mentre che la plebaglia furibonda stendeva tavole
di proscrizione, il Consiglio comunale elesse una reggenza
provvisoria, composta del generale Pino, dei conti Carlo Verri,
Giacomo Mellerio, Giberto Borromeo, Alberto Litta, Giorgio Giulini, e
del signor di Bazzetta: tutti i quali, tranne il generale Pino e il
conte Carlo Verri, erano Austriaci più o men puri.
Il generale Pino pubblicò poscia un suo bando od _ordine del giorno_
nel quale esortava il popolo a confidare in lui, e ad aspettare
pazientemente l'esito degli accordi che il novello governo stava per
fare con le Potenze alleate. Eccitavalo nel tempo stesso a dichiarirsi
intorno alla forma di governo cui preferisse, poichè, diceva, i
collegi elettorali sono convocati quali rappresentanti della nazione,
la quale dee, significando loro il voler suo, porli in grado di
uniformarvisi. Aggiugnea poscia alcune parole per giustificare il duca
di Lodi, più d'altri esposto all'ira del popolo, rovesciando ad un
tempo sopra altri senatori la colpa e il biasimo di cui tentava
sgravare il duca di Lodi. Il vicario generale capitolare unì la sua
voce a quelle del generale e del podestà, e ordinò pubbliche preci pel
ristabilimento della pace e dell'ordine. Appostaronsi truppe attorno
ai principali palazzi ed alle case in ispezieltà minacciate. Il
generale Pino accorreva dall'uno all'altro di quei corpi così
appostati, procurando d'inanimirli con le sue parole; ma la folla, che
il giorno innanzi avea mandate quelle grida ed acclamazioni ond'egli
erasi inebbriato, vedendoselo ora contro, l'oppresse di motti acerbi e
contumeliosi, e lo inseguì con oltraggioso schiamazzo. Anche i soldati
furono attaccati, e si videro più d'una volta costretti ad isgombrare
la piazza posta davanti al palazzo del vicerè, ed a nascondere in quel
palazzo i suoi cannoni.
Il corpo tutto dei mercanti stava intanto trepidante pel timore che la
città tutta da un istante all'altro venisse funestata dalle stragi e
dal sacco. Mentre che il Consiglio comunale e il generale Pino
chiamavano all'armi tutti i cittadini; questi, antivenendo la
chiamata, uscivano armati dalle case loro, si raccoglievano in
drappelli e scorreano le strade, e quelle a preferenza che conduceano
all'ampia dogana attinente all'Uffizio del Dazio-grande.
La plebaglia non parea contuttociò in verun modo intimorita da questi
apparecchi di difesa. Le truppe stanziali erano in poco numero; i
cittadini accorsi spontaneamente all'armi non erano assuefatti alle
pugne; cosicchè la plebaglia potea, mercè della prevalenza del numero
e dell'impeto, prevalere sugli uni e sugli altri. Una fortuita
circostanza mutò lo stato delle cose.
Fra i moschetti di cui i cittadini aveano potuto armarsi aveavene di
quelli rimasti fuor d'uso per un lungo tempo, e la cui baionetta era
come inchiodata dalla ruggine alla cima della canna. Erasi dato ordine
che le baionette fossero tolte via, ma uno dei drappelli di quei
volontari non poteva ubbidire per la narrata cagione. Comparve esso
pertanto frammezzo alla calca colle baionette in asta: la moltitudine
mostrossene indegnata e gridò: abbasso le baionette. Ma quel drappello
non poteva ubbidire al grido, come non avea potuto al comando;
epperciò, quasi non facesse caso del popolar desiderio, proseguì a
marciare; e vedendosi assalito a sassate, pose le baionette in resta,
ed inoltrandosi a passo concitato contro la plebe, fecela
indietreggiare disordinata. L'esempio dato da quel drappello fu tosto
imitato dall'altre schiere armate: la resistenza militare diventò di
repente più grave ed acre, e gli assembramenti popolari si
disciolsero.
