Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I - 06

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ajutare dalla parte del mare il contr'ammiraglio Truguet, il quale
partito da Tolone con un'armata di undeci legni dei più grossi, ed
alcuni più sottili, e due mila soldati di sopraccollo, se ne giva
correndo le acque di Villafranca sino al golfo di Juan, pronto a sbarcar
le genti ovunque l'opportunità si fosse scoperta. Sua principal
intenzione era di sbarcar sotto Monaco per prender alle spalle
l'esercito che difendeva Nizza. Così i Francesi dall'Isero fino al Varo
si apparecchiavano ad assaltare gli stati di un re, che con ostili
dimostrazioni gli aveva provocati prima che gli ajuti, che aspettava
d'Alemagna, fossero giunti. Tale fu l'effetto delle rotte di Sciampagna.
Montesquiou, lasciati prestamente gli Abresti, se ne venne con tutto
l'esercito a posarsi al forte di Barraux vicino a due miglia dalle
frontiere della Savoia, donde disegnava di dar principio alla guerra.
Era suo pensiero di assaltare col grosso dell'esercito Sanparelliano, ed
il castello delle Marcie, per poscia camminar velocemente alla volta di
Ciamberì. Nel medesimo tempo per tagliar il ritorno al nemico, spediva
due grosse bande, delle quali una radendo la riva sinistra del fiume
Isero, doveva chiudere il passo di Monmeliano, e l'altra dal Borgo
d'Oisano, valicando gli aspri monti che dividono la valle della Romanza
da quella dell'Arco, serrare al tutto la strada della Morienna; nel qual
caso tutto l'esercito Piemontese sarebbe stato o preso ai passi, o poca
parte se ne sarebbe potuta salvare per le strade aspre e difficili della
Tarantasia. Aveva egli con certo pensiero avvisato, che la via
principale di ritirata ai Piemontesi era la Morienna, ed il monte
Cenisio. Ma queste due ultime fazioni non ebbero effetto, la prima per
una piena improvvisa dell'Isero, che rotti i ponti non permise il passo,
la seconda per la quantità delle nevi cadute molto per tempo sugli
altissimi monti del Galibiero.
I Piemontesi, svegliati finalmente dal suono dell'armi francesi,
tentarono di affortificarsi con artiglierìe presso Sanparelliano agli
abissi di Mians, donde pensavano di tempestar di traverso con palle sul
passo per mezzo d'artiglierìe poste sul castello delle Marcie. Ma a
questo non ebbero tempo; le artiglierìe non erano ancora ai luoghi loro,
quando la notte dei ventuno settembre, tirando venti orribili, e cadendo
una grossissima pioggia, il generale Laroque, a ciò destinato dal
generale Rossi, partito con grandissimo silenzio dal campo di Barraux,
se ne marciò contro Sanparelliano con una forte schiera. E come
disegnava, così gli riuscì di fare; s'impadronì in mezzo a
quell'oscurità improvvisamente della terra, e se non fosse stato il
tempo sinistro, avrebbe anco presa quella mano di Piemontesi che la
difendevano. Ma avuto a tempo sentore dell'approssimarsi del nemico, si
ritirarono a salvamento.
