Studi intorno alla storia della Lombardia - 08

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voi che vi perdete, nell'impugnare ostinatamente quello che tutti i
vostri complici hanno confessato? Nissuno di loro vi ha risparmiato, e
voi, per timore forse di metterli in pericolo vi attenete a questo
fatale sistema d'impugnativa! Ahi! perchè non avete un po' più di
confidenza in me? Non sono io pure italiano? Poss'io vedere un
Italiano, un compatriota correre ciecamente alla perdita senza gemere,
senza tentare d'oppormici?» Fattisi udire in quella i passi del
maggiore austriaco, il Pagano tornossene tacito al suo posto.
Rientrato il maggiore, fu ripigliato l'interrogatorio, ma il
colonnello Gasparinetti rimase alcun tempo senza rispondere, assorto
nelle sue meditazioni, tetro, costernato. Alzossi alla fine, e movendo
il passo verso la tavola sulla quale il maggiore scrivea, dissegli
lentamente e col tuono di un uomo che si è indotto ad una difficile
risoluzione: «Scrivete, signore. Io, colonnello Antonio Gasparinetti,
eromi fermamente proposto di lasciarmi mozzare il capo anzichè
proferire una sola parola che potesse nuocere ai miei amici; ma poichè
essi stessi hanno parlato, poichè hanno preferito il compenso della
confessione a quello della impugnativa, farò com'essi in
quest'occasione, come ho fatto in molt'altre. Dichiaro pertanto
ec.....» E qui sì lo scopo della congiura, che i nomi dei congiurati,
i mezzi di cui poteano valersi, i loro disegni, i sussidi nei quali
speravano, ogni cosa, in somma, fu esposta coi più minuti suoi
particolari dal colonnello Gasparinetti.
Convien dire che la confessione sia un atto che corrisponde a un
qualche segreto istinto del cuore umano, perocchè non solo vediamo gli
uomini determinarvisi agevolmente, ma anche compierla con trasporto
allorchè vi si sono determinati. E invero il Gasparinetti non si
ristrinse in questa circostanza a narrare i fatti noti agli altri
captivi, e cui potea supporre essere stati svelati da loro; ma espose
perfino i propri pensieri, le speranze ch'egli avea concepite, le
parole dettegli in privato da questo o quello dei congiurati non
ancora arrestati. Riferì fra altre cose che, avendo un giorno
incontrato il generale Teodoro Lecchi, questi aveagli detto,
stringendogli la mano: «Animo, mio caro Gasparinetti; se Fontanelli
ricusa di condurci, ho buona speranza che Zucchi sottentri in sua
vece». Il che era vero; ma perchè riferirlo dacchè non era stato udito
da testimoni e dacchè il generale Lecchi era tuttora libero? Questo
bisogno di dir tutto spiattellatamente, anche a giudici, fu ancor più
forte pel comandante Cavedoni, il quale, sostenuto pochi giorni poi ed
esortato a confessare progetti già ben noti altronde, non si fece
molto pregare. Dopo avere risposto alle interrogazioni fattegli,
trascorse più oltre, esponendo le idee sue proprie, e come ei si
proponesse d'unirsi ai rivoluzionari di Modena dopo avere aiutato il
trionfo della rivoluzione di Milano. Il quale soverchio di confidenza
fu poi cagione che il Cavedoni, poich'ebbe terminato di espiare in
Mantova il reato di congiura contro l'imperatore d'Austria, fu
consegnato nelle fiere mani del duca di Modena. Nè con ciò finirono le
sue sciagure. Arrestato un'altra volta a Modena, nè meglio schermitosi
dalle instanze de' suoi interrogatori, fu nuovamente condannato.
Arrestato poi finalmente la terza volta, e di nuovo in Modena, e
prevedendo un trattamento eguale a quello che aveva di già subito due
volte, si uccise colle proprie mani con una pistolettata, e giunse in
tal modo a preservarsi dal fatale sdrucciolo delle confessioni;
sdrucciolo da cui i ministri della polizia austriaca sanno ottimamente
trarre partito.
