Studi intorno alla storia della Lombardia - 04

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Dandolo, si stanziò che la commissione comporrebbesi di sette membri,
dei quali ecco i nomi: i conti Dandolo, Guicciardi e Verri, il
marchese Castiglioni, e i signori Costabili, Cavriani e Bologna. Non
uno di quelli che avevano propugnata la proposta di un comitato
segreto, o anche soltanto il messaggio del duca di Lodi, venne eletto
membro di questa commissione, la quale fu tosto dal presidente Veneri
invitata a riferire al senato sul datole incarico alle otto
pomeridiane del giorno medesimo.
I conti Dandolo, Guicciardi e Verri andarono in nome della commissione
suddetta dal duca di Lodi per essere ragguagliati delle facoltà
ch'egli avea, e della gravità dei casi. Appagati intorno a questi due
punti, riunironsi coi loro colleghi, e la sera medesima presentarono,
giusta l'invito ricevuto, al senato il loro rapporto, nel quale
faceano le seguenti proposte: 1.° Il senato invierà tre deputati alle
grandi potenze per tributare loro il proprio omaggio, e supplicarle di
far cessare le ostilità, e di concedere all'Italia l'independenza. 2.°
Coglierà il senato con premura quest'occasione per offerire al
principe Eugenio la protesta della perfetta sua stima e del sincero
suo attaccamento.
Mal si potrebbero descrivere lo stupore e la costernazione degli
uomini assennati e non traviati dalla passione, allorchè udirono
cosiffatte proposte. Esclamarono che si doveva anzitutto o nominare il
principe sotto il cui governo l'Italia volea rimanere, oppur nulla
chiedere alle Potenze; perocchè il chieder loro la felicità,
l'independenza e la pace in termini generali era lo stesso che darsi
in balía, senza veruno schermo, al loro beneplacito. «Ecchè?» dicevano
essi con ardore e quasi con disperazione; «non vedete voi che dal
punto che il regno d'Italia rimane vacante, esso non esiste più? Non
vedete voi che, abbandonando il principe Eugenio, voi stessi vi date
in preda dei suoi nemici? Non istate già per recare proposte alle
Potenze Alleate, ma state per deporre a' loro piedi le vostre libertà,
la vostra independenza. E che cosa significano quelle proteste di
stima e di attaccamento che fate al principe Eugenio, allora appunto
che ricusate d'unirvi con lui? Possibile che non sentiate che queste
vane formole diventano, in siffatte congiunture, un insulto anzichè un
omaggio?»
Ragionarono a lungo, e bene, ma senza frutto veruno. Chi si oppose più
ostinatamente, e diciamolo pure, con le più triste ragioni,
all'instanze dei partigiani del vicerè, fu il conte Guicciardi. Chi
non ha conosciuto costui, e si farà a leggere ciò ch'egli disse in
quella occasione, potrà dirlo insensato. Quanto a me, che già tempo
fui in grado di apprezzare la meravigliosa sagacità e la somma
scaltrezza del conte Guicciardi, io debbo con mio rammarico fare di
lui un tutt'altro giudizio. Rideva senza dubbio in sè stesso il
Guicciardi dei meschini suoi raziocini; ma si avvedeva che, ad onta
della meschinità di essi, bastavano quei raziocini agli animi
prevenuti che lo ascoltavano; s'avvedeva che così impediva l'invio
della deputazione, o almeno faceva in modo ch'essa non altro recasse
alle potenze alleate che vane ciance; s'avvedeva che la potenza
franco-italica stava per crollare, che l'imperatore d'Austria
rientrerebbe trionfante nell'antiche sue province; e tutte queste cose
vedendo, faceva a queste belle speranze il sagrifizio della sua
riputazione di assennato parlatore.
Ecco adunque i motivi che il Guicciardi allegava, il 17 aprile del
1814, per opporsi alla proposta del duca di Lodi, del presidente
Veneri, ec. Sia il lettore avvertito che ho sott'occhio il processo
verbale della seduta del senato.
