Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I - 14

marchese d'Albarey, che gli dissuade. Si viene di nuovo
all'armi. Battaglia di Loano succeduta addì ventitrè di
novembre del 1795. Suoi importanti risultamenti.

Erasi la fortuna, sul finire del precedente anno, mostrata favorevole
alle armi dei repubblicani non solamente dalla parte d'Italia, ma
eziandìo, e molto più verso la Spagna, i Paesi Bassi, e quella parte
della Germania, che si distende sulla riva sinistra del Reno: che anzi
in questi ultimi paesi tanta era stata la prosperità loro, che cacciati
al tutto gli eserciti Inglesi, Olandesi, Prussiani, ed Austriaci, si
erano fatti padroni del Brabante, dell'Olanda, e di tutta la Germania di
quà dal Reno, sì fattamente che minacciando di varcar questo fiume,
niuna cosa lasciavano sicura sulla sua destra sponda. Tante e così
subite vittorie davano timore, che la confederazione si potesse
scompigliare, e che alcuno fra gli alleati, disperando dell'esito finale
della guerra, pensasse ad inclinar l'animo ai Francesi, e ad anteporre
una pace, se non sicura, almeno manco pericolosa, ad una contesa, il cui
fine era oramai divenuto, se non del tutto impossibile, certamente molto
incerto a conseguirsi. A questo si aggiungeva, che il reggimento che si
era introdotto in Francia dopo la morte di Robespierre, mostrava e più
moderazione verso i cittadini, e maggior temperanza verso i forestieri.
Dannava le immanità del governo precedente, dannava gl'incentivi o
subdoli o superbi usati verso i sudditi, e verso i principi forestieri.
Protestava voler vivere amico di tutti, e non consentire a turbar la
pace altrui, se non quando altri turbasse la sua. Ogni cosa anzi
inclinava ad un quieto e regolato vivere: solo dava fastidio quel nome
di repubblica, al quale suono i principi d'Europa penavano ad avvezzare
le orecchie, prevedendo, che questo nome solo, e con quest'allettamento
della libertà, che i Francesi pretendevano negli scritti e nelle parole
loro, e che con tanto maggior efficacia opera nella mente dei mortali,
quanto ella è una immagine vaga e non bene definita, basterebbe col
tempo, senza che necessaria fosse la forza, a partorir variazioni
d'importanza, ed a cambiar l'ordine antico. Non ostante, essendosi le
cose ridotte in Francia a maggior moderazione, si era il pericolo di
presenti turbazioni allontanato, e si dubitava che cresciuto dall'un de'
lati il terrore delle armi Francesi, diminuito dall'altro il pericolo
delle forsennate suggestioni, prevalesse in alcun membro della lega la
volontà di procurar i proprj vantaggi, con danno di tutti o di alcuno
dei confederati. Massimamente non si stava senza apprensione che la
Prussia facesse pensieri diversi dai comuni, sì pel desiderio della
bassezza dell'Austria, sì per le antiche sue consuetudini con la
Francia, e sì per timore della Russia, che continuamente stimolava e non
mai ajutava. Di ciò se n'erano già veduti appropinquare alcuni effetti,
perchè il re Federico Guglielmo, ora ritirava le sue genti dal campo di
guerra, ora voleva mettere a prezzo la cooperazione loro, ed ora dannava
le leve Germaniche per istormo. Insomma pareva a chi guardava
dirittamente, che questo membro della lega avesse frappoco a separarsi
dai consiglj comuni; il quale caso quanto peso fosse per arrecare nelle
cose d'Europa, è facile vedersi da chi conosce e la sua potenza, e la
sede de' suoi reami. Si temeva pertanto, che l'inverno, il quale
acquetando l'operare risveglia il deliberare, potesse condurre qualche
negoziato col fine di porre discordia nella lega, e che ove la stagione
propizia al guerreggiare fosse tornata, le armi dei Francesi avessero a
fare qualche grande impeto con insinuarsi nelle viscere di uno, o di più
dei rimanenti alleati. Ma già avevano i Francesi verso Germania
acquistato quanto desideravano; poichè signori dell'Olanda, signori
delle province Germaniche poste di quà dal Reno, a loro non rimaneva
altra cagione di condursi a far guerra sulla sponda destra di quel
fiume, se non quella di sforzare con continuate vittorie l'imperator
d'Alemagna a conoscere la repubblica loro, ed a concluder la pace con
lei. Ma sarebbe stato il cammino lungo, e forse non sicuro; poichè
l'Austria, sebbene sbattuta dalla fortuna, era tuttavìa formidabile,
massime se si venissero a toccare gli stati ereditarj. Per lo che
avvisavano, lei potersi assaltare con minor pericolo, e col medesimo
frutto da un'altra parte.