Perduto Sanparelliano con gli abissi di Mians, i capi Piemontesi privi
di consiglio, abbandonarono frettolosamente i castelli delle Marcie, di
Bellosguardo, di Aspromonte, e la Madonna di Mians. Così le fauci della
Savoia vennero da quel lato in poter dei Francesi. Ma Montesquiou,
usando celeremente la vittoria, e prevalendosi della rotta del nemico,
si spinse avanti dal castello delle Marcie con due brigate di fanterìa,
una di dragoni, e venti bocche da fuoco, alle quali fe' tener dietro
come retroguardo da due altre brigate di fanterìa, una di cavallerìa,
parimente con molti cannoni. Così tagliò e divise in due l'esercito
Piemontese; una parte fu costretta a ritirarsi verso Annecì, l'altra
verso Monmeliano. Gli rimase aperta la strada per Ciamberì, capitale
della provincia. Ma già il terrore ne aveva cacciato i regj, mostrando i
capi in sì importante fatto tanta pochezza d'animo, quanta vanità
avevano mostrato innanzi. Sì grande fu la subitezza dello spavento loro,
che i Francesi, temendo d'insidie, non s'ardirono di entrar incontanente
nella città, che se ne stette posta in propria balìa alcuni giorni. Quì
è debito nostro il raccontare come in sì pericoloso passo non vi fu
tumulto, non insulto, non saccheggio di sorte alcuna; tanta è la bontà,
e la civiltà di quel popolo Ciamberiniano. Vi arrivarono i Francesi;
furonvi accolti con tutte quelle dimostrazioni d'allegrezza, che
portavano le opinioni, e la ricordanza delle precedenti vessazioni.
Montesquiou andava molto cauto nello spignersi avanti, perchè non avendo
ancora avuto notizia dell'assalto, che doveva dare Anselmo a Nizza, e
vedendo la celerità incredibile delle genti Sarde nel ritirarsi,
dubitava ch'elleno marciassero velocemente a quella banda per opprimere
l'esercito che militava sotto quel generale. Si spargeva ancor voce, che
i Piemontesi forti di sito, e provveduti di munizioni da guerra e da
bocca, si erano fermati alle montagne delle Boge, che separano Ciamberì
dall'Isero, per ivi fare una testa grossa, e passarvi l'inverno. Però
deliberossi di sostare alquanto per ispiar meglio le cose, e per
aspettare, che portassero i tempi dal canto dell'Alpi Marittime. Solo
fece occupare il passo di Monmeliano abbandonato dai soldati reali con
quella medesima celerità, con la quale avevano abbandonato la città
capitale. La rotta loro fece cadere, come premio della vittoria, in mano
dei Francesi dieci cannoni, quantità grande di polvere, di palle, di
casse e d'altri arnesi da guerra, con magazzini pienissimi di foraggi e
di vettovaglia.
Ma egli è tempo oramai di raccontare la guerra di Nizza. Non
dimostrarono in queste parti i capi Piemontesi miglior consiglio, nè
miglior animo che in Savoia. Conciossiachè non così tosto ebbero avviso
che Anselmo aveva passato il Varo, fiume che divide i due stati, la
notte dei ventitre settembre, dandosi precipitosamente alla fuga,
abbandonarono la città di Nizza, e già davano mano a votare con
grandissima celerità quanto si trovava nel porto di Villafranca. I
Francesi usando prestamente il favore della fortuna, corsero a
Villafranca; e minacciato di dare la scalata, il comandante si diede a
discrezione con ducento granatieri, ottimi soldati, ed alcune bande di
milizie, lasciando in preda al nemico cento pezzi d'artiglierìa grossa,
una fregata, una corvetta, e tutti i magazzini reali. Così la parte
bassa della contea di Nizza venne in poter dei Francesi con incredibile
celerità, e facilità. Solo si teneva ancora pel re il forte di
Montalbano, ma poco stante si arrese ancor esso a patti. A queste
vittorie contribuì non poco l'ammiraglio Truguet con la sua armata, che
dando diversi riguardi ai Piemontesi, gli teneva in sospetto d'assalti
da ogni banda, e loro fece precipitar il consiglio di ritirarsi dal
littorale.
Anselmo, avuto Nizza, Villafranca, e Montalbano, si spinse avanti per la
valle di Roia, e non fece fine al perseguitare, se non quando arrivò a
fronte di Saorgio, fortissimo castello che chiude il passo da quelle
parti, ed è come un antemurale del colle di Tenda. Ma alcuni giorni
dopo, le genti Piemontesi, avuto un rinforzo di un grosso corpo
d'Austriaci, ed assaltato con molto impeto il posto di Sospello, se ne
impadronirono. Nè molto tempo vi dimorarono, perchè ritornato Anselmo
col grosso di tutto l'esercito, se lo riprese, e di nuovo Saorgio
divenne l'estremo confine dei combattenti.
