Studi intorno alla storia della Lombardia - 09

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fa una in grazia delle congiunture è meglio che accorto, perchè si può
dir saggio.
Il giorno dopo l'incorporazione della Valtellina e delle contee di
Bormio e di Chiavenna nella Lombardia austriaca, che fu il 16 d'agosto
del 1815, un bando novello del maresciallo Bellegarde annunziava ai
Lombardi che, mossa dal sentimento di predilezione sempre mai
dimostrato a' suoi Stati d'Italia, S. M. Imperiale e Reale erasi
degnata di porre l'ultima mano all'adempimento delle benefiche sue
intenzioni, formando coi detti suoi Stati un regno Lombardo-Veneto.
L'atto della creazione di questo regno andava unito al bando. La
nomina di un vicerè, che facesse dimora per sei mesi dell'anno in
Milano e per altretanto tempo in Venezia, l'istituzione di una corte e
dei grandi ufficiali di essa, la conservazione dell'ordine della
Corona ferrea, l'obbligo imposto ad ogni re del regno Lombardo-Veneto
di cignersi il capo con la famosa corona dei re longobardi, la
divisione del reame in due governi, di cui Venezia e Milano dovevano
essere i capiluoghi, la suddivisione dei governi in più province,
delle province in distretti e di questi in comuni, e la promessa di un
pronto ordinamento del novello reame; tali erano le disposizioni
contenute nell'atto promulgato in Vienna il 7 agosto 1815 per la
creazione del Regno Lombardo-Veneto.
Alcunchè era in fatti pei Lombardi, che avevano perduto tutto, il
trovarsi di nuovo in possesso del loro nome e della loro qualità
d'Italiani. Fin qui, dal 12 di giugno dell'anno precedente in poi,
eransi chiamati austriaci, e la bella loro contrada veniva designata
in tutti gli atti solenni come una provincia dell'imperio austriaco,
senz'avere nemmeno un nome suo proprio. L'annunzio della creazione
d'un vicerè che avesse a risiedere in Italia poteva intendersi come
una promessa d'independenza di questa contrada, o almeno come un
obbligo implicito di appartare in certo qual modo il governo
lombardo-veneto dal gabinetto di Vienna, lasciando che quello dêsse
sesto alle sue proprie cose nel modo che piacessegli o poco meno.
In questo senso i partigiani dell'Austria faceano le viste d'intender
quell'atto, e in questo senso parimenti l'intendeano in Vienna alcuni
della stessa casa imperiale. Ond'è che l'arciduca Antonio, stato
dall'imperatore il 7 di marzo del 1816 innalzato alla dignità di
vicerè del Regno Lombardo-Veneto, umilmente espose a S. M. ch'ei
s'intendeva di esercitare in questo reame le facoltà istesse ch'erano
già state attribuite all'arciduca Ferdinando. Ma a questo modo non la
intendeva l'imperatore; il quale anzi proponevasi d'invigilar
l'amministrazione del suo novello reame più strettamente di quanto
erasi fatto da' suoi antenati quando la contrada era in grado di
semplice provincia del loro imperio. Dovè l'arciduca persuadersi come
non altro gli toccherebbe avere che il mero titolo di vicerè, e come,
nello Stato Lombardo-Veneto, quale voleasi dal fratello ch'esso fosse,
non vi era posto di mezzo tra il governatore e l'imperatore, che viene
a dire non dovervi esser posto per un vicerè. L'imperatore si avvide
dal canto suo di essersi ingannato nel proporsi di conferire al
fratello un simulacro soltanto di potestà; e con poco stento si arrese
alle instanze dell'arciduca, che lo supplicò di dare ad altri la
dignità ch'eragli stata esibita. Fu a lui pertanto surrogato
l'arciduca Ranieri, la scelta del quale corrispose pienamente alle
intenzioni dell'imperatore.
