Studi intorno alla storia della Lombardia - 03

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crollo al governo imperiale, di potere sdegnosamente ributtare le
proposte di Murat, e di far testa all'esercito austriaco. E come
sperava esso di potere impedire i progressi di quest'esercito? Voleva
forse adoperare a quest'uopo le schiere francesi rimaste in Lombardia?
No e poi no. Proponevasi di conseguire il suo intento con bei
discorsi, con deputazioni pacifiche, coll'invocare quei dilicati
sentimenti d'onore, di probità, di generosità, dai quali i Sovrani
collegati, ed in ispezieltà l'imperatore d'Austria, dovevano
certissimamente essere informati. E come mai darsi a credere che le
truppe austriache volessero passare il Mincio e venire a Milano,
quando i Milanesi, dolcemente sì, ma nobilmente le richiedessero di
non farlo? A pensare solamente ad un tal fatto, richiedevasi un grado
di perversità raro veramente, e i Sovrani alleati a buon diritto
avrebbero potuto chiamarsi offesi di un tale sospetto!
Non è egli da stupire che non uno di questi pretesi uomini di Stato
abbia posto mente alla forza onde ogni corpo costituito è di per sè
dotato? che non uno abbia detto fra sè: «Tristo è il governo presente;
ma tal quale esso è, dobbiamo sorreggerlo a tutta possa in questo
momento, per ciò solo che esiste e che noi stessi non esistiamo, qual
nazione, altrimenti che per esso, cioè a patto di avere un governo
stabilito. Stringiamocegli intorno; sorreggendolo, dirigiamolo;
parliamo in suo nome; operiamo parimenti in suo nome. Non concediamo
che infrangasi il vincolo che ci tiene insieme uniti, che il nemico ci
colga appartati gli uni dagli altri, nè che si giovi della caduta del
governo esistente per imporcene un altro a suo senno?» Siffatte
considerazioni non vennero in mente ad alcuno di quei liberali;
adoperarono essi senza posa a gittar via le armi, a spianare le mura,
ad atterrare le porte; scagliarono in mare l'ultima loro áncora di
salute, e quando poi la tempesta venne ad infuriare, quando gli
eserciti austriaci ebbero inondato il territorio, quando uscì fuor la
parola che della Lombardia faceva una provincia austriaca, quando gli
avanzi delle antiche e preziose libertà nazionali furono spietatamente
annichiliti, allora parve che si ridestassero come da lungo sonno;
volsero attorno stupidi sguardi, e gettarono profondi sospiri. Un tale
rammarichio non era, invero, una sofficiente espiazione.
Numeroso era questo partito, conciossiachè componessesi della massima
parte dell'aristocrazia milanese. Ho detto già come i giovani membri
di questa aristocrazia, che aveano ambìto le cariche di corte,
credessero lesi i loro diritti dalla preferenza che il governo dava
continuamente agli ufficiali dell'esercito e dello Stato sopra i
ciambellani e gli scudieri. Un altro motivo, non meno puerile, ma più
ancora assurdo di quello accennato, concorrea per avventura nel far
ligi al partito sedicente liberale alcuni membri della nobiltà
milanese. Strappar la corona dalle mani del principe Eugenio, non
lasciarla afferrare da Murat, tale si era l'intento degli sforzi di
questo partito. Ora da ciò dovea di necessità derivare che il trono
italico rimanesse vacante. Sopra di chi andrebbe adunque a cadere la
scelta delle potenze alleate? Dubbioso partito era quello di conferire
il titolo di re d'Italia ad un membro d'una delle case regnanti,
perchè così eccitavasi la gelosia di tutte le altre. Un principe
nativo era per avventura più adattato, perciocchè non dava luogo, per
la sua propria irrilevanza, alle rivalità e alle gelosie dei
potentati. Posta una tale massima, vedeasi chiaro che ciascuno dei
membri dell'aristocrazia milanese poteva aspirare a sottentrare in
luogo del vicerè. Colui che avrebbe saputo ingraziarsi colle potenze
alleate, mostrarsi più autorevole presso la popolazione milanese,
contribuire più potentemente a far cadere il governo franco-italico; e
che pel lustro del nome, l'altezza della propria condizione, la
riputazione di accortezza, la pieghevolezza disinvolta del carattere,
sarebbe apparso tale da giustificar la scelta dei sovrani alleati;
costui diventerebbe lo stipite fortunato di una schiatta di re. Io non
imputerò già questi matti pensieri ad alcuno in particolare, ma bensì
dirò che assai temo, non abbiano essi influito nell'accrescere il
fiero astio del partito liberale italico contro l'ordine di cose
allora esistente. Chi sa quante menti furono allettate da quell'esca
sgraziata, quanti cuori ambiziosi fremettero, in quel tempo, per
l'ansia d'una corona, se non independente, simile almeno a quella
degli altri prìncipi d'Italia, o a quella che i Visconti, i Gonzaga o
gli Estensi possedevano un tempo?