Queste spedizioni dei Francesi nella provincia di Nizza costarono poco
sangue; perchè la ritirata dell'esercito Sardo fu tanto presta, che non
successero se non poche, e leggieri avvisaglie; nè i conquistatori si
scostarono dai termini dell'umanità e della moderazione. Assai diverso
da questo fu il destino dell'infelice Oneglia; poichè accostatasi
l'armata del Truguet a quel lido, e mandato avanti un palischermo per
negoziare, gli furon tratte le schiopettate, per le quali furono uccisi,
o feriti parecchi, caso veramente deplorabile, e non mai abbastanza da
biasimarsi. Però l'armata francese accostatasi vieppiù, e schieratasi
più opportunamente, che potè, cominciò a trarre furiosamente contro la
città. Quando poi per il fracasso, per la rovina, per le ferite e per le
morti, l'ammiraglio credè, che lo spavento avesse fatto fuggire i
difensori, sbarcò le genti che aveva a bordo, le quali unite ai marinari
s'impadronirono della città, e la posero miserabilmente a sangue, a
sacco ed a fuoco; compassionevole punizione dei violati messaggeri di
pace. Questa fu mera vendetta. Oneglia, cinta da ogni parte dalle terre
del Genovesato, era luogo di poco profitto; perciò i Francesi
l'abbandonarono, e l'armata loro, toccato Savona, e posatasi alquanto
nel porto di Genova, se ne tornò poco tempo dopo a Tolone. Essendosi ora
mai tanto avanzata la stagione, che non si potea guerreggiare, se non
con molto disagio, si posarono dalle due parti le armi tutto l'inverno,
attendendo solo a far apparecchi più che potevano gagliardi, per tornar
sulla guerra con frutto, tosto che il tempo s'intiepidisse. In mezzo a
questo silenzio dell'armi nulla occorse, che sia degno di memoria, se
non se la differenza del procedere dei Savoiardi e dei Nizzardi verso i
Francesi, avendo i primi mostrato molta inclinazione per loro, e
desiderio di accomodarsi alle fogge del nuovo governo: al contrario i
secondi fecero pruova di molta avversione, e di volersene rimanere nel
termini del governo antico. Non è però da passarsi sotto silenzio, che
sebbene l'inclinazione verso le nuove cose fosse molto maggiore in
Savoja che a Nizza, non pochi ciò non pertanto fra coloro, i quali in
quel paese viveano nei primi gradi della società, o nobili o
ecclesiastici che si fossero, o per fede verso l'antico sovrano, o per
paura del nuovo si resero fuggitivi, oppure rimasti essendo nelle loro
antiche sedi, soggiacquero alle carcerazioni, ed alcuni eziandio agli
estremi supplizj. Degno altresì di commemorazione si è, che i soldati
del reggimento di Savoja dispersi per la subita invasione dei Francesi,
di propria volontà, per istrade e sentieri insoliti trapassando,
tornarono alle loro bandiere, e sotto i consueti capi si rannodarono,
esempio di fede dato dai più umili figli di quell'alpestre nazione: il
quale effetto fu poi rinnovato circa venti anni più tardi dai generosi
Spagnuoli invasi dalle armi Napoleoniche.
Pervenuta a notizia di Montesquiou la conquista di Nizza, si mise in sul
voler cacciar del tutto le genti Sarde dalla Savoja. A queste fine
ordinò a Rossi, che cacciandosi avanti le truppe del re, le spignesse
fino al Cenisio per la Morienna, ed a Casabianca fino al piccolo S.