Dei primi anni dell'austriaca dominazione poco altro mi rimane a dire,
se non che, essere stata la Reggenza provvisionale disciolta il 1.º di
gennaio del 1816 per dare luogo ad un consiglio di governo, di cui fu
presidente il governatore conte Saurau, e che era composto di dieci
consiglieri, fra i quali il vicepresidente fu il conte Jacopo
Mellerio; non essere stato in alcuna guisa alleviate le imposte, nè
anche quando venne raffermata la pace; essere stato abolito l'antico
ufficio di polizia del dipartimento dell'Olona, e date le attribuzioni
di quello alla direzione generale di polizia di Milano; essere stati i
sudditi italiani di S. M. l'imperatore d'Austria dimoranti fuor dello
Stato, richiamati nello Stato medesimo, sotto pena, in caso di
contumacia, di essere puniti a' termini dei decreti dell'anno 1812;
agl'Italiani sudditi dell'Austria che militavano pel re di Napoli
essere stata comminata la morte civile e la confisca dei beni se non
si toglievano immantinenti da quegli stipendi; essere stata (per legge
del 26 agosto 1815, sottoscritta in nome della Reggenza dal suo
segretario Strigelli, e la quale tuttora è in vigore) promessa una
mercede di sei fiorini a qualunque persona non militare che arrestasse
un prigioniero di guerra fuggitivo, e il quale si tenesse nascosto o
errasse senza scorta. I termini con cui conchiudevasi quella legge
sono i seguenti: «La presente determinazione è _specialmente_
applicabile ai militari ed agli ufficiali civili delle nazioni
francese ed italiana, i quali, appartenendo in origine al reame di
Napoli, sono stati mandati sotto buona scorta militare nell'interno
della monarchia austriaca». Farò quivi notare che tutte le leggi
repressive di un qualche misfatto o delitto contengono la formale
ingiunzione ad ogni buon cittadino di denunziare il colpevole. I
medici e i chirurgi non sono già eccettuati da un tale avvilitivo
obbligo; chè anzi una legge del 9 di maggio de 1816 minaccia loro
un'aspra pena ove tardino più di ventiquattr'ore a ragguagliare i
maestrati delle ferite cui sono chiamati a medicare, oppur anche delle
malattie, accidenti, ec., che possono essere effetto di un qualche
delitto e in cognizione delle quali sono venuti per l'adempimento del
loro ufficio. Aggiugnerò inoltre che i dazi tra la Lombardia e l'altre
parti dell'impero austriaco non furono aboliti; il che privò la
contrada dell'unico e tenue vantaggio che avrebbe potuto curarle la
sua riunione a un grande Stato; che le prefetture, le sotto
prefetture, i tribunali e tutti i corpi amministrativi o giudiziari
componenti l'amministrazione franco-italica mano mano si cessarono; e
le circoscrizioni del territorio vennero ristabilite come a' tempi di
Maria Teresa. Ma a questo riguardo conviene dire che una tale
spartizione, del pari che l'ordinamento comunale antico e riposto in
vigore, erano certamente da preferirsi a quelli che l'imperatore
Napoleone aveva importati di Francia. Un novello codice civile fu
promulgato o per meglio dire, con regia patente del 28 settembre 1815,
fu esteso alla Lombardia il codice vigente nel resto della monarchia,
con questo però che non cominciasse ad aver vigore che dal 1.^o di
gennaio del 1816. I dritti matrimoniali vennero ordinati dal 1.^o di
luglio 1815 in poi con una patente del 20 aprile dell'anno medesimo.
Il codice dei delitti e delle gravi trasgressioni politiche,
promulgato il 9 di luglio del 1815, fu posto in vigore pel 1.^o di
novembre successivo. Venne regolarmente instituito l'ufficio di
censura della stampa, e i due giornali ch'erano allora pubblicati in
Milano furono bentosto soppressi per cessare ogni competenza con la
_Gazzetta di Milano_, giornale a cui dava aiuto il governo. I monachi
e frati d'ambi i sessi riebbero i loro monisteri e' loro antichi
privilegi; e i benefizi ecclesiastici tornarono ad essere una sorgente
inesauribile di agi ed anche di ricchezze pel clero.