Ma non appena dileguaronsi i timori cagionati dalla perseveranza del
tumultuar della plebe, che gli autori o promotori dei fatti del 17 e
del 20 d'aprile, si riposero all'opera e mossero con passo sicuro
verso lo stabilimento d'un novello ordine di cose. Il Consiglio
comunale avea convocato i collegi elettorali, i quali, instituiti da
prima unicamente per proporre al governo i candidati a certe cariche
determinate, si trovarono trasformati subitamente in depositari della
sovrana potestà. Assembratisi il giorno 22, benchè in numero
insufficiente, confermarono la novella provvisionale Reggenza,
riserbandovisi di aggiugnervi altri membri appartenenti ai
dipartimenti non ancora invasi dalle truppe alleate. E non solo
confermarono nel comando di tutte le forze dello Stato il generale
Pino, ma disciolsero tutti i pubblici ufficiali lombardi, sia civili
che militari, dal giuramento di fedeltà inverso al governo del vicerè,
loro ingiungendo di prestare alla reggenza un altro giuramento giusta
la formola da essa già compilata. La deputazione mandata a Parigi dal
senato fu dichiarata, da questi effimeri despoti, richiamata da ogni
ufficio, e, quel che più montava, l'istesso senato fu dichiarato
abolito. I captivi per reati d'opinione, di coscrizione, di frodo
delle tasse furono liberati, e si bandì l'amnistia pei disertori, pei
contumaci o refrattari ed altri. Cosiffatti decreti sono, a parer mio,
piucchè sufficienti per dimostrare irrefragabilmente come i collegi
elettorali erano allora in uno stato di mente che ritraeva della
pazzia; ma ove il lettore, proclive all'indulgenza, non volesse
attribuire quella farraggine di decreti stanziati in sull'orlo, per
così dire, del precipizio, ad altro che a soverchio d'impreveggenza,
io aggiugnerò ancora ai già riferiti particolari, la risoluzione che
nel giorno 22 precedette la chiusura della seduta dei collegi
elettorali. Ordinavasi per essa che i Sovrani o i ministri delle
grandi Potenze, i comandanti in capo delle truppe degli Alleati, e
quelli dell'esercito italiano venissero immantinenti ragguagliati dei
provvedimenti dati dai collegi elettorali, e fra altre cose, della
nomina del generale Pino; aggiugnendovisi qual coronide, che si avesse
a compilare un indirizzo per richiedere le Potenze Alleate di
concorrere a stabilire la felicità dell'Italia. In tal modo un corpo
illegalmente convocato, abusante le facoltà conferitegli dalla legge,
un corpo assumentesi in proprio e senza veruna legale autorizzazione
la parte di sovrano, un corpo, infine, a trafatto rivoluzionario e
privo d'ogni appoggio, si dava, pieno di folle fidanza, in balía di
coloro che ambivano il suo posto, e si lusingava pazzamente con la
speranza di essere sorretto da loro! Inutil cosa è ormai il mostrare
la sciocchezza di quei disegni; che furono dal fatto spietatamente
atterrati.
I collegi elettorali e i loro partigiani avevano cionnonpertanto
parecchi giorni ancora di rispitto, duranti i quali potevano
impunemente e senza ostacoli far la parte di sovrani. La seduta del 23
aprile ebbe principio con la nomina del consigliere di Stato Lodovico
Giovio a presidente d'essi collegi, dopo del che il presidente novello
esortò i collegi a meglio esprimere le loro domande alle potenze
alleate, chiedendo loro, esempigrazia, _instituzioni liberali e un
capo independente, il quale, ignoto a tutti ancora per alcuni istanti,
potesse tuttavia fin d'ora accogliere nel suo cuore i nostri voti e
ricevere le nostre benedizioni_.
Piacque il consiglio ai collegi, i quali, senza pure demandare, come
porta l'usanza delle assemblee deliberanti, la cosa alla disamina di
una commissione, furono solleciti di compilare, nella seduta medesima,
il futuro statuto italiano.
Mi saprà grado per avventura il lettore del divisamento di cansargli
la fatica di leggere il minuto ragguaglio delle operazioni dei
collegi, e crederassi istruito sufficientemente con la cognizione dei
capitoli contenenti le domande formali dei collegi elettorali alle
Potenze Alleate. Gli è ben inteso che i collegi parlavano in nome
della nazione italiana, e domandavano per essa quanto seguita:
Art. 1.° L'independenza assoluta del novello Stato italiano destinato
a tenere il luogo dell'antico regno d'Italia, sia ch'esso serbi la
stessa denominazione, sia che assuma quella che sarà preferita dalle
PP. AA.
Art. 2.° La maggiore possibile estensione del novello Stato, ma però
tale che possa conciliarsi con gl'interessi e le vedute delle PP. e
col novello equilibrio d'Europa.
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