L'Austriaco non si affretta mai, eppure avviene di rado che le sue
vittime gli sfuggano di mano; perocchè valentissimo è nell'attutare la
loro vigilanza mentre si accinge a colpirle mortalmente. Nulla aveva
il Gasparinetti taciuto o travisato; e il Lattuada, edotto di ciò, si
era appigliato al partito di dire d'aver porto orecchio ai disegni di
congiura unicamente per conoscer bene le cose e renderne edotto il
governo. La cattura degli altri congiurati potea seguitare davvicino
queste deposizioni, eppure parecchi giorni trascorsero nei quali il
governo lentamente arrotava l'armi sue, apparecchiava le insidie in
cui volea far cadere i suoi nemici, facea chiamare gli uomini nei
quali maggiormente confidava, ec. ec.; nè di questi giorni giovaronsi
i congiurati per ripararsi in luogo di salvezza. Ma conviene sapere
che il governo austriaco vi provvide come mi fo a narrare.
Il conte Alfonso Litta, colonnello al soldo d'Austria e fratello del
duca Litta, erasi ognora segnalato per la sua devozione all'imperatore
Francesco. Il suo figliuolo aveva all'incontro militato nell'esercito
franco-italico in qualità di scudiere del principe Eugenio, ed erasi
ognora portato da leal guerriero. Aveva il cuore assai freddo e corto
il senno; ma era tutt'altro uomo da quello che avrebbe dovuto essere
per abbandonare gli antichi amici o rinnegare i sentimenti cui
professati aveva una volta. Ad onta del suo affetto inverso alla Casa
d'Austria, il conte Alfonso Litta era non meno onesto del figlio, nè
più avveduto di lui. Ben conosceva costoro il governo; ond'è che uno
de' principali personaggi in carica di quei tempi studiò il modo di
far assapere destramente al conte Litta che l'imperatore conosceva
appieno tutta la congiura militare, ed era risoluto di non punire per
questa volta uomini traviati da antichi affetti, ma che questa
generosa determinazione non si estenderebbe fino a coloro che si
facessero rei d'un secondo attentato, ec. ec. Queste consolanti
assicurazioni furono tosto dal conte Alfonso Litta partecipate al
figliuolo, il quale corse subito in cerca del generale Teodoro Lecchi.
Trovatolo, al teatro della Scala, lo trasse in disparte e dissegli,
sapersi dal governo ogni cosa: «Parto incontanente», rispose il
generale. «No», replicò il contino, «ciò non è necessario, io so per
buon canale che il governo vuole lasciar cadere questa cosa: nulla
avete a temere per ora, ma guardatevi bene a quello che farete per
l'avvenire. La clemenza usata ora dell'imperatore, lo indurrebbe ad
essere doppiamente severo in un'altra occasione».
I due amici, ciò detto, si separarono, lieto il Litta di avere
sconsigliato al generale un passo falso qual era l'abbandono della
patria, e rassicurato il Lecchi, il quale conosceva il come la
famiglia Litta fosse in grazia del governo. Ma non passarono tre
giorni ch'ei venne catturato, e con esso il generale Bellotti, e i
signori Cavedoni, Brunetti, Pagani, Gerosa e Caprotti.
Tutti i particolari della congiura erano stati così esattamente
esposti dal colonnello Gasparinetti e dal Lattuada, che ai novelli
arrestati era impossibile l'attenersi alla impugnativa. La sola
quistione che potesse tuttora venir dibattuta fra' giudici e gli
accusati era quella dell'esistenza d'un comitato direttore; esistenza
di cui i giudici diceansi di già accertati, e la quale era dagli altri
impugnata risolutissimamente. La giunta a cui venne affidata
l'istruzione del processo e il giudizio componeasi del conte Cardani,
presidente, dei giudici Freganeschi, Bonacina, Borghi e Gianni, e del
regio procuratore Draghi; tutti di già celebri per l'astio feroce che
aveano mostrato contro i liberali nei fatti del 1799.
Furono gl'inquisiti tratti a Mantova, e chiusi in una torre le cui
fondamenta sono piantate nel lago fangoso che circonda la città: dati
in balía ad uomini della fatta di quelli che componevano la
commissione, aveano fortissima cagione di temere, e difficilmente
perciò poteva essere serbato il segreto intorno alla esistenza del
comitato direttore. Ma pure dovendo essi venire tuttora processati e
giudicati secondo il codice di processura criminale del regno
d'Italia, avevano difensori, doveano comparire in pubblico, e potevano
protestare contro quei violenti o crudeli trattamenti che loro fossero
stati fatti: era perciò duopo valersi di nuovo della astuzia.