Non rimanea più omai nello Stato e nelle leggi vestigio alcuno dei
princìpi rivoluzionari pocanzi trionfanti. Non solo era vinta la
democrazia, ma niuno degli ordini del popolo era in verun modo
partecipe del governo del paese. Nè solo era sbandito il principio
della libertà illimitata di coscienza; ma niuno potea pubblicare un
pensiero che non fosse in tutto conforme alle particolari dottrine dei
censori. Lo spirito del decimottavo secolo erasi affatto dileguato; e
il clero tornato non meno potente di quanto ei fosse stato, non dirò
ai tempi di Maria Teresa e di Giuseppe II, ma a quelli della
dominazione ispanica. Il divorzio era abolito; restituite le antiche
linee daziarie, riposta nel pristino suo splendore la nobiltà di
nascita; persino i nomi venuti in uso a' tempi della rivoluzione e del
regno italico per indicare i varii corpi dello Stato o le parti
diverse del territorio aveano dato luogo ai nomi disusati del
precedente secolo.
Ma non istavano già in questo i guai della Lombardia. Perdendo
repentinamente tutti i beni acquistati duranti i moti rivoluzionari, e
ridotta all'andazzo antico delle istituzioni meramente monarchiche e
dei pregiudizi di cui siffatte istituzioni sono, al postutto,
l'espressione, la Lombardia avea perduto altresì ogni reliquia
d'independenza, ogni segno d'una propria esistenza. Portava essa,
invero, il titolo di regno Lombardo-Veneto; ma le sue soldatesche,
mandate in Austria, erano vestite di bianca assisa; il vessillo
giallo-nero sventolava su tutti gli edifizi; l'aquila bicipite
campeggiava nel suo stemma. E per toccare d'altri più rilevanti
riguardi, ad onta dell'incontrastabile pro della novella spartizione
del territorio e del novello ordinamento comunale, tutte le
attribuzioni dei maestrati di comune, di distretto, di provincia ed
anche di capoluogo si ristrignevano nel presentare a Vienna i divisi
dei quali utile o necessaria stimavano l'effettuazione. Il dritto
austriaco tornava ad essere il dritto lombardo-veneto; i tribunali di
prima e di seconda instanza erano, per vero dire, indipendenti dai
tribunali dell'istesso ordine sedenti in Vienna; ma il tribunale
supremo di revisione, stanziato in Verona, non era altro che un brano
del tribunale supremo di giustizia sedente in Vienna. Tutte le nomine
da Vienna procedevano, e tutto, nel modo di amministrazione cui era
stata assoggettata la Lombardia, attestava la condizione secondaria e
dipendente cui essa trovavasi condotta. Dovrassi far avvertire che i
princìpi in onore presso gli Austriaci erano in ogni modo ripugnanti
col senno e con l'onestà della popolazione lombarda? Chi non
comprenderà a bella prima il sentimento di avversione e di fastidio
che travagliare dovea i cuori dei Lombardi alla lettura di quelle
leggi che loro prescriveano formalmente la delazione e lo spieggiare?
Il senno italiano poteva esso non trovarsi stomacato nel leggere
l'esposizione dei motivi delle leggi più oppressive, e nel veder quivi
vantate ora la predilezione di S. M. inverso a' suoi Stati italiani,
ora la paterna sua sollecitudine a pro de' sudditi, il suo
incomparabile amore e cose simili? I Lombardi, ch'eransi testè aperto
il passo per a traverso l'Europa, e aveano così di fresco spiegata
tanta energia, potevano essi vedersi senza stizza trattati come
fanciulli da quella nazione che mispregiavano più d'ogni altra,
costretti a rimettersi in tutto quanto riguardavali all'arbitraria
determinazione del governo, e tacciati poi d'ingratitudine se
tentavano di muoversi e di respirare a loro senno? Potevano essi
rassegnarsi senza ripugnanza ad uno stato di cose che pienamente
annullava la loro esistenza politica?
