Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I - 17

terribile presagio di battaglie più gravi, ed indizio probabile di
quanto i Francesi avevano in animo di fare, non tenne tanto avvertito
Argenteau, che pensasse a starsene avvisatamente. Era la notte dei
ventidue novembre, quando Massena, raunati i suoi, così lor disse:
«Soldati, il ricordare valore a voi fora piuttosto ingiusta diffidenza,
che giusto incoraggiamento; bastò sempre per animarvi a vincere, il
mostrarvi dove fosse il nemico. Ora, quantunque più numeroso di voi, si
è riparato alle rupi, confessando in tal modo coi fatti più che con le
parole, che ei non può stare a petto vostro. Ma che rupi o quali
precipizj possono trattenere i soldati della repubblica? Voi vinceste le
Alpi, voi gli Apennini già più volte, e costoro, nuovi compagni vostri,
vinsero i Pirenei: vinsero essi i soldati di Spagna, voi vinceste quei
di Sardegna e dell'Imperio: ma Sardegna ed Imperio continuano ad
affrontarvi; però voi un'altra volta vincetegli, voi fugategli, voi
dissipategli, e fia la vittoria vostra pace con l'Italia, come fu la
vittoria loro pace con la Spagna. Questi ultimi re, non ancora fatti
accorti dalle sconfitte, osano, con l'armi impugnate, stare a fronte
della repubblica; ma voi pruovate loro con l'opere, che nissun re può
stare armato contro di noi; e poichè aspettano l'estremo cimento, fate
che esso sia l'estremo per loro».
Era Massena piccolo di corpo, ma di animo e di volto vivacissimo, e
perciò abile ad inspirar impeto nel soldato Francese, già per se stesso
tanto impetuoso. Perciò alle sue parole maravigliosamente incitati
givano con grandissimo ardimento per quei dirupi, essendo la notte
oscurissima, e fatta più oscura da un tempo tempestoso. Era intento di
Massena, come si era accordato con Scherer, di urtare nel mezzo dei
confederati, di romperlo, e, separando gli Austriaci dai Piemontesi con
impadronirsi del sommi gioghi dei monti per Bardinetto, Montecalvo e
Melogno, di farsi strada ad un tempo a calarsi alle spalle dell'ala
sinistra, che avrebbe dovuto od arrendersi, o fuggire alla dirotta.
Dovevano secondare questa fazione, a dritta Scherer con un assalto forte
contro Loano, Serrurier con un assalto più molle contro il San Bernardo.
Appariva appena il giorno dei ventitre novembre, che Massena assaliva da
due bande con una foga incredibile il campo di Roccabarbena. Accorrevano
a quest'accidente impensato gli uffiziali Tedeschi ai luoghi loro, e già
trovavano qualche titubazione e scompiglio nella ordinanza loro. La qual
cosa dimostra l'inconsiderazione di Argenteau, che non avendo
presentito, come era facile, quella tempesta, aveva permesso che gli
uffiziali si allontanassero dai loro soldati. S'aggiunse un altro
infortunio, e fu che Devins afflitto da grave malattìa, e reso inabile
al comandare, si era condotto, instando la battaglia, da Finale a Novi,
con lasciare la direzione suprema dell'esercito a Wallis. Intanto ardeva
la zuffa a Roccabarbena. Laharpe e Charlet, che davano la batterìa, con
molto valore insistendo tanto fecero, che, superata ogni resistenza,
cacciarono il nemico, che si ritirava, andando a farsi forte a
Bardinetto. Quivi nacque un nuovo e terribile combattimento; perchè i
confederati, riavutisi da quel primo terrore, vi si difendevano
gagliardamente, e dal canto suo fulminava con tutte le forze Massena,
giudicando che dalla prestezza del combattere dipendesse del tutto la
vittoria. Finalmente dopo molte ferite e molte morti da ambe le parti,
prevalse la virtù dei repubblicani: entrati forzatamente in Bardinetto
uccisero quanti resistevano, presero quanti non poterono fuggire, e
s'impadronirono di tutte le artiglierìe. Ritiraronsi sconcertate e
sconnesse a modo più di fuga che di ritirata le reliquie dei
confederati, per luoghi erti e scoscesi verso Bagnasco sulla sinistra
sponda del Tanaro. Nè bastando all'intento ed all'impeto smisurato di