Diceva il Guicciardi: essersi i senatori astretti per giuramento ad
osservare gli statuti organici del reame; il 1.° e il 4.° di quegli
statuti porre nella linea di successione al trono un figliuolo
legittimo del re, prima di un figliuolo adottivo; doversi pertanto
offerire prima al re di Roma la corona d'Italia, tranne che fossegli
già stata conferita la corona di Francia. Parve che il conte Prina non
tenesse meritevole questa obbiezione d'una seria confutazione; ond'è
che, ammettendo senz'altro che i dritti del re di Roma erano più sacri
di quelli del principe Eugenio, propose di stendere un novello
capitolo in questi termini: _I deputati del senato recheranno a
cognizione dei sovrani alleati il dritto eventuale alla corona
italica, conferito dal 1.° e dal 4.° dei nostri statuti organici;
dritto che l'ammirazione e la riconoscenza della nazione hanno viepiù
consacrato_. Ma il conte Guicciardi non si dovea dar vinto sì presto.
Rispose che il dritto eventuale non poteva essere invocato insino a
tanto che il dritto positivo non avea cessato di esistere. Procedette
poscia a parlare della sconvenevolezza che i Lombardi proponessero ai
Sovrani alleati, ed in ispezieltà all'ambasciatore d'Austria, di
coronare il principe Eugenio, contro del quale aveano le tante volte
combattuto.
La proposta del duca di Lodi e quella della commissione essendo state
poste alle voci, vinse quest'ultima. I conti Moscati e Mengotti
ottennero solo che le proteste di rispetto e di attaccamento al
principe Eugenio sarebbero indirizzate dal senato ai Sovrani alleati,
e non al principe stesso, in guisa che potessero queste proteste
venire riguardate come un tacito e modesto voto. Invano il conte
Vaccari tentò di fare stanziare il capitolo proposto dal conte Prina
sul dritto eventuale del principe Eugenio, chè con poco stento il
conte Guicciardi ne ottenne la reiezione. Infine, i deputati eletti
dal senato furono appunto esso conte Guicciardi, il conte Castiglioni
e il conte Testi, ministro.
Troppo per avventura mi sono diffuso a narrare i particolari di quella
memorabile seduta del senato. I fatti di cui segue la descrizione
varranno a mia giustificazione; perciocchè, in vedendo lo sdegno
popolare prorompere bentosto contro la così detta bassa condescendenza
del senato al minimo volere del principe Eugenio, mi si perdonerà
d'avere per lo minuto descritto i sentimenti ostili da cui,
all'incontro, era mosso il senato verso il vicerè.
Intanto che questi dibattiti avvenivano nell'aula del senato, i
partiti del di fuori si agitavano, si credean prossimi al trionfo, e
disponevansi ad afferrarlo. Pareva giunto per tutti l'istante di
operare; chè l'imperatore Napoleone era caduto, e il vicerè non potea
cansarsi dal cader esso pure, se non col sostegno degl'Italiani.
Doveano dunque omai gl'Italiani accertar la caduta del vicerè,
negandogli il loro appoggio. Gli Austriaci mitigati si deliziavano nel
numerare anticipatamente i tanti benefizi di cui Casa d'Austria
avrebbeli senza dubbio ricolmati. I Muratisti s'aspettavano di momento
in momento l'arrivo della vanguardia del re di Napoli; i sedicenti
Italiani-puri argomentavansi d'indovinare qual sarebbe il principe a
cui le Potenze Alleate affiderebbero la cura della felicità della
Penisola; infine gli Austriaci-puri faceano più retto giudizio delle
cose, e si aspettavano il pieno conseguimento dei loro voti. Un solo
timore angustiava ancora questi animi, altronde agitati, e turbava la
loro letizia: ed era che l'esercito, come correane voce, fossesi
dichiarito pel vicerè. Or quest'esercito, italiano di nascita, non
meno che d'animo, non era privo d'alcun ascendente sul resto della
nazione. Arrogesi che il governo, costituito e perciò stesso dotato
d'una certa quale forza, era composto di ufficiali per la maggior
parte fedeli e intendenti. La diminuzione d'alcune imposte, lo
stanziamento di uno o due provvedimenti desiderati dal popolo, poteano
trarsi dietro una subitanea resipiscenza della pubblica opinione, e
far risorgere la devozione e l'affetto laddove testè non si udiva
altro che il sordo mormorio della malacontentezza e dell'odio. Ad ogni
patto era d'uopo impedire che avvenisse un tale cambiamento. Ed ecco
il come si governarono, per conseguire il loro intento, i nemici de'
Francesi.