La repubblica Cisalpina avea avuto a dolersi gravissimamente e
dell'imperatore Napoleone e della Francia. Aveangli essi promessa
l'independenza e la libertà; e poi, giunta la congiuntura propizia di
adempir la promessa, aveanla ridotta alla condizione di uno Stato
dipendente. Ma le congiunture in cui l'imperatore e la Francia eransi
costantemente trovate, erano certamente estraordinarie. La Francia
potea dire all'Italia: «Lasciatemi fare sintanto ch'io abbia preso
stabilmente il posto che mi compete in Europa; aiutatemi anzi in
questo intento, ed io vi restituirò poi la libertà che ora confisco a
mio pro»; e l'Italia potea credere a queste parole: perocchè il regno
d'Italia era, in somma costituito per modo da sussistere di per sè, e
il fatto della riunione delle due corone francese ed italica sul capo
d'un sol uomo, era anzi un accidente che una conseguenza regolare
degli statuti organici dello Stato. La cosa fu ben diversa, quanto
all'Austria, dal 1815 in poi. Chiamata ad assicurare al regno d'Italia
quella piena independenza ch'eragli già stata tante volte promessa,
l'Austria non avea contratto coi Lombardi che segreti e perciò
invalidi obblighi: seppure si può dire che ne avesse contratti di
fatta veruna, non potendosi di ciò allegare pruova alcuna. I liberali
lombardi del 1814 erano ciechi abbastanza per tendere a sè stessi una
trappola, e gittarvisi poi dentro a capo chino senza che alcuno ve li
spignesse. Leggansi i primi bandi del maresciallo Bellegarde,
pubblicati da lui al primo suo ingresso in Milano, e vedrassi ch'ei
non vi fa motto nè di libertà nè d'indipendenza. Annunzia in vece,
averlo il suo signore incaricato a pigliar possesso, in suo nome e
vece, delle antiche province della sua monarchia, ch'erangli state
tolte a forza, e sopra le quali non avea perduto giammai i suoi
dritti. Ond'è che tutti i Lombardi che aveano militato nell'esercito o
negli uffizi civili sotto il principe Eugenio, venivano con ciò
ritenuti quali sudditi infedeli dell'imperatore d'Austria e quali
semiparricidi. S.M. l'imperatore Francesco perdonava agli uni,
gastigava gli altri a suo senno; ma sopra ed anzi tutto ristabiliva
tra la Lombardia e l'Austria le relazioni ch'eranvi prima del 1796,
cioè da servitore a signore, da provincia a capitale, da minori a
tutore perpetuo. E ciò definitivamente e per sempre. Affisando lo
sguardo nei segreti dell'avvenire, doveano i Lombardi vedere nell'anno
2000 la loro contrada soggetta all'Austria non altrimenti che nel
1816; le stesse leggi in vigore, la censura in pieno fiore, la polizia
regnante senza sindacato veruno e coll'attributo dell'onniscienza e
della onnipotenza, lo spieggiare onorato, ecc., ecc. Se non che
potrebbero imaginarsi che allora le cose procederebbero meglio
ordinate, perchè i Lombardi avrebbero a poco a poco deposta la
sconsigliata speranza di esistere di per sè, sdimenticate le assurde
pretensioni covate dal 1796 fino al 1814, cessato in fine di sentirsi
e di chiamarsi Italiani, per diventare Austriaci; il che farebbe
veramente il regno di Dio sulla terra.