Essendo il generale Teodoro Lecchi il più ragguardevole tra'
congiurati, non era possibile che l'esistenza del comitato direttore
fossegli rimasta occulta; epperciò sopra di lui pose in opera la
giunta i suoi artifizi. Il signor Ghisilieri, nuova maniera che era di
giudice-dilettante, avea per costume d'entrare ogni mattina per tempo
nella camera del generale, sorprendendolo così appena desto. Egli
conosceva l'indole mite ed affettuosa di lui, l'affetto quasi
appassionato ch'esso nodriva per la propria famiglia, la divozione di
lui inverso la madre, la quale dal canto suo, pia e tenera com'era, lo
prediligea fra tutti i suoi figliuoli, e non potea rassegnarsi a
quella sciagura, tanto più che, sentendosi presso a morte, temeva di
non più rivederlo. Non ignorava il Ghisilieri alcuno di questi
particolari, e studiavasi di trarne profitto. Dopo chieste
affettuosamente notizie della salute e della disposizione d'animo del
generale, diceagli: «Vengo in questo punto di casa vostra. Ah quanto
siete amato! Quante lagrime fa spargere la vostra sventura!» Nominava
allora le persone più strettamente congiunte col generale, attribuendo
ad ognuna di esse commoventi parole. Poi veniva a parlare della madre
del generale. Moribonda allora nel letto per un insulto apopletico,
essa era priva di cognizione; ma il figlio non erane edotto, e il
Ghisilieri gliela dipingeva, all'incontro, come unicamente preoccupata
del destino del figliuolo, e solo intenta a trovare il modo di
procacciarsi l'immensa felicità di vederselo presso. «Vostra madre»,
soggiugneva il Ghisilieri, «è una santa donna, ma non può stare senza
di voi, e se non ritornate nelle sue braccia, essa morrà disperata».
Continuava il Ghisilieri in su quest'andare finchè avesse tratto a
forza le lagrime agli occhi e sulle guance al generale; poi quando lo
vedea tutto commosso e tremante, quando leggevagli in volto o ne'
sussulti del petto agitato, il veementissimo desiderio di tornare fra'
suoi, allora, facendo le viste di seguire il naturale corso del suo
pensiero che da questo subbietto del discorso lo conduceva ad un
altro, veniva a parlare del processo. «E questo comitato direttore»,
diceagli, «perchè mai vi ostinate a negarlo? Il vostro processo
sarebbe finito bentosto, se mutaste favella, e così disporreste tutti
i giudici in vostro pro. Io vi parlo in nome di vostra madre, datemi
fede», nè cessava dal ragionare in tal modo se non in quanto il
generale cessava di rispondergli. Egli è inutile l'avvertire che il
generale, uscito di prigione, seppe non senza stupore che il signor
Ghisilieri non era mai stato una volta in casa di lui, nè mai avea
veduto alcuno dei membri della famiglia Lecchi! Il comitato direttore
non fu confessato da veruno, e forse non esisteva nemmeno.
Compiutasi l'istruzione del processo, venne l'ora della sentenza.
Riuniti nella grand'aula del palazzo, accerchiati da numerosi soldati,
avevano di già gli accusati udito la lettura dell'atto di accusa e le
dispute dei loro difensori, quando giunse colà un messo latore di una
lettera indirizzata al presidente del tribunale. La prese questi, e
lettala, la consegnò al giudice che sedeva a destra di lui, il quale
la diede all'altro, e così via via, sicchè fu letta da tutti i membri
del tribunale. Tutti, leggendola, davano segno non dubbio di
soddisfazione, di rispetto e di commozione, alcuni perfino sorrisero
nel guardare i prigionieri, e il presidente, facendo le viste di non
potersi tenere, proferì a mezza voce le parole _buona notizia_. Per
quanto significative fossero quelle testimonianze, non poterono
rassicurare i prigionieri contro l'effetto probabile delle conclusioni
fiscali, lette subito dopo dal regio procuratore, e nelle quali
richiedeasi dal magistrato contro di loro la capitale condanna. Ond'è
che quando, usciti dalla sala, furono ricondotti nel carcere, la
curiosità loro intorno alla lettera la cui lettura avea tanto
visibilmente commosso il tribunale, era indebolita d'assai. Non
tralasciarono però essi d'interrogare intorno al contenuto di quella
lettera le guardie che gli accompagnavano, e seppero che vi si leggeva
la formale assicurazione delle misericordiose disposizioni di S. M.
inverso a loro.