Quanto alla Spagna, sebbene i Francesi si fossero aperta la strada nel
cuore di quel regno coll'acquisto delle fortezze di Fontarabia, e di
Figueras, non ponevano l'animo a volervi fare una invasione
d'importanza; perciocchè e il paese era povero, e le opinioni contrarie,
e la posizione tanto lontana dagli altri luoghi nei quali si combatteva,
che non si poteva nè operare di concerto, nè secondare i casi prosperi,
nè ajutare i sinistri. Nè si credeva che abbisognassero gli estremi
sforzi, ad una inondazione totale di forze repubblicane per costringere
la Spagna alla pace: anzi credevano i Francesi, che un romoreggiare in
sui confini a ciò bastasse. Pareva poi anche loro una invasione di quel
reame cosa troppo insolita da potersi tentare così alla prima, opinando
che l'essersi sempre astenuti i loro maggiori dall'invadere quella
provincia, non fosse senza gravi ed efficaci ragioni. Oltre a questo
aveva forza nei consiglj di Spagna una condizione particolare; perchè
salito pel favor della regina ad immoderata potenza il duca d'Acudia,
avvisavano i Francesi, accortissimi nel pesare le condizioni delle corti
straniere, che il duca pensasse piuttosto a solidare la sua autorità,
allontanando con un accordo un pericolo gravissimo, che a mantenere
l'integrità della fama del nome Spagnuolo, e quanto richiedeva in quella
occorrenza tristissima di tempi la dignità della corona di Spagna.
Restava l'Italia, alla quale si prevedeva che si sarebbe piuttosto che
in altro luogo voltato il corso delle armi Francesi: per questo avevano
i repubblicani con infinito sforzo superate le cime delle Alpi e degli
Apennini; per questo ordinato ai passi l'esercito vincitore di Tolone;
per questo allettato con promesse e con lusinghe il re di Sardegna; per
questo adulato Genova, addormentato Venezia, convinto Toscana, e turbato
Napoli; per questo risarcivano a gran fretta i danni di Tolone con
crearvi un navilio capace ad operare con forza sulle acque del
Mediterraneo; per questo stillavano continuamente nei consigli loro,
come, quando, per quale via, e con quali mezzi dovessero assaltar
l'Italia. Era la penisola in questo anno la principal mira dei disegni
loro, perchè speravano, per la debolezza e disunione de' suoi principi,
poterla correre a posta loro, perchè malgrado delle funeste pruove fatte
in ogni età, il correre questa provincia è sempre stato appetito
principalissimo dei Francesi. Conculcate poi l'armi Austriache in lei,
precorrendo la fama della conquista di una sì nobile regione, speravano
che l'Austria spaventata calerebbe presto agli accordi.