Non mi sia data taccia di esageratore nè di inventore. Tale, sì, tale
era il senso, ed anche non bene dissimulato, di tutti i bandi
austriaci, di tutti i discorsi fatti dagli Austriaci e dai loro
fautori. E se pure oggidì taluno si pigliasse lo spasso di leggere con
tuono serio e con cera d'uomo convinto quel tanto ch'io dico, ad un
magistrato austriaco, io sono certo che questi, dolcemente commosso,
gli stringerebbe la mano, esclamando che così egli pure la pensa. Or
chi dovrà mai meravigliare che pensieri di rivolta covassero sempre
nei cuori dei Lombardi?
L'Italia condividea altronde tutta quanta cosiffatti pensieri;
perocchè tutti gli Stati della Penisola erano ricaduti sotto il
reggimento della potestà assoluta, da cui divezzati gli aveano i
princìpi democratici diffusisi in conseguenza della rivoluzione di
Francia. Una società propagatasi l'anno 1779 dalla Svizzera e dalla
Germania in Italia, promossa nell'anno 1811 dal re Murat ed arruolata
sotto il vessillo francese contro la fazione dei _Sanfedisti_, parlo
della società dei _Carbonari_, adoperava nell'anno 1820 ad
apparecchiare in tutta Italia una generale sollevazione. Avvalorati
erano quei disegni dalla speranza che vi cooperassero i governi di
Napoli e di Piemonte. Non possedendo in proprio nè truppe nè finanze,
la Lombardia non poteva pensare a discacciar essa gli Austriaci, ma
dovea star pronta ad aprire le sue città a quelli de' suoi compatrioti
che venissero con un esercito a farle spalla contro l'Austria. Una
società sì numerosa, com'era in quel tempo la società dei Carbonari,
non poteva per un lungo tempo sfuggire al vigile sguardo di un governo
fondato sopra lo spionaggio; e di fatti nell'anno stesso 1820 una
notificazione del governo di Milano, sottoscritta dal presidente conte
Strassoldo, e dal vice-presidente conte Guicciardi (quel desso che
avea perorato nel senato italiano il 17 d'aprile 1814 contro il
progetto del duca di Lodi), annunziava l'esistenza della società
suddetta, ne dichiarava pericoloso per lo Stato e reo in sè stesso
l'intento, vietava a tutti i sudditi di S.M. l'imperatore d'entrarvi,
comminando loro, in caso di disobbedienza, le pene prescritte contro
il reato di fellonia: pene le quali dichiaravansi, al solito, incorse
da tutti coloro che avessero omesso di denunziare i fatti venuti a
loro cognizione intorno alla società dei Carbonari o alcuno dei membri
di essa.
Non valse questa notificazione ad impedire i progressi del
carbonarismo. Una giunta straordinaria fu bentosto nominata ed
instituita in Venezia per iscoprire le trame ordite dalla società e i
nomi dei sudditi italiani di S. M. Francesco I, che vi si erano
affigliati. Il Salvotti, resosi poi celebre pur troppo, faceva in
quella giunta l'ufficio di giudice inquisitore, e diè fin d'allora bei
saggi della sua perizia. Si può almeno attribuire a lui l'invenzione
d'un mezzo singolare posto in opera da uno dei preposti al carcere di
Venezia per istrappare di bocca ad un inquisito, per nome
Confortinati, la confessione di fatti che, giusta ogni apparenza, non
aveano alcuna realtà. Non aveva il Confortinati nè l'animo nè
l'aspetto di un congiurato. Era un omicciattolo, gracilino, timido,
semplice, di corto ingegno, che non si brigava per nulla delle cose
della politica: per modo che non si può imaginare che cosa in lui
fosse, che avesse provocati i sospetti del governo. Checchè di ciò ne
sia, il giudice inquisitore ardea della brama di trargli di bocca
alcuni schiarimenti che l'inquisito non era in grado di dargli. Tentò,
ma invano, il Salvotti d'intimorirlo; perocchè havvi una certa
semplicità di spirito e di cuore che vieta di prevedere e le grandi
catastrofi e gli esiti tragici e straordinari. Secondo gli animi di
questa tempra, ogni cosa dee avere l'esito il più semplice e il più
naturale. «Sono stato incarcerato senza merito alcuno. Uscirò dal
carcere tosto che sarà riconosciuta la mia innocenza, il che non può
andare in lungo». Ecco il come ragionava il Confortinati, ed io non so
veramente se sarebbe stata in lui maggiore l'angoscia o lo stupore
ov'egli fosse stato condannato. Questa poco intelligente intrepidità
sconcertava i giudici. Un ufficiale di polizia, per nome Lancetti, si
propose di fiaccarla nel modo seguente. Introdusse il boia nella
segreta in cui era chiuso il captivo, e pregò questi acciò lasciasse
che il suo compagno gli pigliasse la misura precisa del collo,
perocchè fra poco dovrebbe impiccarlo, ed in certa guisa per cui
richiedeasi un laccio bene accomodato. Quell'ignobil sceda
dell'uffiziale di polizia e del boia non ebbe l'esito sperato.