S'imagini ora quale fosse lo stato di questi uomini accusati di
congiura militare, indeboliti da una prigionia di già assai lunga, e
da morali torture, e i quali dopo avere udito il regio procuratore far
contro di loro instanza per la capitale condanna, venivano ricondotti
nel carcere per aspettarvi la lettura della loro sentenza. Gl'istanti
che passano tra la chiusura dei dibattiti e la lettura della sentenza
non sono essi più angosciosi di quelli che precedono la morte? Non si
concentra essa su quei brevi istanti la compassione che sentesi pei
condannati a pena capitale?
Ora in questa sì terribile condizione, in questa crudele espettazione,
di cui si tenta di sminuir la durata per gli stessi malfattori, il
governo austriaco lasciò gli accusati per ben tre anni! Non mancò
tuttavia un pretesto per colorire questo inconcepibile obblio delle
leggi dell'umanità; e questo pretesto, al par di tutti quelli cui
l'Austria s'appiglia, fu da goffo e da ipocrita. A udire i membri e
gli amici del governo, per mera pietà furono gli inquisiti lasciati in
dubbio del loro destino. E perchè la condanna non poteva essere
altrimenti che asprissima, e perchè, d'altra parte, S. M. avea fatto
promettere una rilevante mitigazione degli effetti di quella
inevitabile severità; perciò in sulle prime il pretesto potea parere
plausibile; ma apparve poi chiaramente l'impostura quando, scorsi i
tre anni, tornò la sentenza da Vienna. Si vide allora che il giudizio
della commissione, tutt'altro era che spaventevolissimo per
gl'inquisiti, perocchè non eravi riconosciuta l'esistenza d'una
congiura. Or dunque, perchè mai i pretesi autori d'una congiura che
non era esistita, erano essi lasciati da tre anni a gemere nel fondo
d'una prigione? perchè mai lasciar loro ignorare il proprio destino? E
in ciò appunto si ravvisa in tutta la sua bruttura l'austriaca
doppiezza. Si sarà già avveduto il lettore che ciò non poteva avere
altro fine che quello di prolungare l'orribile incertezza da cui
trovavansi angosciati i captivi. Ma perchè mai, con quale pretesto
erano essi tenuti in carcere, mentre del fatto di cui erano accusati
non constava punto? Si rammenti quella lettera consolante che nel
giorno del giudizio era andata in giro per le mani dei giudici, e avea
sui pallidi loro volti ricondotto i segni della contentezza e della
tenerezza. Quella lettera, scritta dall'istesso maresciallo Bellegarde
al presidente della giunta, contenea, siccome ho detto,
l'assicurazione delle intenzioni di S. M. di usar clemenza; ma
aggiugneva che acciò l'imperiale clemenza potesse brillare in tutto il
suo splendore, era d'uopo apparecchiarle un bel campo, una degna
occasione. Ond'è che i membri della giunta venivano eccitati a
procedere col massimo rigore contro gli accusati, a condannarli ad
ogni modo ed alla massima pena applicabile, a fine di lasciare alla
sovrana generosità un libero corso.
Quella lettera, che non sarebbe stata scritta ove il maresciallo
Bellegarde non avesse avuto notizia che la giunta non riconoscea
l'esistenza della congiura, trasse di angustia i giudici, che mal
sapevano porre d'accordo i dettami, alquanto sommessi, della loro
coscienza e le ben note brame del governo. Dacchè l'imperatore
obbligavasi a non ratificare la condanna che venisse da loro proferita
contro gl'inquisiti; ogni scrupolo si dileguava. Se la forza della
verità costringevali a dichiarare la non-esistenza della congiura,
rimanea però tuttora il reato di non-rivelazione, del quale constava
in realtà, e sopra del quale poteasi senza troppa vergogna fondare una
condanna anche severa. Per le quali cose, dichiarò la giunta: 1.º non
esservi stata congiura; 2.º essersi proferite parole contro il
governo, e formati vaghi disegni, e non averne gli accusati
ragguagliata la pubblica autorità. Condannò essa perciò gli accusati
alla massima pena comminata pel reato di non-rivelazione, cioè _a
cinque anni di carcere duro_. Ma non si dovea essa frapporre
l'imperiale clemenza? Sì; e di fatti, tre anni dopo che gli accusati
erano stati, all'uscire dall'ultima udienza della giunta, ricondotti
nel carcere, la sentenza che li condannava a cinque anni di carcere
duro, ritornò da Vienna a Mantova, colla commutazione della pena in
diciotto mesi della detenzione medesima. Dietro le massime del vigente
diritto, i tre anni trascorsi avrebbero dovuto essere riguardati come
una più che sufficiente espiazione della pena commutata, ma S. M.