Disciogliere violentemente il governo, far sì che la popolazione
milanese trascorresse a tali eccessi da rendere impossibile ogni sua
riconciliazione col principe Eugenio, tale esser doveva lo scopo degli
Austriaci puri, degli Austriaci mitigati, dei Muratisti e degl'Italici
sedicenti puri. Il senato era allora per la città di Milano, il corpo
veramente investito della potestà amministrativa e politica. Importava
adunque assai l'atterrarlo, e per quest'uopo si pose in opera due modi
diversi. Fu sparsa anzi tutto la voce che il senato avea stanziata la
perdita dello Stato, che i più formali impegni erano stati contratti
nella seduta del 17 aprile col principe Eugenio, che questi era stato
accertato nel modo più positivo come non si sarebbe accettato accordo
di sorta co' suoi nemici, nè sottoscritto alcun trattato che non
avesse per fondamento la ricognizione definitiva di lui qual re
d'Italia. Dipendere, diceasi, i destini dello Stato dal buon volere
delle Potenze Alleate; esser queste mosse verso gl'Italiani dai più
propizi sensi, ma opporsi la dignità loro a che esse venissero mai sur
un piede di eguaglianza a trattato con un soldato salito ad alto
grado, ch'era stato sempre loro nemico. Eppure in siffatta congiuntura
ostinarsi il senato ad esigere quell'unica cosa che le Potenze Alleate
non consentirebbero giammai a concedere; cioè la ricognizione del
principe Eugenio a re d'Italia; rigettar esso ogni altro compenso da
questo all'infuori; ributtare ostinatamente le benevole ed amichevoli
profferte delle Potenze, volere pertanto immerger di nuovo lo Stato
nei guai della guerra e in tutti quegli orrori che ne conseguitano;
esser pertanto il massimo flagello della patria e risoluto a
spietatamente sagrificarla.
Mentre che queste accuse andavano attorno di bocca in bocca, e
ridestavano nell'intimo de' cuori l'odio che vi si ammucchiava da
lungo tempo, i capi delle fazioni austriaca-mitigata ed italica-pura,
o italo-austriaca, preferendo apertamente le vie legali,
apparecchiavano una protesta contro il senato ne seguenti termini
concepita: «Dando retta alla pubblica voce, il senato nella sua seduta
del 16 corrente, seduta intorno alla quale nulla è trapelato al di
fuori, avrebbe discussato e deciso un affare della massima importanza
per il reame. Ammettendo che nelle presenti congiunture sia necessario
di appigliarsi a straordinari provvedimenti, i sottoscritti giudicano
cosa indispensabile il convocare, conformemente ai princìpi della
nostra costituzione, i collegi elettorali, nei quali soli è posta la
legittima rappresentanza nazionale». E a quest'atto erano apposte
meglio che cencinquanta firme, prime fra le quali eran quelle dei capi
dei varii partiti. Allato dei nomi dei conti Confalonieri e Porro, dei
Ciani, de' Verri, de' Bossi, de' Triulzi, ec., i più ragguardevoli
degl'Italici sedicenti puri, vedeansi i nomi dei conti Alfonso
Castiglioni, Giulio Ottolini e Antonio Greppi, austriaci puri; quello
del conte Giovanni Serbelloni, austriaco mitigato, e quello perfino
del barone Trecchi, partigiano, forse unico, dell'Inghilterra. Questa
petizione o protesta, come che voglia appellarsi, era indirizzata al
podestà di Milano, conte Durini, il quale, dopo averla sottoscritta
egli pure, la trasmise al presidente del senato, conte Veneri.
Siffatti compensi erano certamente fatti per privare il senato d'ogni
forza morale, e poteano anche aver per effetto lo scioglimento di quel
consesso. Ma ciò non bastava; era duopo, come ho detto testè, di far
trascorrere la popolazione talmente, che fosse poi impossibile il
rappattumarla col governo esistente. Or quando mai una popolazione la
rompe essa irremissibilmente con un governo? Ognun lo sa: egli è
quando commette un gran misfatto. Era adunque duopo che il popolo
milanese commettesse un misfatto contro alcuno de' primari ufficiali
dello Stato. E a ciò s'intesero di comune accordo certi membri dei
diversi partiti macchinanti contro il governo italo-francese.