Porgendo il collo alla disamina del carnefice, il Confortinati dicea
probabilmente tra sè e sè (e questa volta con ragione), che la cosa
non avrebbe seguito, e che non gli toccherebbe altro a subire che
quella pruova. Non isbigottì di soverchio, e nulla aggiunse ai
precedenti suoi costituti; e sì che la sua prigionia durò assai tempo.
Erasi il carbonarismo larghissimamente diffuso in tutta Italia; ma i
governi che contro questa società s'indracavano, non impugnavano altro
con ciò che l'espressione di un fatto incontrastabile, quale si era la
profonda malacontentezza eccitata in tutta quanta l'Italia dai
portamenti de' suoi principi. In Lombardia, in particolare, era tempo
che l'antica fazione dei sedicenti italici puri riconoscesse i falli
che avea commessi nel 1814, e, maledicendo alla fede posta
nell'Austria, sagrificasse ogni cosa per ammendare il suo torto. Quasi
tutta l'aristocrazia milanese, e quella in ispezieltà che più
efficacemente avea contribuito ad abbattere il regno d'Italia,
congiurava contro l'Austria. Il conte Confalonieri col facile ed
infiammato suo dire instigava contro quella potenza gli animi ancora
tiepidi, e l'odio già mostrato da lui contro la Francia toglieva
all'attuale sua indegnazione contro l'Austria ogni colore di
parzialità o fazioso. Il conte Porro, il giovine marchese Pallavicini,
e Bossi e Ciani e molt'altri, sia dei nobili che del medio ceto, mossi
da un comune desiderio d'independenza, si riunivano per indettarsi
intorno ai mezzi da porre in opera per sottrarre la patria alla
dominazione austriaca. Ma, come ho già detto, niuno si proponeva di
effettuare in Milano una rivoluzione. La mossa dovea accadere in
Torino. Il principe di Carignano, presuntivo erede della corona, erasi
assunto l'impegno di guidarla. E l'esercito piemontese, seguendo i
suoi capi, l'avrebbe operata. Tostochè il principe di Carignano avesse
afferrate le redini dello Stato, tostochè la costituzione fosse
promulgata in Piemonte, le truppe piemontesi doveano valicare il Po e
il Ticino, e venire a Milano. Pavia, città posta sui confini tra la
Lombardia e il Piemonte, e abitata dalla scolaresca, sarebbesi unita
co' liberatori. Milano pure terrebbesi pronta; i cittadini avrebbero
impugnate le armi, altri avrebbero instituito immantinenti un governo
provvisorio. Le province sarebbero concorse al grand'uopo; l'Italia
sarebbe rimasta debitrice della propria liberazione a' suoi propri
figli; e per la prima volta forse, dopo tanti secoli, lo straniero non
sarebbe stato cacciato da un altro straniero sottentrante in sua vece.