volle altrimenti. La detenzione degli accusati fino a quel punto, era
stata, in sua sentenza, non una pena, ma un mero provvedimento per la
pubblica sicurezza, nè potea diventare una pena se non dal momento in
cui veniva pubblicata la sentenza. Poco montava che quegl'infelici
gemessero in carcere da tre anni, mentre la pena da infliggersi loro
doveva essere una detenzione di soli diciotto mesi; fu forza dopo i
tre anni di carcere già sofferti subire ancora altri diciotto mesi di
detenzione, cosicchè la grazia imperiale valse ai captivi la
liberazione dalla pena per soli sei mesi. E sì che la promessa fatta
fare dall'imperatore di perdonare ogni cosa era quella sola che aveva
indotta la giunta, tutta composta dei più caldi zelatori di Casa
d'Austria, a proferire una condanna che ad essi stessi pareva non a
bastanza fondata.
Ho voluto descrivere insino all'ultimo la sorte toccata ai congiurati
del 1814, ed ho taciuto perciò gli avvenimenti accaduti nei quattro
anni ch'essi passarono in carcere. Ritorno ora indietro per adempire
il mio debito, cioè per far conoscere la storia della Lombardia
dall'anno 1814 sino ai dì nostri: storia invero assai incompleta,
siccome quella che non registra altro che congiure sventate o editti
promulgati, e nella quale non vedesi la nazione operare cosa veruna,
esercitare nè influenza nè autorità, spiegare nè facoltà nè tendenze,
fare in somma alcunchè nè per sè nè per mezzo de' suoi rappresentanti.
La nuova dell'incorporazione definitiva della Lombardia nei domini
austriaci, la cattura dei più ragguardevoli uffiziali dell'esercito
del cessato regno d'Italia, e il fatto della riscossione delle imposte
come per lo passato e senza il menomo alleviamento, avevano ingenerato
il malumore nel popolo. Gli avvenimenti accaduti nel mese di marzo
dell'anno 1815, o pur solo l'espettazione di essi ridestarono nei
cuori degl'Italiani la speranza di giorni migliori, e con la speranza
l'energia. Due personaggi fra' principali di Milano, uno de' quali
portava un nome illustre nell'aristocrazia; due personaggi che già si
erano mescolati nei fatti del 17 e del 20 aprile del 1814, e dei quali
ho taciuto i nomi, onde assegnar loro un posto appartato e non porgere
al lettore l'occasione di confonderli con altri autori dei fatti
medesimi, recaronsi dai primari ufficiali del governo e loro proposero
di far venire in città un grosso polso di contadini in occasione della
festa della Madonna di marzo, e di volgere poi la piena di que'
subillati contadini contro le case dei Milanesi di cui era noto
l'attaccamento al cessato governo. Per proporre scopertamente
l'assassinio, anche politico, vi vuole un capitale d'impudenza che
dalla educazione viene riprovato e distrutto. Ond'è ch'io credo che
quei due non osassero dire che volevano toglier la vita ai partigiani
del governo franco-italico; ma dicessero all'incontro di non volere
far altro che incuter loro timore, onde far loro passare la voglia di
ribellarsi e strignerli fors'anche ad abbandonare la patria. Suppongo
anzi che le vere loro intenzioni non fossero diverse da quanto io
credo che dicessero. Checchè di ciò ne sia, il governo, più timoroso
che pago d'un siffatto appoggio, memore altresì di quanto era accaduto
il 20 marzo 1814 e di quanto erasi forte temuto di veder accadere nel
giorno appresso, e schivo al postutto dall'ammettere qualunque
cooperazione popolare, ributtò le pericolose proposte. Io dubito anzi,
che la forsennata devozione di quei due abbiagli mai inspirata una
piena fiducia. Ad ogni modo Milano fu quella volta preservato, mercè
la prudenza austriaca, dalle sciagure che apparecchiavanle i Milanesi
devoti di Casa d'Austria.