Io sarò ora imperiosamente costretto a proferire nomi ben noti,
irrogando a parecchi di essi un severo biasimo. Ogni giorno vengono
meno alcuni degli uomini che furono oculari testimoni delle scene
tremende di quel tempo, e la maggior parte di loro si portano seco
nella tomba il segreto ch'ei possedevano, e cui la storia ha diritto
di conoscere. Il perchè, lasciato in disparte ogni riguardo di
persone, io mi affretto a raccogliere le mie ricordanze e quelle dei
miei contemporanei, a fine di apparecchiar materiali agli storici
futuri dell'Italia.
Il mese d'aprile dell'anno 1814 è certamente per molti de' Lombardi
argomento di angosciosa e amarissima ricordanza; e più d'uno di essi
tentò di poi di liberarsi da quell'angosciosa memoria, sagrificando
alla patria le sostanze, la quiete, la sicurezza e la libertà. Altri,
meno scrupolosi, furono cionnonpertanto puniti dal disdegnoso
abbandono di quegli stessi in pro dei quali ei si fecero traditori ed
assassini. I primi vogliono essere trattati con maggiore riguardo
degli altri; ma la verità dee essere conta sia riguardo agli uni, che
riguardo agli altri; e basterà avvertire, pria d'entrare in materia,
che gli uni s'ingannavano nel far giudizio delle cose, gli altri nel
far ragione degli effetti che queste cose doveano partorire per loro.
Il conte Gambarana, già promotore e indirizzatore della rivoluzione di
Pavia, ed altro de' capi della fazione austriaca pura, era il più
operoso e il più risoluto fra tutti i cospiratori. Trovò modo costui
d'indettarsi col generale Pino, capo della fazione muratista, e di
ficcarsi nella brigata liberale che tenea le sue congreghe in casa
della damigella Bianca Milesi, e in casa di madama Traversa, moglie
d'un avvocato nativo di San Nazzaro, terra della Lomellina.
Confalonieri, Porro, Bossi, Ciani, ec., faceano parte di quella
brigata, e se non si può facilmente supporre ch'ei rimanessero affatto
stranieri di quanto faceavisi, la cosa non è tuttavia impossibile,
poich'essi erano in quel mentre tutti intenti a far girare attorno la
surriferita protesta contro il senato, e nell'infausto giorno 20
aprile furono veduti aggirarsi, anzi nei dintorni del palazzo del
senato, che nel quartiere del Marino. Il conte Gambarana ben conoscea
la mite e quieta tempra del popolo milanese, e sapea benissimo che la
più fiera stizza ond'esso fosse capace, dovea sfogarsi in meri
gridori, e non reggerebbe giammai contro le lagrime e le
supplicazioni. È generale opinione ch'egli abbia conferito con
Traversa intorno a siffatta difficoltà. Questo avvocato, nativo,
siccome ho detto, della Lomellina, avea in sua gioventù accumulato
immensi averi, coltivando, come fittaiuolo, un gran podere del
Novarese, ed era pienamente edotto della tempra della popolazione di
quella provincia, del carattere, bisogni di essa, ec. Giusta la voce
pubblica, avrebbe il Traversa proposto al conte Gambarana di far
scendere dal Novarese a Milano un numero assai ragguardevole d'uomini
rozzi e risoluti, che, allettati in sulle prime dall'esca del lucro,
sarebbero in seguito trattenuti dalla passione del trambusto, dei
pericoli, e forse anco del sangue. Io non vo' già dire che il Traversa
conoscesse appieno tutti i divisi del conte Gambarana; e crederei
volontieri che li ignorasse, o pensasse almeno di non dar mano ad
altro che ad una sedizione all'un di presso innocente, a minacce, a
vociferazioni, e non già al più spaventevole assassinio. Nulla voglio
tuttavia tacere di quanto può spargere alcuna luce sopra il tristo
giorno 20 d'aprile, e perciò duolmi d'avere a soggiugnere che il
Traversa credeva avere particolare ragione di lagnarsi del ministro
delle finanze, il conte Prina, perocchè, essendo stato proposto per la
dignità senatoria, non potè ottenerla; mortificazione o smacco ch'egli
attribuì, fors'anco a torto, a male uffizio del ministro Prina.