Sì fatti disegni, non solamente non celati studiosamente, come si suol
fare per l'ordinario, ma ancora manifestati espressamente, perchè meglio
nascesse il timore, operavano in differenti guise nella mente dei
principi Italiani. Il re di Sardegna ridotto in estremo pericolo,
perduti oggimai i baloardi delle Alpi, e trovandosi con l'erario
consumato da quell'abisso di guerra, aveva grandissima difficoltà del
deliberare sì della pace che della guerra, se però non è più vero il
dire, che posto in una necessità fatale, e portato del tutto da un
destino inevitabile, altro scampo più non avesse che aperto gli fosse,
se non di pruovare, se forse l'armi, che sempre sono soggette alla
fortuna, avessero a portare nel prossimo anno accidenti per lui più
favorevoli; imperciocchè aveva da una parte a fronte un nemico che egli
stimava tanto infedele nella pace quanto era veramente terribile nella
guerra, ed il paese suo era occupato da grossi battaglioni d'Austriaci,
per modo che lo sbrigarsi dai medesimi sarebbe stata impresa
difficilissima, ed anche pericolosa. Per la qual cosa o fosse elezione,
o fosse necessità, deliberossi di non separare i suoi consiglj da quei
de' confederati, e di continuare piuttosto nell'amicizia Austriaca già
pruovata e consenziente alla natura del suo governo, che di darsi in
braccio ad un'amicizia non pruovata e contraria ai principj della
monarchìa. Gli pareva anche odioso ed indegno del suo nome il rompere
gli accordi di Valenziana così freschi, e prima che si fosse
sperimentato che valessero o non valessero alla salute del regno. Per
verità l'Austria, commossa dal pericolo imminente, che i Francesi
superate le Alpi, ed annientata la potenza Sarda inondassero l'Italia,
non differiva le provvisioni per procurar l'esecuzione dei patti di
Valenziana; perchè oramai non si trattava soltanto della salute di un
alleato, ma bensì della propria, e quello che forse la fede non avrebbe
fatto, il faceva la necessità; perlocchè si dimostravano dalla parte
della Germania ogni dì più efficaci movimenti, le genti Tedesche
ingrossavano in Piemonte, e già componevano un esercito giusto, e capace
di tentare, unito al Piemontese, fazioni d'importanza. Così, sebbene già
si vedesse in aria, che qualche alleato avesse a far variazioni dalle
parti di Germania, dimostravano i confederati speranza grande di poter
porre le cose d'Italia in tale stato, che per poco che la fortuna avesse
a guardare con occhio più benigno le armi loro, si avrebbe potuto
opporre un argine sufficiente contro quel fiume tanto impetuoso, e tanto
formidabile. Adunque il re, posto dall'un de' lati ogni pensiero
d'accordo con un nemico, che più odiava ancora che temesse, allestiva
con ogni diligenza le armi, i soldati e le munizioni. Nè potendo lo
stato, e scemato di territorio e conculcato dalla guerra, sopperire al
dispendio straordinario coi mezzi ordinarj, e trovandosi oppressato
dalla necessità di danari, si diede opera a vendere in virtù di una
bolla pontificia, trenta milioni di beni della chiesa; venderonsi i beni
degli ospedali con dar in iscambio luoghi di monti; posesi un accatto
sforzato sulle professioni liberali; accrebbersi le gabelle del sale,
del tabacco, e della polvere da schioppo, ed ordinossi un balzello per
capi. Le quali imposte, che dimostravano l'estremità del frangente,
rendevano i popoli scontenti; ma però gettando somme considerabili
ajutavano l'erario a pagar soldati, esploratori, e Tedeschi. Così tra le
gravi tasse, le provvisioni straordinarie, le leve sforzate, e il romore
dell'armi sì patrie che straniere, sospesi i popoli tra la speranza ed
il timore, aspettavano con grandissima ansietà i casi avvenire.
Le vittorie dei repubblicani sui monti, che davano probabilità ch'eglino
avessero presto ad invadere l'Italia, confermando il consiglio dei Savi
in Venezia nella risoluzione presa di mantener la repubblica neutrale e
poco armata, avevano indotto al tempo medesimo il gran duca di Toscana a
far nuove deliberazioni, con trattar accordo con la repubblica Francese,
e con tornarsene a quella condizione di neutralità, dalla quale
sforzatamente, e solo coll'aver licenziato il ministro di Francia s'era
allontanato. Aveva sempre il gran duca in mezzo a tutti quei bollori,
conservato l'animo pacato, e lontano da quegli sdegni che oscuravano la
mente degli altri sovrani rispetto alle cose di Francia; non già che
egli appruovasse le esorbitanze commesse in quel paese, che anzi le
abborriva, ma avvisava, che infino a tanto che i repubblicani si
lacerassero fra di loro con le parole e coi fatti, avrebbero lasciato
quietare altrui, e che il combattergli sarebbe stato cagione, che si
riunissero a danni di chi voleva essere più padrone in casa loro, che
essi medesimi. Ma poichè senza colpa sua e pei cattivi consigli d'altri,
i Francesi, non che fossero vinti, avevano vinto altrui, per modo che
oramai quella sede d'Italia da tanti anni immune dagli strazj di guerra,
era vicina a sentire le sue percosse, pareva ragionevole che il gran
duca s'accostasse a quelle deliberazioni, che i tempi richiedevano, e
che erano conformi sì alla natura sua quieta e dolce, e sì agl'interessi
della Toscana. Quello adunque che la natura ed una moderata consuetudine
davano, volle il governo confermare col fatto: la memoria del buon
Leopoldo operava in questo efficacemente. Oltre a ciò il porto di
Livorno era divenuto, poichè erano chiusi dalla guerra quei di Francia,
di Genova e di Napoli, il principale emporio del commercio del
Mediterraneo. Quivi concorrevano gl'Inglesi col loro numeroso navilio sì
da guerra che da traffico; quivi i Francesi ed i Genovesi, o sotto nome
proprio o sotto nome di neutri, a fare i traffichi loro, massimamente di
fromenti, che trasportavano nelle province meridionali della Francia.