Bernardo per la Tarantasia; il che eseguirono con grandissima celerità,
e quasi senza contrasto da parte del nemico. Anzi è da credere, che se
Montesquiou, invece di soprastarsi, come fece, per aspettar le nuove di
Nizza, fosse, dopo la conquista di Ciamberì, camminato con la medesima
celerità, si sarebbe facilmente impadronito di queste due sommità
dell'Alpi con grande suo vantaggio, e con maggiore speranza di andar a
ferire, alla stagione prossima, il cuore stesso del Piemonte, tanta era
la confusione delle genti regie. Aix, Annecì, Rumilli, Carouge,
Bonneville, Tonone, e l'altre terre della Savoia settentrionale,
abbandonate dai vinti, riconobbero l'imperio dei vincitori. Così questa
provincia venne tutta, non senza grande contentezza pubblica e privata,
in potestà dei Francesi. La quale possessione per quell'inverno venne
loro assicurata dalle nevi strabocchevolmente cadute sui monti, le quali
indussero da queste bande la medesima cessazione dall'armi ed anche più
compiuta, che era prevalsa nell'Alpi Marittime.
In cotal modo un paese pieno di siti forti, di passi difficili, di
torrenti precipitosi, fu perduto pel re di Sardegna, senza che nella
difesa del medesimo si sia mostrato consiglio o valore. Del qual
doloroso caso si debbe imputar in parte il re medesimo per aversi voluto
scoprire, a cagione de' suoi pensieri tanto accesi alla guerra, molto
innanzi, che gli ajuti austriaci arrivassero in forza sufficiente, e per
aver dato il più delle volte i gradi militari a coloro, che più miravano
a comparire, che ad informarsi nell'arte difficile della guerra.
Certamente error grande fu quel di Vittorio di metter l'abito militare
ad ogni giovane cadetto che si appresentasse, e di mandargli sulle prime
alla guerra, come se l'arte della guerra ed il romor dei cannoni non
fossero cose da far sudare, e tremare anche i soldati vecchi. I nobili
poi ci ebbero più colpa del re, pel disprezzo, non so se mi dica
ridicolo, od assurdo, in cui tenevano i Francesi. Pure fra di loro non
pochi erano che modesti e valorosi uomini essendo, detestavano i male
avvisati consigli, e sentivano sdegno grandissimo della vergogna
presente.
La rotta di Savoja, già sì grave in se stessa, fu anche accompagnata da
accidenti parte terribili, parte lagrimevoli. Piogge smisurate, strade
sprofondate, carri rotti, soldati alla sfilata parte armati, parte no,
gente fuggiasca di ogni grado, di ogni sesso, e di ogni età, terribili
apparenze e di cielo, e di uomini, e di terra. Ma fra tutti muovevano
compassione grandissima i fuorusciti Francesi, i quali confidandosi
nelle parole dei capitani regj eransi soprastati a Ciamberì fino agli
estremi, ed ora cacciati dalla veloce furia che loro veniva dietro, non
potevano nè stare senza pericolo, nè fuggire con frutto. Imperciocchè a
chi mancava il denaro per povertà, a chi la forza per infermità, a chi
le bestie, od i carri per trasferirsi; perchè non se ne trovavano per
prestatura nè amichevole, nè mercenaria, ed in tanto scompiglio era
venuto meno il consiglio di prevedere e di provvedere. Spettacolo
miserando era quello, che si vedeva per le strade che portano a Ginevra
ed a Torino, tutte ingombre di gente caduta da alti gradi in un abisso
di miseria. Erano misti i padri coi figliuoli, le madri con le
figliuole, i vecchi con i giovani, e fanciulle tenerissime ridotte fra i
sassi e il fango a seguitar i parenti loro caduti in sì bassa fortuna.