La guerra che poco stette a prorompere pose il governo austriaco nella
trista necessità d'imporre un accatto forzoso sopra i trafficanti
della Lombardia. E sebbene fosse di poco rilievo la somma accattata, e
favorevoli pei creditori i patti a cui astrignevasi il governo,
quell'accatto forte dispiacque all'intiera popolazione, la quale però
non fecevi contrasto veruno. Intendendosi nella seconda parte di
questo scritto a mostrare il come abbia il governo austriaco potuto
annichilire lo spirito pubblico e traviare il giudizio dei Lombardi,
non sarà inopportuno il riportare qui il bando promulgato intorno alle
cose di Napoli il giorno 5 aprile del 1815 dal maresciallo Bellegarde.
Così strana si è la favella del maresciallo in quel bando, e così
contraria ai più ovvii dati della storia e ai più chiari dettami del
buon senso, che quasi quasi gli si potrebbe attribuire un'intenzione
d'ironia. Il che facendo si andrebbe tuttavia di gran lunga errato.
Gli ufficiali del governo austriaco e l'istesso imperatore usano
sempre tali modi di parlare che per l'esagerazione loro sembrano
ironici; ma col mostrare insieme volto serio e cera d'uomini convinti,
ne danno ad intendere al popolo ed ai ragazzi. I quali, coll'ascoltare
abitualmente i ragionamenti di quei magistrati, nè trovar mai chi
faccia loro conoscere la verità, finiscono per tenere quei
ragionamenti come una precisa espressione dell'opinione generale.
Il menzionato bando è nei sensi che seguitano: «L'Europa cominciava
appena a rammarginar le sue piaghe. Riuniti in congresso a Vienna, i
potenti suoi padroni adoperavano con rara concordia a fermare le basi
d'una lunga pace, quando un impreveduto avvenimento astrinse di nuovo
tutte le nazioni (di già ammaestrate dall'esperienza, degli effetti
dell'ambizione d'un solo uomo) ad impugnare le armi. Potea tuttavia
l'Italia lusingarsi colla speranza di rimanere tranquilla frammezzo a
questi passeggeri sovvertimenti, e di già numerose truppe erano scese
dall'Alemagna a sua difesa; ma ecco che il re di Napoli, gittando la
maschera che dianzi l'avea sottratto al pericolo, senza premettere
alla guerra dichiarazione veruna, di cui altronde non potrebbe
allegare alcun motivo, contro la fede dei trattati coll'Austria, di
quei trattati cioè, ai quali egli deve la sua esistenza politica; ecco
che il re di Napoli minaccia col suo esercito di turbare la
tranquillità della bella Italia, e non contento di addurre il flagello
della guerra, tenta altresì di allumare dappertutto, mediante il vano
simulacro dell'independenza italiana, l'incendio devastatore della
rivoluzione che già gli spianava le vie della possanza per salire
dalla condizione di privato a quella di sovrano.
»Non meno straniero dell'Italia che nuovo nell'ordine dei sovrani,
egli volge con ostentazione agl'Italiani parole che appena si
addirebbero ad un Alessandro Farnese, ad un Andrea Doria, ad un
Trivulzio il Magno; e si dà per capo della nazione italiana, la quale
pure possiede proprie dinastie, regnanti da secoli ed ha veduto
nascere nelle più liete sue contrade tutta l'augusta famiglia che
regge col paterno suo freno un sì gran numero di nazioni. Or questo re
d'una dell'estremità dell'Italia vorrebbe traviare gl'Italiani con la
speciosa idea dei naturali confini, e farli correre dietro alla
fantasima di un unico regno, a cui sarebbe appena possibile assegnare
una capitale: tanto è vero che la natura stessa vuol che l'Italia sia
pârtita in più Stati, ammaestrandoci con ciò, non dall'ampiezza del
territorio, non dal massimo numero della popolazione, non dalla forza
dell'armi assicurata essere la felicità dei popoli; ma bensì piuttosto
dalle buone leggi, dalla reverenza degli antichi costumi e dallo
stabilimento di una parca amministrazione. Ond'è che la Lombardia
ricorda tuttora con sensi d'ammirazione e di gratitudine i nomi
immortali di Maria Teresa, di Giuseppe II e di Leopoldo.