Levavano gl'Inglesi grandissimi romori per cagione di questi ajuti
procurati dalla neutralità di Livorno; ma il gran duca, preferendo
gl'interessi proprj a quelli d'altrui, non si lasciava svolgere, e
sempre si dimostrava costante nel non voler serrare i porti ai
repubblicani. Nè contento a questo, con molta temperanza procedendo,
ordinava che fossero aperti i tribunali ai Francesi, e venisse fatta
loro buona e sincera giustizia secondo il dritto e l'onesto. Avendo poi
anche udito che alcuni falsavano la carta moneta di Francia, diede
ordine acciò sì infame fraude cessasse, e fosserne castigati gli autori.
La quale cosa non senza un singolar piacere dall'un de' lati, e sdegno
dall'altro io narro vedendo, che in un principe Italiano, signore di un
piccolo paese, ed esposto alle ingiurie di tanti potenti tanto abbia
potuto l'amore del giusto, e di quanto havvi nella civiltà di più santo
e di più sacro; ch'egli abbia impedito e dannato un'opera sì vituperosa,
mentre appunto nel tempo medesimo uomini perversi in paesi ricchissimi e
potentissimi, per l'infame sete dell'oro, e forse per una sete ancor
peggiore, la compivano, non nascostamente, ma apertamente, e se non per
comandamento espresso del governo loro, certo con connivenza, od almeno
con tolleranza scandalosa di lui. Così le mannaje uccidevano gli uomini
a folla in Francia, così la guerra infuriava in Piemonte, così lo stato
incrudeliva in Napoli, così i falsarj contaminavano l'Inghilterra,
mentre l'innocente Toscana, non guardando nè su i cappelli i colori, nè
sulle bocche la favella, ministrava giustizia a tutti, nè si piegava più
da una parte che dall'altra. Felice condizione, in cui nè il timore
avviliva, nè la superbia gonfiava, nè l'appetito dello avere altrui
precipitava a risoluzioni inique e pericolose!
Ma divenendo ogni ora più imminente il pericolo d'Italia, pensò il gran
duca, che fosse oramai venuto il tempo di confessare apertamente quello,
che già eseguiva con tacita moderazione, sperando di meglio stabilire in
tale modo la quiete e la sicurtà di Toscana. Per la qual cosa
deliberossi al mandare un uomo a posta a Parigi, affinchè fra i due
stati si rinnovasse quella pace, che più per forza, che per
deliberazione volontaria era stata interrotta. E parendogli, siccome era
verissimo, che si dovesse mandare chi fosse grato, diede questo carico
al conte Carletti, che era sempre stato fautore, perchè i Francesi si
proteggessero, e leale giustizia tanto nelle persone, quanto nelle
proprietà avessero. Adunque fu fatto mandato al conte, andasse a Parigi,
e col governo della repubblica la pace concludesse. Molte furono le
querele che si fecero in quei tempi di questa risoluzione, e della
scelta del Carletti. Coloro a cui più piaceva la guerra che la pace,
chiamarono il conte giacobino, e per poco stette che non chiamassero
giacobino anche il gran duca. Certo era un caso notabile, che nel mentre
che solo si vedevano in Europa principi o cacciati dalle proprie sedi
per la furia dei repubblicani di Francia, od a mala pena contrastanti
contro la forza loro, un principe Austriaco fosse il primo ad accordarsi
con una repubblica insolita, e minacciosa al nome dei re. Ma il tempo
non tardò a scoprire, che quello che il gran duca ebbe fatto per solo
amore dei sudditi, il fecero altri principi assai più potenti di lui o
per consiglio di favoriti ambiziosi, o per gelosìa della grandezza
altrui. Ma era fatale, che in quella volubilità di governi Francesi,
quest'atto del gran duca non preservasse la Toscana dalle calamità
comuni, perchè vennero tempi, in cui la forza e la mala fede ebbero il
predominio: l'innocenza divenne allettamento, non scudo.