Vi erano vecchi infermi, donne gravide, madri lattanti e portanti al
petto le creature loro certamente non nate a tal destino. Nè si desiderò
la virtù o la carità umana in sì estremo caso, perchè furono viste
spose, figliuoli, fratelli, servidori non proscritti voler seguitare
nelle terre strane, anche a mal grado dei parenti e padroni loro, gli
sposi, i padri, i fratelli, ed i padroni, posponendo così la dolcezza
dell'aere natìo alla dolcezza del ben amare e del ben servire; secolo
veramente singolare, che mostrò quanto possano fra l'umana generazione
la virtù ed il vizio, l'una e l'altro estremi. Ma se era il viaggiar
crudele, non era miglior lo starsi; alberghi pieni, o niuni su quelle
rocche, e bisognava pernottar al cielo, e il cielo era sdegnato, e
mandava diluvj di pioggia. A questo, soldati commisti che fuggivano
sbandati, armi sparse quà e là, un tramestìo d'uomini sconsigliati, un
calpestìo di bestie, un romor di carrette, un furore, un dolore, una
confusione, un fremito, aggiungevano grandissimo terrore a grandissima
miseria. Quanti si sono visti cresciuti ed allevati in tutte le dolcezze
di Parigi, ora non trovar manco quel ristoro, che a gente nata in umil
luogo abbonda nel corso ordinario della vita! Quanti gravi magistrati,
dopo aver ministrato la giustizia nei primi tribunali del nobilissimo
reame di Francia, e vissuto una vita integerrima, ora travagliosamente
incamminarsi ad un esiglio, di cui non potevano prevedere nè il modo, nè
il fine! Quante nobili donne, che pochi mesi prima speravano di dar
eredi a ricchissimi casati nei palazzi dei maggiori loro, ora vicine a
partorire, fra lo squallore di tetti abjetti ed alieni, a padri venuti
in povertà figli più poveri ancora! Quante fanciulle richieste prima da
principi, non sapere ora nè a qual rifiuto andassero, nè a qual
consenso! Quanti capitani valorosi, ed invecchiati nella milizia, ora
che per la fralezza dei corpi loro avevano più bisogno del riposo e
dello stato, mancati il riposo e lo stato, correre raminghi sotto cielo
straniero, cacciati da quei soldati medesimi, ai quali avevano e l'onore
ed il valore insegnato! Erano le strade, per donde passavano, piene di
gente instupidita a sì miserabile caso, od intenerita a tanta disgrazia.
E spesso trovarono sotto gli umili tugurj più ristoro e più consolazione
che non s'aspettavano. Così per molti dì e molte notti, su per le vie di
Ginevra e di Torino, la tristissima comitiva mostrò quanto possa questa
cieca fortuna nel precipitare in fondo chi più se ne stava in cima.
Eppure in mezzo a tanto lutto la natura Francese era tuttavia
consentanea a se medesima. Imperciocchè uscivano dagli esuli non di rado
e canti, e risi, e piacevolezze tali, che pareva piuttosto, che a festa
andassero, che a più lontano esiglio. Vedevansi altresì uomini
gravissimi o galoppanti sulla fangosa terra, o dentro, o dietro le
carrozze stanti, recarsi con le capellature acconce, e con croci, e con
nastri, e con altri segni dell'andata fortuna. Tanto è tenace ciò che la
natura dà, che la sciagura non lo toglie! Ma giunti i miseri fuorusciti
in Ginevra ed in Torino, non si può spiegare quanto fosse il dire, il
guardare, ed il pensare degli uomini. Gran cose aveva rapportato la fama
di Francia; ma ora ai più pareva, che il fatto fosse maggior del detto;
chi andava considerando quel che potesse fare una nazione furibonda, che
usciva dai proprj confini; chi il valore de' suoi soldati, e chi la
contagione delle sue dottrine sostenute da tanta forza. Chi pensava alla
vanità di coloro che l'avevano predicata vinta, e chi all'imprudenza di
coloro che l'avevano provocata potente. Meglio, sclamavano, fora stato
il lasciarla lacerare da se stessa, che il riunirla con le minacce;
meglio ammansarla, che irritarla: tutti poi affermavano esser venuti
tempi pericolosissimi, essere minacciata Elvezia, essere minacciata
Italia; già già titubare la società umana in Europa.