Contadini della provincia di Novara e d'altre circonvicine province
giunsero successivamente, ma in gran numero, a Milano, nel giorno 19 e
nel mattino del 20 di aprile. L'incarico loro dato era quello di
uccidere un qualche gran personaggio, od anche parecchi, purchè ad
ogni modo spargessesi sangue, A ognuno di essi erano promesse sei lire
al giorno per tutto quel tempo che fossero assenti dalle case loro; ma
quegli che finì di uccidere il ministro Prina ricevette grossa somma
di danaro da parte, se non di propria mano, del conte Gambarana.
L'arrivo però di questa moltitudine di abitatori del contado, il
sinistro loro aspetto, le armi che sforzavansi di nascondere, e le
parole che loro uscivano di bocca, dovevano porre in trepidazione la
pubblica autorità. Il signor De Capitani, segretario generale del
ministro dell'interno, e fungente allora l'ufficio di ministro,
recossi in persona, la mattina del 20 d'aprile, al ministero della
guerra per chiedere quel numero d'uomini ond'eravi bisogno per
mantenere il buon ordine. Or come dovette egli meravigliarsi all'udire
che due corpi di soldatesche erano appunto partiti la notte precedente
alla vôlta di Sesto Calende, che il nemico, per quanto diceasi,
accennava volere sopraprendere! Ma crebbe bentosto il suo stupore
dietro la negativa datagli poi subito dal generale Bianchi d'Adda,
allora preposto provvisionalmente al ministero della guerra. «Le mie
istruzioni», così risposegli, balbettando, quel generale, «non mi
concedono di mettere le mie genti alla vostra disposizione;
indirizzatevi a tal fine ad un ufficiale superiore, per esempio, al
generale Pino». Replicava forte il De Capitani, che il generale Pino,
benchè ufficiale superiore, non avea comando in Milano, ned era
ministro della guerra, o faciente le veci del ministro, ma si trovava
in Milano senza corpo d'esercito e senza ufficio determinato. Non potè
ottenere altra risposta, e andossene convinto di non dover fare il
menomo fondamento sopra il concorso della forza armata.
Le parole del generale Bianchi d'Adda chiudevano un senso della più
alta gravità; poichè esprimevano il fatto che le truppe non erano più
sottomesse ai loro capi legittimi e regolari, ma solamente ad uno dei
capi della rivoluzione che stava per prorompere.
Che faceva egli allora il generale Pino, questo soldato salito in
alto, questo congiurato, già riguardato da' suoi eguali e da' suoi
superiori come loro capo, questo generale di secondo grado, che,
testimone della caduta dell'imperatore, presumeva di potere assidersi
nel seggio di lui? Egli era quel desso che avea fatto partire per a
Sesto Calende i due corpi da me menzionati; ma non parendogli
sufficiente questa precauzione, il mattino del giorno 20 facea
chiudere tutte le truppe nei loro quartieri. Il che è sì vero, che
essendo venuto fatto al signor Vercelloni di raccozzare quaranta o che
granatieri de' veliti e quarantotto dragoni a cavallo sotto il comando
del capitano Bosisio, cui condusse alla prefettura di polizia, che era
pochi passi stante dal luogo in cui accadevano gli orrendi fatti che
sto per descrivere, in quella appunto che questa poca soldatesca,
giusta gli ordini del prefetto di polizia Giacomo Villa, stava per
recarsi al luogo del tumulto, il colonnello Cima, aiutante di campo
del generale Pino, frettoloso accorrendo, ingiunse al capitano Bosisio
di ricondurre immantinenti i suoi soldati nel proprio quartiere, e di
tenerveli chiusi fino a nuovo ordine. Io debbo qui riferire un'altra
circostanza di fatto, toccante il generale Pino, che merita di essere
ricordata: ed è che appunto nel mattino del 20 di aprile questo
generale riscosse una somma di cinquantamila franchi, statagli da poco
conceduta a titolo di gratificazione dal vicerè.
Due catastrofi, funeste entrambe del pari alla independenza italiana,
segnalarono l'infausto giorno 20 d'aprile. Mi fo ora a descrivere la
prima in ordine di tempo, la quale fu pure la meno deplorabile.
I senatori eransi indettati di raunarsi di bel nuovo il 20 d'aprile,
sebbene i loro deputati, eletti nel dì 17, i conti Guicciardi e
Castiglioni¹, fossero già pervenuti a Mantova per ricevere i
passaporti e le credenziali dal vicerè, e insieme un salvocondotto del
maresciallo Bellegarde, onde imprendere poi il viaggio per a Parigi.