Eranvi sì in questo partito, del pari che in tutti gli altri, alcuni
uomini il cui animo, naturalmente onesto, era solo traviato da falsi
raziocini e dalla passione. Coloro, per esempio, che non avevano occhi
se non per vedere i torti del governo francese, credevano giusto il
muovere mari e monti per atterrarlo. Coloro ch'eransi veduti sì
crudelmente delusi e traditi da Napoleone, sentivansi tratti
invincibilmente a confidare nei nemici dello stesso imperatore,
ragionando all'un di presso in questi termini: «Abbiamo qui due
partiti, l'uno a fronte dell'altro; se la slealtà, la mala fede, la
durezza dell'animo e l'avidità sono il tristo corredo del primo, la
probità, il candore, la mansuetudine, la generosità saranno certamente
le doti dell'altro. Ora, il primo si è il governo francese; buttiamoci
adunque con piena fiducia nelle braccia degli Alleati, e guardiamoci
bene dal concepire il minimo sospetto contro di loro». Questo
linguaggio, ch'è pure strano assai, era adunque parlato da due classi
d'uomini; la prima composta di animi naturalmente piccioli e stolti,
cui acciecava per altra parte una soverchia vanità; l'altra, di uomini
talmente indispettiti contro il governo francese, che ottimo loro
pareva tutto che non procedesse da quest'obbietto della loro
avversione; di uomini i quali, avendo rivolta contro di esso ogni loro
diffidenza, non si trovavano più nell'intimo del cuore che miti
sentimenti da rivolgere al resto del mondo.
I capi di questo partito, che assumeva a vicenda il nome di partito
liberale o di partito italico puro, erano i conti Carlo Verri,
Federico Confalonieri, Luigi Porro, Benigno Bossi, il marchese Carlo
Castiglioni, Jacopo Ciani, ecc. Potrei fare il nome di molti altri, se
non dovessi ristrignermi ad accennare i membri più importanti di
questo partito, che sono pur quelli di cui non si puonno mettere in
dubbio da veruno le rette intenzioni.
Non so bene se giovi porre accanto di queste formidabili opinioni che
cagionarono la rovina d'Italia, l'altra, più innocente, che si
aspettava la salute e l'independenza della patria dalla generosità
della Gran-Brettagna. Il lord Bentinck avea per vero pubblicato di
fresco un bando od ordine del giorno, in cui si leggevano queste
parole: «Pare e sembra che le potenze alleate, e la Gran Brettagna in
particolare, abbiano stabilito di volere l'independenza italiana».
Egli è vero altresì che l'istesso lord, che allora trovavasi a Genova,
non ometteva di recarsi in compagnia de' liberali italiani e di
lusingarli con belle parole: il che non so a qual altro fine tendesse,
se non a quello di prendersi spasso di loro; perciocchè in che mai
potea giovare alla Gran-Brettagna l'ingraziarsi presso un
picciolissimo numero di Italiani? E la Gran-Brettagna, sì bene edotta,
com'era, del destino che le potenze alleate apparecchiavano ai popoli,
poteva essa ignorare che il desiderio anche unanime di tutta Italia
non doveva essere riguardato per nulla? Checchè ne sia di ciò, il
barone Trecchi, giovane noto per la sua eleganza e la sua anglomania,
e uomo certamente onorato e ingegnoso del pari, ma pure incapace, in
quell'epoca almeno, di alcun grave pensiero, recossi a Genova dal lord
Bentinck per trattare con lui del destino dell'Italia. I particolari
di quell'abboccamento non mi sono punto noti; io non so altro se non
che vi fu di mezzo un vessillo coi colori italiani dato e ricevuto; ma
ignoro poi se sia il Trecchi che l'abbia arrecato al Bentinck per
fargliene omaggio, o se il Bentinck abbiane fatto dono egli al Trecchi
per inanimirlo. Questo partito, che non fece parlare di sè gran fatto,
non ebbe influenza nelle cose che trattavansi allora in Milano¹.