A Torino tutti questi discorsi si facevano, ed altri ancor più gravi.
Quest'essi, dicevano (poichè nelle disgrazie gridar contro il governo è
sfogo e consolazione), quest'essi sono i frutti di tante spese, di tante
leve, di tanti vanti? Essersi per questo esausto l'erario, le
contribuzioni fatte insopportabili? Per questo chiedersi al pontefice la
vendita dei beni del clero? Per questo aumentarsi il debito dei monti?
Essersi congiunta la vergogna al danno! A questo estremo essersi ridotti
soldati valorosi per colpa di comandanti inesperti! Trattarsi la salute
di tutti, ma principalmente dei nobili: ai nobili spettarsi maggior
valore, non insolentire nella sicurtà, non perdersi d'animo nel
pericolo. Ottimo essere il re Vittorio, amarlo tutti, desiderar tutti la
salute sua; ma perchè separar la nazione in due con metter dall'una
parte i pochi coi privilegj, dall'altra i più coi gravami? Parlasse, si
mostrasse padre comune, e vedrebbe correre volonterosi i popoli per
istornare dal felice Piemonte il fatale pericolo.
Intanto gli esuli facevano pietà, e con la pietà nasceva il terrore.
Tutta la città era contristata, e piena di pensieri funesti. Ma tanta
era la fermezza della fede dei Piemontesi nel re loro, che pochi
pensavano a novità, alcuni desideravano qualche riforma nel reggimento
civile e politico dello stato; tutti volevano la conservazione della
monarchìa, ed i peggiori tratti che si udivano contro il governo, più
miravano ad ammenda, che a satira.
Il governo mosso da accidente tanto improvviso e tanto pericoloso,
poichè cominciaronsi a sgombrare i primi timori, andava maturamente
pensando a quello che fosse a farsi. Il cantone di Berna fu richiesto
d'ajuto, ma senza frutto; l'Austria fu richiesta ancor essa, e con
frutto, perchè il fatto toccava anche a lei. Laonde reggimenti Tedeschi
arrivavano a gran giornate dalla Lombardìa in Piemonte, e s'inviavano
prestamente alle frontiere, massime verso il colle di Tenda.
Addomandossi denaro in presto a Venezia, che ricusò, fondandosi sulla
neutralità. Si spedirono corrieri per rappresentare il caso in
Inghilterra, in Prussia ed in Russia. Allegavasi, essere il re solo
guardiano d'Italia: se si rompesse quell'argine, non sapersi dove avesse
a distendersi quella enorme piena; starsi di buon animo il re, ma ove
mancano le forze proprie, abbisognar gli ajuti altrui. Cercavasi anche
di scusare le rotte di Nizza e di Savoia con dire, che quei paesi non
erano difendevoli, se non con grossi eserciti; le forze che là s'erano
inviate, essere state sufficienti non solo per difendere, ma ancora per
offendere, senza le disgrazie di Sciampagna: dopo queste non poter più
bastare neanco a difendere; per verità essere stata troppo presta, ed
anche disordinata la ritirata; ma doversi attribuire alla imprudenza di
chi comandava; essere i soldati buoni e fedeli, parato Vittorio a non
mancare a se medesimo, nè alla lega; solo richiedere, che come egli era
l'antiguardo, così non fosse lasciato senza retroguardo; e siccome egli
era esposto il primo alle percosse del nemico comune, così lo potesse
fronteggiare con gli aiuti comuni.