Bei sogni, quanto tempo avete voi durato?
La rivoluzione piemontese proruppe in marzo dell'anno 1821; ma non
l'esercito intiero, bensì soltanto compagnie staccate di ciascun
reggimento si sollevarono. Alessandria si trovò occupata dalle truppe
sollevate, il rimanente delle quali era in Torino. Benchè incompleta,
la mossa del Piemonte fu sentita in Lombardia. Il marchese Giorgio
Pallavicini e Gaetano Castillia, giovanissimi entrambi, recaronsi dai
capi del moto di Piemonte per indettarsi con loro del modo di
procedere contro gli Austriaci. Parata sempre alle azioni generose, la
scolaresca di Pavia formò un battaglione, intitolato di Minerva, ed
entrò nel territorio piemontese. Intanto il conte Confalonieri non
poteva farsi capace che alcuni reggimenti piemontesi valessero a far
testa all'esercito austriaco e costrignerlo a rivalicare le Alpi. Nè
infondati erano questi timori; ma gli uomini che apparecchiano una
rivoluzione, non debbono concepire speranza che ogni cosa proceda
appuntino nel modo previamente stabilito, a quella stregua, all'un di
presso, che gli atti di un dramma si tengono dietro l'uno all'altro in
sul teatro. La Lombardia sperava d'avere in aiuto una gran parte
dell'esercito piemontese, e alcune compagnie soltanto si dichiarirono.
Dovea ella per questo la Lombardia abbandonare i suoi disegni e la sua
intrapresa? E chi sa mai se la sollevazione lombarda non si sarebbe
tratta dietro quella del resto dell'esercito piemontese e degli altri
Stati italiani? Chi è da tanto di prevedere tutto, nè si trova in caso
di dovere per alcuni punti mettersi in balía del caso e della fortuna?
Quale è di fatti l'esito di queste congiure rimaste prive di effetto?
Gli è questo, che i governi ne vengono in cognizione ed aspramente le
puniscono, mentre, per altra parte, affatto ingloriosi rimangono i
nomi dei loro autori. I congiurati in pensiero sono puniti dai nemici
delle rivoluzioni non altrimenti che sarebbero se queste avessero
avuto effetto; ma non sono onorati del pari dagli amici della libertà.
Volendo allora mostrarsi prudente, il Confalonieri scrisse al conte di
San Marzano, altro dei capi della mossa piemontese, esortandolo a non
affacciarsi, giusta il convenuto, al confine infino a tanto che tutto
l'esercito piemontese, o poco meno di tutto, si fosse dichiarito per
la costituzione. Questa lettera fu recata dalla contessa Frecavalli,
che la nascose nella fitta sua chioma. Io non potrei descrivere
l'effetto prodotto da quella lettera, e mi dorrebbe di dover
attribuire al Confalonieri le ulteriori risoluzioni del principe di
Carignano. Ognun sa che quel principe se ne stava a Torino, attorniato
dai suoi ministri. Alla sera del 17 di marzo ei ragionò lungamente col
conte di Santa Rosa, allora ministro della guerra, e con alcuni altri,
e promise loro nel ritirarsi di pubblicare nel seguente giorno un
bando che irreparabilmente lo astrignesse a far causa coi sollevati.
Si sciolse dietro di ciò la conferenza, con ferma fiducia per parte
dei seguaci della rivoluzione; giacchè l'ultime parole del principe,
per quanto disse di poi il conte di Santa Rosa, erano sembrate
concludentissime e lo avevano rassicurato sul futuro. Ma la mattina
seguente si diffuse per tempo la notizia della partenza del principe,
la quale immerse i rivoluzionari nella costernazione. Era egli di
fatto partito alla vôlta della Lombardia. Giunse a Milano sotto nome
supposto, e scese in un piccolo albergo all'insegna del Pozzo, poco
stante dalla chiesa di Sant'Alessandro. Recossi dal maresciallo conte
di Bubna, il quale all'annunzio della sua visita non fu poco
meravigliato, e narrogli minutissimamente i progetti dei
rivoluzionari, gli accordi fatti tra' Piemontesi e Lombardi, e tutto
quanto importava al maresciallo di ben conoscere¹. E, ciò fatto, se ne
ritornò.