¹ Io non vo' già negare che l'Inghilterra non fosse in quell'epoca
la potenza mossa da minor interesse a volere la perdita del
regno d'Italia, e perciò quella altresì in cui più
opportunamente poteva l'Italia confidarsi; ma dico che il passo
fatto dal barone Trecchi presso il lord Bentinck era di niuna
conseguenza: perocchè in Italia non eravi partito inglese, e
l'Inghilterra, pria di prendersi briga, avrebbe richiesto non
solo che un tale partito esistesse, ma altresì che fosse più
potente di tutti gli altri insieme riuniti.
La cura di delineare e dipingere le disposizioni degli animi in questi
tempi, mi ha costretto a trasandare in quest'ultime pagine la
cronologica serie dei fatti. La ripiglio adesso per non più
scostarmene.
Ho detto che il vicerè era al suo quartier generale di Verona, e le
truppe della Lega accampate sulla opposta riva dell'Adige. Egli vi
ricevette, entrante il novembre dell'anno 1813, una lettera
dell'imperatore, il quale, vedendosi rispinto ogni dì e fino nei suoi
propri Stati dalle forze soverchianti degli Alleati, ingiugneva al
vicerè di abbandonare l'Italia e di ridursi in Francia con tutte le
sue truppe italiane e francesi, onde raccozzare così lo sforzo intiero
del suo partito. Fu il principe Eugenio immerso da questo comandamento
nelle più crudeli perplessità. Contuttochè egli fosse sinceramente
affezionato e devoto all'imperatore, suo padre adottivo e suo
benefattore; contuttochè nodrisse una preferenza pur troppo viva per
la sua patria, a detrimento dell'Italia, il vicerè era uomo tuttavia,
e principe, e padre di famiglia: vo' dire che non avrebbe rinunziato
senza rammarico ad un'alta condizione, ad uno splendido aringo, a una
corona independente. Ritirandosi con le sue truppe in Francia, poteva
Eugenio ritardar la caduta dell'imperatore; ma allontanandosi dal
paese cui egli governava tuttora, e che poteva essergli conservato, ei
rendeva certa la caduta propria. Difettava evidentemente il vicerè di
idee chiare e ferme quanto a politica. Fra quali partiti aveva egli
l'elezione? Serbar fede all'imperatore, servirlo sino all'ultimo e
perire con lui;--o abbandonare l'imperatore, e volgersi dalla parte
delle potenze alleate, come avea fatto il re di Svezia, e come parea
volesse fare Murat;--o separarsi dall'imperatore, senza contrarre
alleanza coi nemici di lui, lo sposar francamente la causa dei popoli
a lui sottomessi, chiamandosi apertamente loro capo e loro difensore
ad un tempo. Il primo partito sarebbe stato nobile, ma dissennato; il
secondo, giudizioso, ma vile; il terzo, nobile, giudizioso e generoso
ad un tempo. Ma Eugenio non seppe abbracciarne ricisamente alcuno. Non
era già sì devoto all'imperatore da indursi a rifiutare una corona di
cui potea non essere debitore ad altri che a sè stesso, e rifiutarla
per ciò solo che non la dovrebbe all'imperatore. La rettitudine del
suo cuore inducevalo a ributtar con isdegno le offerte che gli
venivano fatte da parte degli Alleati. La condotta e i disegni di
Murat eran tuttora per lui un enimma ch'ei si proponeva di spianare.
«Alla fine poi», diceva egli fra sè, «ove tra me e Murat non possa
seguire accordo, ove la caduta dell'imperatore diventi inevitabile,
sarà giunto per me il tempo di provvedere ai miei interessi e di
cercare appoggio là dove posso trovarne senza arrossire; cioè nel
popolo italiano, e nell'esercito, che non ha mai ricusato di
seguirmi».
Ma egli era troppo tardi, siccome ho detto, allorchè il vicerè
s'appigliò al partito di rivolgersi all'Italia.