Tutte queste cose rappresentate con parole appropriate, avevano gran
peso. Ma la Prussia, quantunque perseverasse nell'alleanza, cominciava a
pensare a' casi suoi, siccome quella che essendo lontana dalla voragine,
aveva minori cagioni di temere. Bensì l'Austria, che già ardeva ne' suoi
proprj stati, per preservare il resto, procedeva con sincerità, e si
risolveva a mandar soccorsi gagliardi in Piemonte. L'Inghilterra, che
aveva serbato certa sembianza di neutralità sino alla morte di Luigi
decimosesto, dopo questa orrenda catastrofe s'era scoperta del tutto, e
licenziato da Londra Chauvelin, ministro plenipotenziario di Francia, si
preparava alla guerra. Però diè buone speranze al re, promettendo
denari, ed efficace cooperazione con le sue armate sulle coste del
Mediterraneo. Intanto in Piemonte si compivano i numeri delle compagnìe,
si ordinava la milizia, si creavano nuovi luoghi di monti, si gittavano
nuovi biglietti di credito, si coniavano monete che scapitavano più
della metà del valor loro edittale, pessimo, ma non evitabile rimedio
dei mali presenti, e segno troppo evidente dell'improvidenza dei
reggitori ai tempi lieti. Nel punto medesimo si provvedevano le fortezze
poste ai passi dell'Alpi con ogni genere di munizioni, e si
affortificavano le cime del Cenisio e del piccolo san Bernardo. Con
questo, usando l'opportunità della stagione, che andò freddissima, e
fatti tutti i preparamenti necessarj, si aspettava con incredibile
ansietà da tutti qual fosse per essere al tempo nuovo l'esito delle
battaglie, dalle quali dipendeva il destino d'Italia e del mondo.


LIBRO TERZO
SOMMARIO
Nuove deliberazioni dei confederati nel 1793. Istanze
dell'imperatore d'Alemagna presso al senato Veneziano.
Discorso del procurator di San Marco Francesco Pesaro in
favore della neutralità armata. Discorso di Zaccaria
Vallaresso, uno dei savj del consiglio, in favore della
neutralità disarmata. Risoluzione del senato. Deliberazioni di
Genova. Pratiche dei confederati con Lione e Marsiglia.
Disposizioni militari e politiche dei Francesi. Umori diversi
in Italia. Assalto dato a Cagliari di Sardegna dall'ammiraglio
Truguet. Paoli muove la Corsica, e la toglie all'imperio di
Francia. Guerra sull'Alpi: fatto di Raus favorevole ai regj.
Minacce superbe degl'Inglesi a Toscana ed a Genova.
Insinuazioni dei medesimi a Venezia. Deliberazione del gran
mastro dell'ordine di Malta contro la Francia. Moti
considerabili contro il consesso nazionale in varie provincie:
Lione e Marsiglia si sollevano. Fatti d'armi. I regj sono
respinti dalla Savoia, e da Nizza; Marsiglia è presa, Lione si
arrende. Tolone si dà ai confederati. I repubblicani
l'oppugnano, e lo prendono di assalto. Spoglio fatto dai
confederati nell'andarsene.

La ritirata così subita delle genti regie dalla Savoia e dal contado di
Nizza, e la cacciata a forza degli eserciti Tedeschi delle terre
Francesi verso il Reno, diedero molto a pensare agli alleati. Tra per
questo, e per l'andar sempre più crescendo a cagione delle vittorie, e
di più feroci instigamenti l'appetito delle cose nuove, la furia delle
menti in Francia, eglino s'accorsero, che assai più dura impresa si
avevano per le mani di quanto avevano a se medesimi persuaso; nè mai
tanto discapito dalle credenze al fatto aveva la fortuna recato, che pur
sì grandi ne suol mostrare, quanto a questi tempi. Bande tumultuarie ed
indisciplinate, come le chiamavano, avevano vinto eserciti floridissimi;
capitani di poco o nissun nome avevano superato per arte militare
generali, che erano in voce dei primi per tutte le contrade d'Europa.