Fecero i repubblicani al conte Carletti gratissime accoglienze sì per
acquistar miglior fama, e sì per allettar altri principi a negoziare con
quel governo insolito, e terribile. Debole era il gran duca a
comparazione di Francia; ma era pei Francesi di non poco momento, che un
principe d'Europa riconoscesse quel loro nuovo reggimento, e concludesse
un accordo con lui; perchè, superata quella prima ripugnanza, si doveva
credere, che altre potenze, seguitando l'esempio di Toscana, si
sarebbero più facilmente condotte a fare accordo ancor esse. Perlocchè
fu udito con facili orecchie il conte a Parigi, ed appena introdotti i
primi negoziati, fu concluso, il dì nove febbrajo, tra Francia e Toscana
un trattato di pace e di amicizia, pel quale il gran duca rivocava ogni
atto di adesione, consenso, od accessione, che avesse potuto fare con la
lega armata contro la repubblica Francese, e la neutralità della Toscana
fu restituita a quella condizione, in cui era il dì otto ottobre del
novantatre.
Giunte in Toscana le novelle della conclusione del trattato, si
rallegrarono grandemente i popoli, massime i Livornesi per l'abbondanza
dei traffichi, e con somme lodi celebrarono la sapienza del gran duca
Ferdinando, il quale non lasciatosi trasportare agli sdegni d'Europa, e
solo alla felicità del sudditi mirando, aveva loro quieto vivere, e
sicuro stato acquistato. Bandissi la pace pubblicamente con le solite
forme, ma a suon di cannoni in Livorno in cospetto dell'armata Inglese,
che quivi aveva le sue stanze. Pubblicò Ferdinando, non aver dovuto la
Toscana ingerirsi nelle turbazioni d'Europa, nè l'integrità, o la salute
sua fidare alla preponderanza di alcuno fra i principi in guerra, ma
bensì al diritto delle genti, ed alla fede dei trattati; non aver mai
dato a nissuno causa di offenderla; essere stata imparziale, essere
stata neutrale giusta la legge fondamentale del gran ducato pubblicata
nel settantotto dalla sapienza di Leopoldo; sapere Europa come, e quando
il principe ne fosse stato violentemente, e per una estrema forza
svolto, e con tutto ciò non altro aver tollerato, se non che il ministro
di Francia si allontanasse dalle terre di Toscana; avere ciò conosciuto
la nazione Francese; però essere stata la Toscana, con la conclusione
del nuovo trattato, redintegrata di quei beni, che per forza le erano
stati tolti; volere perciò, ed ordinare, che il trattato si eseguisse, e
l'editto di neutralità del settantotto si osservasse. Perchè poi quello,
che la sapienza aveva accordato, i buoni uffizj conservassero, chiamò
Ferdinando il conte Carletti suo ministro plenipotenziario in Francia.
Introdotto al cospetto del consesso nazionale, orava dicendo, che
mandato dal gran duca in Francia a fine di ristabilire una neutralità
preziosa al governo Toscano, aveva molto volentieri accettato il carico,
siccome quello, ch'ei credeva molto onorevole ad uomo, qual egli era,
amico dell'umanità, amico della patria, amico della Francia;
fortunatissimo per lui riputare il giorno in cui aveva concluso la pace
con la repubblica Francese; essersene rallegrata Toscana con segni di
universale contento; pacifica essere Toscana, voler vivere in termini
amichevoli con tutti; aver sempre avuto i Toscani, malgrado di tutti gli
accidenti occorsi, in onore la potente nazione Francese; sforzerebbesi
egli in ogni modo per fare, che l'amicizia fra i due stati fosse
perpetua; desiderare che la pace conclusa tra Francia e Toscana fosse in
felice augurio di altre tanto all'Europa necessarie: gissero adunque,
continuassero nella temperanza testè mostrata; che sperava ben egli, che
siccome ora gli vedeva coi capi cinti di lauro, così presto gli vedrebbe
con le palme piene d'ulivo.