»Non pago d'ingannare le moltitudini eccitandole a correre dietro alla
fantasima dell'independenza italiana, il re di Napoli vuol pure trarre
in errore gl'Italiani poco prudenti, e indurli a credere che una
segreta disposizione ad assecondare i suoi disegni nutriscano quei
potentati medesimi che con meravigliosa prestezza rinnovellano ora
appunto i loro formidabili armamenti terrestri e marittimi, e che
bentosto con un atto pubblico daranno al mondo una pruova novella
della loro unione indispensabile sotto il vessillo delle stesse
massime. Non pare egli invero che, assoggettata al re di Napoli,
l'Italia potrebbe chiamarsi indipendente? Chi può dubitare che i
potentati non siensi fatti ormai capaci, non potersi dare nè pace nè
tregua con un uomo che non ha il menomo riguardo alle proprie
promesse, nè agli atti di generosità ond'è stato ricolmo dai suoi
vincitori?
»I benefizi sparsi dal nostro augustissimo imperatore e re, 1.^o su
tutto l'esercito italiano, niun membro del quale (purchè suddito) è
stato lasciato privo di mezzi di sostentamento; 2.^o su tutto il
numeroso ordine degli uffiziali civili; la cura paterna adoperata dal
governo austriaco, non appena restituito in Italia, a riunire tutti i
partiti in un solo ed a trattarli tutti come figliuoli, senz'aver
riguardo nè all'opinioni politiche, nè agli anteriori portamenti di
ognuno, seguendo anzi per quegl'istessi che l'hanno astretto ad usar
rigore, l'ispirazione di un sentimento affatto paterno; sono tutte
cose talmente notorie, che senz'altro distruggono le calunnie con
tanta enfasi spacciate dal re di Napoli!
»Lombardi! Naturalmente sincero e in niun modo vantatore per sistema,
il governo austriaco vi ha promesso la tranquillità, il buon ordine
pubblico ed una amministrazione paterna. Egli atterrà quanto vi ha
promesso. Sovvengavi dei tempi felici anteriori al 1796, delle
instituzioni di Maria Teresa, di Giuseppe II e di Leopoldo; paragonate
quel sistema di governo con quello che vi toccò sopportare di poi, e
che, fondato sopra i medesimi princìpi, vi fu annunziato con le stesse
mendaci espressioni che ora vengonvi indirizzate. La vostra soverchia
credulità alle promesse della democrazia francese, vi ha tratti di già
in rovina; siate omai più prudenti e non dimenticate che dopo
l'esperienza la vostra colpa sarebbe più grave che non sia stata
dianzi. La docilità del vostro carattere, la riflessione, frutto delle
vostre cognizioni, e l'attaccamento che il vostro augusto principe si
merita per tanti titoli, vi scorgano, v'inducano a protegger sempre il
buon ordine pubblico, e a difendere il trono e la patria.
»Milano, il 5 d'aprile 1815.
»_Il Governatore generale_
»Maresciallo BELLEGARDE.»
Ora che era egli Murat? Re d'una parte dell'Italia. Quali erano le sue
truppe? Truppe italiane. Quali i suoi divisamenti? Discacciar gli
stranieri dall'Italia, e riunire la Penisola sotto uno stesso governo.
E questi fatti emergono essi dalla lettura del bando di Bellegarde?
L'Austria non istava però senza inquietudine, e il possesso delle
novelle sue province non pareale assicurato a bastanza. Troppo pieno
era stato il trionfo, sicchè non poteano non tenergli dietro alcuni
rovesci; e la prudente Austria è più tranquilla allorchè ha fatto ai
suoi avversari alcune concessioni di poco rilievo, di quello che sia
quando gli ha spietatamente maltrattati. I fatti del 1815, la
rinnovellazione della guerra, il malumore che essa non potea non
ravvisare nel popolo milanese, furono per essa come i segni forieri
del rovescio che tien dietro al troppo splendido trionfo, e le fecer
provare un certo quale pentimento di essersi allora lasciata
trascinare dalla foga del trionfo, talmente da porre in disparte il
sistema delle transazioni. L'Austria si mostrò giudiziosa, perocchè
fece, senz'esservi in verun modo costretta, una concessione. Quanto
essa concedette era ben poco certamente; ma ciò non monta. In politica
non vi è concessione facile quando è spontanea, ed il governo che ne
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