Se alcuno, impugnando le mie conjetture, ricusasse di ammettere che
dal vicerè vennero fermati in quell'epoca tali progetti, io
chiederogli il come si possa spiegare in quest'ultima ipotesi la sua
contumacia agli espressi comandamenti dell'imperatore, il quale,
chiamandolo a sè con tutte le sue truppe, ingiungevagli di abbandonare
l'Italia. Un solo motivo, o per meglio dire, pretesto, allegò il
vicerè per palliare la sua disubbidienza. Disse cioè di temere la
diserzione dei soldati italiani, i quali, divelti dalla propria patria
e tratti verso la Francia, verrebbero a sapere l'occupazione del loro
paese per parte delle truppe nemiche. Ed allegava in prova le molte
diserzioni recentemente accadute nell'esercito, di soldati nativi dei
dipartimenti occupati dalle truppe nemiche. «Se i soldati delle
province venete», diceva egli, «mi abbandonano per accorrere alla
difesa dei loro propri lari, che fia per accadere allorchè tutto
quanto l'esercito si troverà nella istessa condizione in cui si
trovano ora le soldatesche native delle province venete?» E noi diremo
che darsi potea veramente che una parte dell'esercito disertasse pria
di passare le Alpi; e che inoltre le truppe italiane si comportassero
in Francia con minor animo ed ardore che in Italia; ma soggiugneremo
che in ricompenso le truppe francesi che il vicerè tenea presso di sè
avrebbero pugnato con raddoppiato valore se fossero state condotte
alla custodia dei confini della loro patria. Il vicerè non aveva egli
ragione di temere che all'udire dell'irruzione in Francia delle truppe
della Lega, i soldati francesi che erano da lui trattenuti in Italia,
non disertassero da una contrada straniera per accorrere a salvare la
loro terra natia? No, il timor puerile d'una diserzione in massa non
fu quello che indusse il principe Eugenio a resistere ai comandamenti
dell'imperatore, ma bensì il pensiero, forse non ancora del tutto
fermato nel cuor suo, di non abbandonar la contrada in cui poteva
ancora conseguire uno splendido posto. Il 9 di novembre del 1813 fu il
giorno in cui il vicerè scrisse all'imperatore il come e il perchè non
ottemperasse a' suoi comandamenti.
A mezzo circa il dicembre il re di Napoli e il vicerè d'Italia
abboccaronsi nella città di Guastalla. Il vicerè andò in calesse al
luogo convenuto; accompagnato da un segretario e da un aiutante di
campo. Giunto a Guastalla, scese all'albergo in cui trovavasi di già
il re di Napoli, e si trattenne con lui per tre ore. All'uscire dalla
conferenza, il vicerè raggiunse i suoi compagni, che stavano
aspettandolo sulla piazza posta davanti all'albergo medesimo, e
comandò brusco si attaccassero i cavalli: salito poi nel calesse
coll'aiutante di campo e col segretario, stette un lungo tempo pensoso
e tacito. Finalmente con dispetto esclamò: «Non puossi far nulla con
cotestui; egli non vuole punto farsi capace che la caduta del tronco
si trae dietro necessariamente la caduta dei rami». Aggiunse in
appresso alcune parole che parevano alludere ad un disegno che era
stato da lui stesso inutilmente proposto a Murat. I due che lo
accompagnavano in quella congiuntura, o certamente almeno uno di essi,
ch'era uomo di alto intelletto ed eloquentissimo, tentarono di far
capace il vicerè che il suo posto era in mezzo del popolo di cui aveva
accettata la sovranità, anzichè al séguito di un capo che gliel'avea
data dianzi. Era il vicerè una di quelle menti corte cui giova
appuntellar con imagini i propri raziocini, e che non si sceverano
facilmente da un'idea di cui sieno o autori o editori, per ciò solo
che troppo arduo fora per loro il surrogarvene un'altra. Il poco
frutto delle giudiziose instanze dei compagni del vicerè in quella
congiuntura, non mi fa meravigliare. La comparazione dei rami che
cadono inevitabilmente quando l'albero è atterrato, era pel principe
Eugenio un argomento irrepugnabile, contro del quale l'acume
dell'istesso Machiavelli sarebbesi spuntato. Sarebbe stato forse più
fruttuoso il contraporre un'altra imagine a quella posta innanzi dal
vicerè; il fargli, cioè, avvertire che prima di scagliare la scure
contro l'albero o troppo vecchio o condannato a perire per qualunque
altro motivo, l'ortolano spesse volte ne recide un ramo, e,
ripiantatolo diligentemente, lo inaffia, lo pota, lo protegge, lo
cresce, cosicchè diventi albero alla sua vôlta. Questa semplicissima
risposta avrebbe fatto, o ch'io m'inganno di grosso, maggior
impressione nell'animo del vicerè, che non le più sottili deduzioni
della più sana politica.