Rispondeva il presidente con magnifico discorso: il popolo Francese
assalito da una lega potentissima, avere, malgrado suo, preso le armi,
avere anche acquistato gloriose vittorie; ma non desiderare altra
conquista, che quella della sua independenza; volere esser libero, ma
rispettare i governi altrui; sarebbe temperato nella vittoria, come
terribile nelle battaglie; piacergli la Toscana moderazione, piacergli
le cure avute dei perseguitati, piacergli le dimostrazioni amichevoli di
Ferdinando gran duca: perciò avere tosto accettato gli accordi, che
Toscana era venuta offerendo; accettare con animo benevolo il presagio
di altre concordie; non esser nati e fatti i popoli per odiarsi fra di
loro, bensì per amarsi, bensì per travagliarsi concordevolmente a
procacciare felicità vicendevole; tali essere i desiderj, tali le più
instanti cure del Francese popolo in mezzo a così segnalate vittorie:
esser pronto a far guerra, più pronto a far pace; vedere il consesso
volentieri in cospetto suo un uomo noto per filosofia, noto per umanità,
noto per servigj fatti a Francia: augurarne sincera e durabile
concordia.
Infine, perchè non mancasse a queste lusinghevoli parole quel condimento
dell'abbracciata fraterna, come la chiamavano, gridossi romorosamente
l'abbracciata, e l'abbracciata fu fatta, plaudendo i circostanti.
Andossene Carletti molto ben lodato ed accarezzato. Così verificossi con
nuovo esempio l'indole dei tempi, che portava gioje corte e vane, dolori
lunghi e veri.
Giacchè siamo entrati in questa lunga e nojosa briga di raccontare dolci
parole e tristi fatti, non vogliamo passar sotto silenzio le
dimostrazioni non dissimili, con le quali si procedette col nobile
Querini, destinato dalla repubblica Veneziana ad inviato appresso al
consesso nazionale di Francia. Avevano coloro, che nei consigli di
Venezia prevalevano, sperato di sollidar vieppiù lo stato della
repubblica col mandar a Parigi un personaggio d'importanza, acciocchè
con la presenza e con la destrezza dimostrasse, esser vera e sincera a
determinazione del senato di volersene star neutrale. Perlochè,
adunatosi il senato sul principiar di marzo, trasse inviato
straordinario in Francia Alvise Querini, in cui non so se fosse maggiore
o l'ingegno, o la pratica del mondo politico, o l'amore verso la sua
patria; che certo tutte queste cose erano in lui grandissime.
Adunque, arrivato Querini a Parigi, ed introdotto onoratamente al
consesso nazionale, e vicino al seggio del presidente postosi, con
bellissimo favellare disse, cittadino di una repubblica da tempi
antichissimi fondata per la necessità di fuggire i barbari, e pel
desiderio di vivere tranquilla, avere ora nuova cagione di gratitudine
verso la sua patria per averlo destinato ministro appresso ad una
repubblica, che appena nata già riempiva il mondo colla fama delle sue
vittorie. Qual cosa infatti poter essere a lui più lusinghiera, quale
più gioconda di quella di comparire in cospetto del nazionale consesso
di Francia, a fine di confermar l'amicizia, che il senato e la
repubblica di Venezia alla repubblica Francese portavano? sperare la
conservazione di quest'antica amicizia sperarla, desiderarla, volerla
con tutto l'animo e con tutte le forze sue procurare, e stimarsene
fortunatissimo; recarsi ancora a felicità sua, se al mandato della sua
cara patria adempiendo, meritasse che in lui avesse il consesso fede, e
se conceduto gli fosse di vedere, che il consesso medesimo fatto
maggiore di se, e benignamente agli strazj dell'umanità risguardando,
con generoso consiglio dimostrasse, aver più cura della pace che della
guerra, ed il frutto di tante vittorie aver ad essere il riposo di
tutti.