Benchè il tempo fosse piovoso, il che per lo consueto basta ad
attutare la turbolenza della plebaglia, poterono agevolmente i
senatori addarsi che l'accesso al palazzo era ingombro d'una
moltitudine stranamente composta di cere mal note, nella quale uomini
in assetto decente vedeansi frammisti ad altri che sembravano,
all'incontro, appartenere agl'infimi ordini della società. Avvertirono
certamente eziandio i senatori che il palazzo non era custodito giusta
il consueto, giacchè vi era di guardia un drappelletto di forse otto o
dieci reclute. Ma checchè volgessero in mente a tale proposito, le
loro riflessioni furono tosto interrotte dal mormorio che sorgeva in
quella moltitudine all'arrivo di quei senatori che la pubblica voce
indicava come spalleggiatori della proposta del duca di Lodi, e dalle
acclamazioni con le quali erano salutati i senatori noti per essersi
dichiariti contrari a quella proposta.
¹ Il conte Testi era rimasto a Milano per cagione di mala salute.
Riuniti nella solita aula delle consulte, e non punto intimiditi dal
romore che udivasi al di fuori, udirono i senatori la lettura del
processo verbale della seduta precedente, e l'approvarono: dopo del
che il presidente conte Veneri comunicò, non però ufficialmente, al
senato la protesta di cui qui sopra ho riportato i termini, e la
lettera d'invio del podestà Durini, che accompagnavala. Non appena fu
terminata questa lettura, che il capitano Marini, additto al comando
della piazza, chiese instantemente, in nome del corpo degli ufficiali
della guardia civica, di essere ammesso al periglioso onore di
custodire e difendere l'assemblea del senato. Ottenutane la venia,
concedutagli con fidanza e riconoscenza, lo stesso capitano Marini
accorse con una grossa mano di guardie nazionali, e discacciò
brutalmente i soldati stanziali che erano appostati alle porte stesse
dell'aula del senato.
Egli è omai costante che i capi del partito sedicente italico puro
passeggiavano in quell'ora all'intorno del palazzo del senato, e ad
alta voce ragionavano intorno alle domande contenute nella ridetta
protesta, cioè intorno al richiamo dei deputati ed alla convocazione
dei collegi elettorali. Il più ragguardevole di questi capi era senza
contrasto il conte Confalonieri, e fu egli appunto il più gravemente
accagionato degli eventi di quel tristo giorno. Credettesi egli stesso
in debito di pubblicare un opuscolo, per propria difesa. Ma noi diremo
che se è difficile l'indursi a dare retta a tutte le taccie
appostegli, non lo è meno il rassegnarsi ad ammettere per intiero la
sua propria apologia, aggiuntochè uomini degni di fede per ogni
rispetto manifestamente gli contradicono in parecchi punti. Egli fu
dipinto come l'istigatore di tutti i moti del 20 di aprile; ma sembra
che egli voglia insinuare non solo d'esserne stato straniero, ma anzi
d'averli intieramente ignorati, e d'essere stato spinto unicamente dal
caso o dalla curiosità nel palazzo del senato il giorno 20 d'aprile.
La prima ipotesi è troppo trista per non essere ammessa senza gravi
ragioni, che al postutto non esistono; giacchè non v'è pruova alcuna
che il conte Confalonieri abbia o provocato o diretto la sanguinosa
catastrofe con cui si chiuse quella giornata. Quanto è al credere,
com'egli dice, che la sola fatalità l'abbia condotto in quel giorno
per le vie di Milano, la è cosa quasi impossibile. La protesta contro
il senato era in gran parte opera sua, ed egli l'avea presentata qua e
là a ciascuno de' suoi amici acciò la sottoscrivessero. Ei vi
manifestava un invincibile mal fidanza verso il senato e i deputati da
esso inviati; ed anzi vi proponeva di surrogare al senato i collegi
elettorali, il che era lo stesso che atterrare il senato. Ben sapea
egli che la sua protesta doveva esser discussa e dibattuta dai
senatori; or crederemo noi ch'ei si trovasse a caso alla porta del
senato, dov'ei poteva agevolmente conoscere l'esito della protesta
medesima. Il popolo che attorniava il palazzo, e che poco poi lo
invase, domandava per l'appunto le cose enunziate nella protesta; e il
conte Confalonieri si fece poi ben tosto, come diremo, l'interprete
del popolo stesso presso il senato. Dovremo noi credere che la
protesta scritta e la protesta fatta con alte grida e col corredo di
minacce e d'ingiurie siensi trovate concordi d'incanto, e sempre a
caso? Chi potrà mettere in dubbio che queste popolari dimostrazioni
non fossero state predisposte dagli autori medesimi della protesta?