¹ L'autore nel dar contezza di questo colloquio si è, giusta ogni
apparenza, consigliato con l'imaginazione; chè non è a credersi
abbia alcuno dei due interlocutori narrato a lui o ad altri, che
nel potessero ragguagliare, le cose dette in quella congiuntura.
Spaziando nel campo delle probabilità, si può supporre che il
principe abbia detto abbastanza per porre l'Austria in grado di
ripararsi dagli effetti della congiura; ma il sèguito dei fatti
che narra l'istesso autore è una pruova patente che l'Austria
non ebbe da lui indizio alcuno delle persone che erano implicate
nella trama. Era giustizia il fare quest'avvertenza, com'è il
dire che l'imaginazione dell'autore, per quanto apparisce, ha
anche in altre congiunture supplito alla scarsa notizia avuta
dei fatti, e che talvolta pure egli sembra avere esagerate le
cose, generalizzato dei fatti particolari, e attribuito a
malignità del gabinetto o dell'imperatore quel ch'era effetto
della lentezza austriaca, degli ordini viziosi dello spaccio
degli affari, o del maltalento o goffaggine degli uffiziali
inferiori. (_Nota del traduttore_.)
Non mi tocca riferire gli avvenimenti, altronde ben noti, di cui fu
teatro il Piemonte in quel tempo. Mi basta indicare l'aiuto dato dalle
truppe austriache al re di Piemonte; e la parte che esse ebbero nel
ristabilimento dell'antico ordine di cose. Il re di Piemonte
spietatamente si ricattò sopra i suoi sudditi della debolezza de' suoi
mezzi, per cui era astretto ad invocar forze dall'Austria. Questa poi,
paga di occupare, benchè momentaneamente il Piemonte, paga del male
esito delle macchinazioni dei rivoluzionari, e della cognizione
acquistata degli accordi tra i sollevati piemontesi e i malcontenti
lombardi, paga, infine, di vedere il re, suo protetto, arrischiarsi
sulla sdrucciolevole china dei supplizi capitali e delle confische,
astenevasi da ogni provvedimento di tal fatta, ostentando così
clemenza e dolcezza. Alcuni mesi di tal guisa trascorsero, dopo i
quali il re di Piemonte parve desiderar la partenza delle truppe
austriache, e ne fece domanda, che fu incalzata da quelle degli altri
sovrani d'Europa, sospettosi forse che la dimora delle truppe
austriache in Piemonte si protraesse oltre il dovere. L'Austria però
non intendeva a ritirare sì presto le sue soldatesche. E giova qui
notare quanta importanza pone l'Austria nelle brevi sue occupazioni
delle varie parti del territorio italiano. Non appena le si affaccia
l'occasione d'inframmettersi negli Stati pontifici, nel reame di
Napoli, nel Piemonte, nel ducato di Modena, in quello di Parma, essa
premurosamente l'afferra. Allorchè le cagioni per cui fu chiamata non
esistono più, allorchè il principe che ne ha invocato l'aiuto, e i
sovrani emoli dell'Austria, e l'Europa intiera la richieggono di
ritirarsi, essa studiasi di mandare in lungo le cose, allega un
pretesto, accampa un qualche diritto, oppone un qualche ostacolo; in
somma, benchè essa sappia che il suo definitivo stanziamento negli
Stati che non le sono stati concessi dai trattati di Parigi e di
Vienna, non potrebb'essere tollerato, pure si sforza di rimanervi
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