Orava in risposta il presidente dicendo, felicissimo essere alla
repubblica Francese quel giorno, in cui compariva avanti a se l'inviato
della illustre repubblica di Venezia; poter vedere il nobile Querini in
volto ai circostanti i segni della contentezza comune; antica essere
l'amicizia tra Francia e Venezia, ma anticamente aver vissuto la prima
sotto la tirannide dei re; ora dover l'accordo essere più dolce, perchè
libera dal giogo; avere avuto pari principio le due repubbliche: sorta
la Veneziana fra le tempeste del mare, fra le persecuzioni dei barbari;
pure fra tanti pericoli avere acquistato onorato nome al mondo per la
sua sapienza, e pe' suoi illustri fatti; avere spesso le querele dei re
giudicato, spesso l'Occidente dai barbari preservato: similmente sorta
la Francese fra le tempeste del mondo in soqquadro; gente più barbara
dei Goti avere voluto distruggerla, usato fuori le armi, dentro le
insidie, chiamato in ajuto la civile discordia; ma tutto stato essere
indarno, la libertà avere vinto: non dubitasse pertanto Venezia, che
siccome pari era il principio, e pari l'effetto, così sarebbe pari
l'amicizia; avere la generosa Venezia, allora quando ancora stava la
gran lite in pendente, accolto l'inviato della Francese repubblica
onorevolmente; volere la Francia grata riconoscere con procedere
generoso un procedere generoso, e siccome la sua alleata non aveva
dubitato di commettersi ad una fortuna ancor dubbia, così goderebbe
securamente i frutti di una fortuna certa: avere potuto la Francia,
quando aveva il collo gravato dal giogo di un re, ingrata essere ed
ingannatrice, ma la Francia libera, la Francia repubblicana riconoscente
essere, e leale, e con tanto miglior animo riconoscere l'obbligo, quanto
il benefizio non era senza pericolo: andasse pur sicura Venezia, e si
confortasse, che la nazione Francese nel numero de' suoi più puri, de'
suoi più zelanti alleati sarebbe: quanto a lui, nobile Querini, se ne
gisse pur contento, che la Francese repubblica contentissima si riputava
di averlo per ministro di una repubblica amica, e che di pari
estimazione in Francia goderebbe di quella, che già si era in Venezia
acquistata: i desiderj di pace essere alle due repubbliche comuni;
confidare, sarebbero presto con la quiete universale d'Europa adempiti.
Per tale modo si vede, che per testimonio del presidente
Lareveillere-Lepeaux, che orava, Venezia era generosa, libera, amica di
Francia. Pure poco tempo dopo coloro che sottentrarono al governo, ed un
soldato uso ad ogni violenza la distrussero, chiamandola vile, schiava e
perfida.
Giunte a Venezia le novelle della cortese accoglienza fatta al Querini,
si rallegrarono vieppiù coloro, che avevano voluto fondar lo stato
piuttosto sulla fede di Francia, che sull'armi domestiche, e si
credettero di aver in tutto confermato l'imperio della loro antica
patria.
Dalla parte d'Italia, dove era accesa la guerra, incominciavano a
manifestarsi i disegni dei Francesi. Doleva loro l'acquisto fatto della
Corsica dagl'Inglesi, e desideravano riacquistarla, perchè non potevano
tollerare, che la potenza emola fermasse con la comodità di quell'isola
un piede di non piccola importanza nel Mediterraneo. Oltre a ciò le
genti accampate sulla riviera di Ponente travagliavano per un'estrema
carestìa di vettovaglia; importava finalmente, che il nome e la bandiera
di Francia si mantenessero vivi nel Mediterraneo. Fu allestita con
incredibile celerità a Tolone un'armata di quindici grosse navi di fila
con la solita accompagnatura delle fregate, e di altri legni più
sottili. Genti da sbarco, e viveri in copia vi si ammassarono: usciva
nei primi giorni di marzo, e postasi nelle acque dell'isole Iere
aspettava che il vento spirasse favorevole all'esecuzione dei suoi
pensieri.
Il vice ammiraglio Inglese Hotham, che stava in sentore a Livorno con
un'armata, in cui si noveravano quattordici grosse navi di fila, tutte
Inglesi, ed una Napolitana, con tre fregate Inglesi e due Napolitane,
ebbe subitamente avviso dell'uscita dei Francesi sì per un messo da
Genova, sì per le sue fregate più leste, che a questo fine andavano
correndo il mare tra la Corsica e la Francia. Pose tosto in alto per
andar ad incontrar il nemico, e per combatterlo ovunque il trovasse.
Dall'altra parte, uditosi dall'ammiraglio Francese Martin, al quale
obbediva l'armata, che gl'Inglesi solcavano il mare per combattere con
lui, lasciate le onerarie all'isole Iere, sciolse animosamente le ancore