Giunse il 16 di aprile dell'anno 1814. Ognun sa che l'esercito
franco-italo, ritrattosi sul Mincio, vi si reggeva in buona
condizione, e che gli ultimi fatti d'arme erangli iti a seconda. Le
notizie dei fatti accaduti a Parigi indussero il vicerè ad appigliarsi
a quei partiti dai quali aveva fino allora aborrito. Semplice ormai,
e, per così dire, facile diventava il suo cómpito. Egli avea chiuso
l'orecchio alle insinuazioni dei sovrani alleati, da cui era stato
eccitato a scostarsi dall'imperatore e ad assicurare a sè stesso e a'
suoi successori un trono in Italia. Avea ributtato i consigli e le
instanze di Murat, che lo esortava a seguire il proprio esempio,
aggiungendovi che, se troppo grave eragli il collegarsi coi nemici del
suo benefattore, ei potea tuttavia, senza fraudare il debito della
riconoscenza, adoperarsi da sè per la propria salvezza, e giovarsi pel
suo proprio pro delle forze cui imperava. Avea in somma, finchè
l'imperatore potè essere sorretto, consacrata a lui ogni sua possa e
facoltà. Ma ora, caduto l'imperatore, pareva che i vincoli che univano
il servitore al signore, il figliuolo al padre, il beneficato al
benefattore, si fossero naturalmente disciolti. E, invero, la notizia
dell'ingresso dei Sovrani alleati in Parigi, e della abdicazione
dell'imperatore, data in Fontainebleau, mutò di repente e la posizione
e i disegni del vicerè. Ei tosto depose l'intenzione di guerreggiare,
chè bene addavasi di non potere da solo reggersi contro tutta quanta
l'Europa, in quei pachi dipartimenti italici cui possedeva tuttora.
Eragli aperta la via delle pratiche, ed egli entrovvi senza sostare.
Le cose dettegli un tempo dal re di Baviera in nome de' Sovrani
alleati gli ritornarono allora in mente, ed egli si diliberò di trarre
profitto dalle favorevoli disposizioni onde credeva che quei principi
fossero tuttora mossi a favor suo. Ben s'accorgeva allora che la nuova
sua patria dovea essere l'Italia, e che non v'era altrove, fuori di
questa contrada, posto per lui. Ond'è che non si fece pregare a
conchiudere, il 16 aprile del 1814, col maresciallo Bellegarde,
comandante le truppe austriache, un armistizio pel quale egli lasciava
in mano degli Alleati le piazze forti poste al di là dell'Adige, e si
obbligava a rimandare in Francia le truppe francesi, e ad inviare
incontanente a Parigi oratori dell'esercito e del governo a chiedere
ai Sovrani alleati la conservazione del reame d'Italia. Promettea
Bellegarde, dal canto suo, di rimanersene col suo esercito entro i
confini dei dipartimenti italici cui già occupava, e d'aspettare
l'esito de' passi che si doveano tentare a Parigi.
Non appena fu sottoscritto quell'armistizio, che le truppe francesi
avviaronsi alla vôlta dell'Alpi, e il vicerè, spediti a Parigi i
generali Fontanelli e Bertoletti in qualità di oratori dell'esercito
presso le Potenze Alleate, ragguagliò il duca di Lodi, presidente del
Consiglio dei ministri del regno d'Italia, delle cose operatesi,
ingiugnendogli di convocare il senato per la nomina di quei senatori
che si doveano spedire oratori a Parigi. Raunò in pari tempo il vicerè
presso di sè le truppe italiane, e con un bando od ordine del giorno
loro notificò gli atti e' provvedimenti ai quali era devenuto,
dichiarandosi pronto oramai a dedicarsi tutto per la salvezza della
nazione italiana. Tentò pure in allora di tirar dalla sua alcuni
ufficiali malcontenti, e fra essi il generale Mazzucchelli, cui nominò
capo del suo stato-maggiore generale. Era il Mazzucchelli malcontento
di fatti, e dal malumore erasi di già lasciato trasportare più oltre
che non potesse supporre il vicerè. Affatto inaspettata gli pervenne
in Milano la lettera della sua nomina, la quale trovò, tornando a casa
sua da una congrega tenuta dai malcontenti coll'intenzione appunto di
abbracciare un partito sul modo da tenersi per atterrare il governo
del vicerè. Adescato forse quel generale dall'alto ufficio
conferitogli, o timoroso di tradire sè stesso e i suoi disegni col
farsi vedere poco sollecito di accettare quel novello favore, partì
immantinenti alla vôlta di Mantova, dove il vicerè avea traslocato il
suo quartier-generale, senza neppure farne edotti i suoi amici. I
quali rimasero alla vôlta loro attoniti alla notizia della súbita
partenza di lui alla vôlta del campo nemico, ed entrarono in tanta
apprensione, che due di loro, il marchese Fagnani e l'avvocato Reina,
si ricoverarono subito subito in Isvizzera. Vano fu tuttavia questo
timore, nè il governo del vicerè ebbe sentore alcuno di quella
cospirazione.