Coloro ancora, i quali si erano concetto nell'animo di piantar
facilmente le insegne della lega sulle mura di Parigi e di Lione, a mala
pena potevano difendere i dominj proprj dagli assalti di un nemico poco
prima disprezzato, ed ora vittorioso ed insultante.
Ciò nondimeno i confederati non vollero ristarsi, sperando che
coll'andar più cauto, poichè si era conosciuto di quanto fosse capace
quella furia Francese, e coll'accrescer le forze proprie, e con l'unione
di aliene, si potesse mutar la fortuna, e compensar le perdite passate
coi guadagni a venire. Tal è la costanza delle menti Tedesche, che più e
meglio ancora che l'impeto, le fa riuscire ad onorate imprese. L'Austria
ed il Piemonte, siccome più vicini al pericolo, procedevano con animo
più sincero della Prussia, la cui congiunzione con la lega già forse
incominciava a vacillare. L'Austria massimamente applicava i pensieri
alla preservazione de' suoi stati in Italia, ai quali già si era
avvicinata la tempesta, e che sono parte tanto principale della sua
potenza. Perlochè si preparavano con molta diligenza tutte le
provvisioni necessarie alla guerra, tanto negli stati Austriaci, quanto
nel Piemonte, e si tentava ogni rimedio per impedire la passata dei
Francesi. Perchè poi i popoli provocati da quelle lusinghevoli parole di
libertà e d'uguaglianza, non solamente non si congiungessero con coloro
che procuravano la turbazione d'Italia, e non facessero novità, ma
ancora sopportassero di buona voglia tutto quell'apparato guerriero, e
non si ristessero a tanto romor d'armi, usavansi i mezzi di persuasione.
Il più potente era la religione: spargevansi sinistre voci: essere i
Francesi nemici di Dio e degli uomini, conculcare la religione,
profanare i tempj, perseguitare i sacerdoti, schernire i santi riti,
contaminare i sacri arredi, e facendo d'ogni erba fascio, proteggere
gl'increduli ed uccidere i credenti. I vescovi, i preti, i frati
intendevano accesamente a queste persuasioni; se ne accendevano
mirabilmente gli animi del volgo.
Parte essenziale dei disegni della lega erano le deliberazioni del
senato Veneziano. L'imperatore conghietturando, che il terrore cagionato
dall'invasione di Savoja e di Nizza, e quell'insistere così vicino sulle
frontiere del Piemonte di un nemico audace, e che mostrava tanta
inclinazione alle cose d'Italia, avessero mosso e disposto il senato a
piegarsi alla sua volontà, aveva con efficacissime parole dimostrato,
che era oramai tempo di non più procedere con consigli separati, e di
pensare di comune accordo alla salute comune. Rappresentavagli, non
isperasse preservare lo stato, se quel diluvio di gente sfrenata,
valicati i monti, inondasse Italia; voler fare e per se, e per gli
sforzi contemporanei del suo generoso alleato il re di Sardegna, quanto
fosse in potestà sua per allontanare da quel felice paese tanta
calamità; ma esser feroci i Francesi, e gli eventi di guerra incerti,
vano pensiero essere il credere, che chi fa spregio dell'umanità e
conculca ogni legge divina ed umana, rispetti le neutralità, disprezzare
i Francesi la neutralità ed amar meglio un nemico aperto, che un amico
dubbioso; avere egualmente in odio le aristocrazìe, che le monarchìe, ed
il prestar fede alle protestazioni amichevoli loro essere un volersi
ingannare da per se stesso; poter concludere il senato della sincerità
loro dai tentativi fatti da loro a Costantinopoli per concitare contro
di lui la rabbia Ottomana; poter giudicare della moderazione dalle
insolenze già fin d'ora usate in sul mare verso le navi della
repubblica, esser sempre disordinata la natura Francese, ma ora per la
rivoluzione esser disordinatissima; nè esser di soverchio tutte le forze
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