Io, per me, desidero di non trovar colpevole alcuno de' miei fratelli
di patria, e sono altronde pronto sempre ad ammettere che quelli
altresì le cui azioni meritano il più acerbo biasimo, non sieno stati
traviati se non dalla rettitudine medesima delle loro intenzioni. Ma
non potrei lasciarmi trarre più oltre; e laddove i fatti non sono
dubbi in verun modo, laddove le cagioni di questi fatti sono aperte,
io non posso, nè per compiacenza, nè per privati riguardi, tacere la
verità¹.
¹ Così, per quanto tocca la condotta del conte Confalonieri nel
giorno 20 aprile, io credo giustizia non imputare a lui
l'uccisione del ministro Prina. Ma solo coll'attribuirgli
un'eccessiva condescendenza potrebbesi assolverlo del pari da
ogni partecipazione alla sommossa ch'ebbe per iscopo ed obbietto
l'abolizione del Senato. Ventura è per lo storico, il quale non
senza grave rammarico condannerebbe il Confalonieri, che, mentre
il primo di quegli atti fu un misfatto, il secondo non sia stato
altro che un fallo ed un errore.
Il sostituire alla soldatesca stanziale la guardia civica nella difesa
di un luogo attaccato dal popolo, egli è un favorire al trionfo di
quest'ultimo. Non appena in fatti la guardia del palazzo senatorio fu
essa affidata ai soldati cittadini, che la calca, tenuta pocanzi in
rispetto da un drappello di truppa stanziale, passò arditamente
dinanzi alla guardia civica, irruppe negl'interni cortili e fin nel
vestibolo del palazzo. Il conte Confalonieri era in mezzo alla folla,
e la sua voce, naturalmente sonora, faceasi talmente sentire, che il
capitano Marini esortollo a recarsi a parlare al senato in nome del
popolo; al che rispose il Confalonieri, non aver lui carattere
ufficiale veruno che lo licenziasse a farsi organo del voto popolare.
Andava il tramestío crescendo al di fuori, e i senatori cominciavano a
mettersi in apprensione. I conti Verri, Massari e Felici uscirono
dall'aula, e recatisi in mezzo alla moltitudine, quella esortarono a
dichiarare recisamente il suo desiderio. Non ottennero in risposta che
grida confuse ed inarticolate, che davan suono di minaccia e
d'invettiva anzichè di proposta e di domanda. Rientrati nel luogo
delle consulte, ne uscirono un'altra, e poi di nuovo una terza volta,
e sempre infruttuosamente, insino a tanto che il conte Verri, avendo
ravvisato nella calca il conte Confalonieri, a lui difilato si volse,
pregandolo di fargli conoscere che cosa si volesse quell'agitata
moltitudine: al che il Confalonieri non si peritò di rispondere;
volersi dal popolo il richiamo dei deputati e la convocazione dei
collegi elettorali. Un ignoto pose in mano del conte Verri un
polizzino scritto, dicendogli lo leggesse ai colleghi; e questo
polizzino, che non fu letto pubblicamente, solo perchè non ebbevi il
tempo da ciò, era di carattere evidentemente contrafatto, e suonava
così: La Spagna e l'Alemagna hanno scosso il giogo francese; l'Italia
dee fare altretanto.
Avea la calca oltrepassato il vestibolo, salita la scala, e
affollavasi alla porta dell'aula delle consulte, e intanto la guardia
civica, non che respingerla, parea lasciarle a bella posta aperto
l'adito.
Erano di già entrati nell'aula delle consulte alcuni uomini d'alta
statura, di cera terribile, male in assetto, che proferivano solo
minacce e bestemmie, di quei tali insomma che vedonsi repentinamente
apparire nei giorni delle rivoluzioni per isparire in appresso quando
la quiete è ricondotta, e il cui concorso è riguardato come una
sciagura, forse inevitabile, dagli amici della libertà; e di già
s'appressavan costoro con curiosa premura ai vecchi senatori, fermi ed
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