Ad onta dei bandi viceregali e delle promozioni testè menzionate,
l'esercito italico rimase attonito e costernato in sulle prime dalla
notizia dell'armistizio conchiuso fra il principe Eugenio e il
maresciallo Bellegarde. Ma ben presto si dileguò quella costernazione.
Il generale Teodoro Lecchi assicurò l'esercito che il vicerè non
s'indurrebbe giammai ad abbandonarlo, e che ogni sforzo di lui
tenderebbe, all'incontro, a stabilirsi fermamente in mezzo
all'esercito stesso ed in Italia. Le quali assicurazioni mutarono
repentinamente in trasporti di gioia e di riconoscenza le mormorazioni
che prima si erano udite. Gli è certo, di fatti, che i generali
Fontanelli e Bertoletti, partitisi pria del 20 d'aprile da Mantova per
a Parigi, e latori di istruzioni ufficiali per non chiedere altro che
la conservazione e l'independenza del reame d'Italia, erano stati
inoltre incaricati, non solo dal vicerè, ma e dall'esercito, di far
instanza acciò al principe Eugenio venisse data la corona italica.
Intanto l'avviso ufficiale del conchiuso armistizio, e l'ordine di
convocare il senato per la nomina dei due oratori del governo da
spedirsi a Parigi, erano già pervenuti al gran-cancelliere
guarda-sigilli e presidente del Consiglio dei ministri, il conte Melzi
d'Eril, duca di Lodi.
I partiti che più sopra ho tentato di dipingere, scindevano anche i
membri stessi del governo e del senato. Il duca di Lodi, i conti
Paradisi, Vaccari e Prina, il conte Veneri, presidente del senato, e
molti altri de' principali personaggi erano schiettamente additti
all'ordine di cose allora esistente; ma il maggior numero dei senatori
entravano a parte delle speranze e dei desidèri dei partiti che
tenevano il di mezzo fra gli Austriaci-puri e gl'Italici. Credettero
questi di giovare alla patria cospergendo di triboli e d'ostacoli la
perigliosa via per la quale il governo franco-italico vacillante
incedea. Essi pure preparavano, a propria insaputa, il trionfo dei
fautori di Casa d'Austria; ma per quanto avversi fossero al governo
esistente, si conduceano però, nel consesso di cui faceano parte, con
un po' di quel pratico senno ond'erano dotati, e sopratutto con quello
spirito di moderazione che dovea dispiacere a que' violenti ed
irragionevoli che componeano per la massima parte le fazioni
austriaca, liberale, muratista, ec., poste al di fuori del governo.
Videsi di fatti, poco poi, quell'istesso senato che ricusava di
chiedere alle potenze alleate per re d'Italia il vicerè, fatto segno
alle invettive della plebaglia, e disciolto colla forza da essa, qual
colpevole di abbietti sensi, e di servilità verso il principe Eugenio,
e qual traditore dell'indipendenza italiana. Tale è pur sempre il
destino di coloro che presumono di traccheggiarsi fra' partiti
estremi, senz'abbracciarne o riprovarne alcuno.
La notte del 16 venendo al 17 aprile il duca di Lodi avea fatto
convocare il senato pel dì susseguente. Riunitosi il senato, il conte
Veneri, presidente, lessegli anzi tutto 1.° la lettera di convocazione
del duca di Lodi; 2.° un messaggio di questi; 3.° un'idea di decreto.
Nulla eravi di particolare nella lettera di convocazione. Il messaggio
del duca di Lodi al senato non intendeva ad altro che a spiegare le
cause che lo tenevano inchiodato in letto, e a far avvertire
quant'attenzione richiedesse l'argomento per cui era stato convocato
quel corpo. L'idea, infine, di decreto che il duca proponeva al
senato, conteneva una breve esposizione di motivi, ed era concepita
come segue:
Art. 1.° Una deputazione del senato si recherà senza dilazione presso
l'imperatore d'Austria, e lo supplicherà di ordinare la cessazione
delle ostilità fin dopo il definitivo stanziamento dei destini
dell'Italia per parte delle Potenze Alleate.
Art. 2.° S. M. l'imperatore d'Austria sarà inoltre supplicato a volere
intercedere presso gli altri Sovrani alleati a fine di ottenere che
l'Italia sia ammessa a godere dell'independenza e di tutti i benefizi
promessi all'Europa intiera.
Art. 3.° S. M. l'imperatore d'Austria sarà supplicato inoltre a voler
ottenere dagli altri Sovrani che, conformemente al quarto articolo
degli Statuti nazionali italici, l'Italia sia infine assoggettata ad
un principe independente, ed in ispezieltà al principe Eugenio, il
quale per le sue virtù, le sue cognizioni e la sua condotta si è
meritato giustamente la reverenza e l'amore degl'Italiani, ec.
Non appena il presidente conte Veneri ebbe terminata questa lettura,
il conte Guicciardi, austriaco mitigato, surse a parlare, e propose di
investigare anzitutto se la convocazione straordinaria del senato
fatta dal guarda-sigilli fosse regolare, o se, all'opposto, il duca di
Lodi non paresse adoperare piuttosto da capo dello Stato, mentre in
realtà non era altro che capo del governo. Aggiunse, non potersi
procedere alla elezione d'un nuovo re senza prima avere ottenuta
certezza che il trono era vacante di fatto e di dritto, cioè
senz'avere ricevuto la notizia ufficiale della morte del re o della
sua rinunzia, la quale ultima, inoltre, non si potea tenere per valida
se non con certe date condizioni. Parve che il conte Guicciardi
volesse trarre in lungo la cosa; e per chi pone mente che in questo
momento le truppe francesi sgombravano la Lombardia, che l'armistizio
non dovea durare se non fino all'adempimento della missione dei
deputati lombardi a Parigi, e veniva naturalmente a cessare se questa
non avea luogo, per chi pone mente a ciò non vi può essere dubbio
intorno alle vere intenzioni di costui.
Rispose il conte Dandolo, doversi quistioni siffatte non altrimenti
discussare che da una commissione; e fece instanza acciò in sull'atto
si procedesse alla nomina di commissari, e si dessero a questi almeno
due giorni di tempo per bene investigare la cosa. Indarno i conti
Veneri, Paradisi e Vaccari cerziorarono il senato che il vicerè con
sua lettera aveva fatto abilità al duca di Lodi di convocare il senato
semprechè le congiunture lo richiedessero; che per isbaglio
unicamente, e non a bella posta, egli si era espresso in modo che
pareva adoperare piuttosto qual capo dello Stato, che qual capo del
governo; invano invocarono un comitato segreto: «Non usò mai il
senato», rispose il Guicciardi, «di ridursi in comitato segreto».
Inutili furono eziandio le loro instanze acciò il senato venisse a
diffinitiva risoluzione nel giorno stesso. Stanchi alla fine di tante
contradizioni, pregarono i senatori: avvertissero che l'armistizio non
avea altro scopo che quello di aspettare l'esito delle pratiche da
affidarsi ai deputati lombardi; badassero che nulla farebbe sostare le
truppe austriache al di là del Mincio e fuori di Milano, se il senato
non mandava suoi deputati a Parigi. L'esercito raccolto in Mantova
aver già (aggiugnevano i conti Veneri, Paradisi ed altri) acclamato re
d'Italia il principe Eugenio.
Il ricusare, dopo questi assennati e forti avvertimenti, di nominar
deputati e di dar loro le necessarie instruzioni era tuttuno che
dichiarare apertamente che le truppe austriache sarebbero le
benvenute; ed un certo quale nazional pudore non concedeva in
quell'epoca una confessione siffatta. Coloro che in sulle prime si
erano mostrati disposti a non fare alcun caso del messaggio del duca
di Lodi, si tacquero; ed essendosi abbracciata la proposta del conte
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