Massena l'acquisto di Bardinetto, mandava a Cervoni, s'impadronisse di
Melogno, ed al colonnello Suchet, pigliasse Montecalvo, luogo arido, e
quasi inaccessibile. Ebbero queste due fazioni il fine che Massena si
era proposto: in tal modo non solo fu prostrata tutta la mezzana dei
confederati, ma fu fatto abilità ai Francesi di calarsi verso il mare
alle spalle dell'ala sinistra. Il quale fatto coi precedenti fece del
tutto piegar le sorti in favor dei repubblicani. Certamente Argenteau
non diede pruova di previdenza prima del fatto, nè di avvedutezza o di
costanza nel combattimento; nè il corpo di mezzo fece quella resistenza,
che per la forza dei luoghi e pel numero dei soldati e delle artiglierìe
si era Devins di lui promesso. Ma perchè la sinistra dei confederati non
ricuperasse quello che la mezza aveva perduto, Scherer, fatto dar dentro
fortemente ai tre monticelli fortificati avanti a Loano, ed alla forte
terra di Toirano, gli superava. Nei quali fatti, ajutati anche da tiri
di alcune navi Francesi, che si erano accostate al lido tra Loano e
Finale, acquistarono buon nome i generali Augereau e Victor. Allora tra
per questo, e per essersi Suchet, ricevuto un rinforzo di tre grossi
battaglioni mandati da Scherer, calato correndo alle spalle loro, si
ritiravano i confederati verso Finale, seguitati dai repubblicani a
pressa a pressa. Serrurier, vedute le vittorie della mezzana e della
destra parte de' suoi, insisteva più vivamente contro il fianco destro
del nemico, e cacciatolo da tutti i siti, lo costringeva a ripararsi nel
campo trincerato di Ceva, dove giungevano altresì i residui lacerati e
sbaragliati della squadra d'Argenteau. Così l'ala sinistra dei
confederati si ritirava non senza scompiglio, e seguitata dai Francesi
sul littorale verso Savona, la mezzana del tutto rotta se n'era fuggita,
la destra più intiera si era accostata al forte di Ceva. Scese intanto
la notte, e conchiuse l'affannoso giorno. Sorse con lei un temporale
orribile misto di pioggia dirotta e di grandine impetuosa: serenarono i
Francesi nei luoghi conquistati. Ma non così tosto appariva l'alba del
giorno seguente, che condotti da Augereau, si misero di nuovo a
seguitare velocemente quella parte dei confederati che si ritirava pel
littorale, e già la giungevano con far di molti prigionieri. Nè quì si
contenne l'infortunio dei vinti; perchè Massena, che stava continuamente
alla vista di tutto, avvisando quello che era, cioè che il nemico, dopo
di essere passato per Finale, volesse ritirarsi pel monte San Giacomo,
era comparso improvvisamente a Gora sul ciglione della valle di Finale,
e da una parte mandava una prima squadra ad assaltare il cedente nemico,
dall'altra ne spediva una seconda, affinchè occupasse celeremente San
Giacomo. In questo modo la sinistra degli alleati, per la rotta
improvvisa della mezza, pressata da fronte, sul fianco, ed alle spalle,
non aveva altro rimedio che la sollecita fuga; alla quale quei luoghi
montagnosi, pieni di tragetti e di sentieri reconditi davano molto
favore. Chi si potè salvare, andò a far la massa in Acqui, dove i capi
attendevano a raccorre e riordinare le compagnìe dissipate; chi non
potè, cadde in balìa del vincitore. Tutte le artiglierìe, gran parte
delle bagaglie e delle munizioni, il carreggio quasi tutto, rendettero
più lieta la fortuna dei repubblicani. Andavano a svernare in Vado ed in
Savona, padroni del tutto della riviera di Ponente, e minacciando con la
presenza vicine calamità all'Italia.
Oscurarono lo splendore di questa vittoria le ruberie, i saccheggi, e
perfino i violamenti delle miserande donne commessi dai repubblicani sul
Genovese territorio. Levossene un grido per tutta Italia, che spaventata
aspettava gli estremi danni. Volle Scherer frenare tanto furore.
Pubblicava, che farebbe morire chi continuasse. Prese anche l'ultimo
supplizio de' più rei. Ma non udivano l'imperio dei capitani, e nè le
minacce, nè i supplizj spegnevano la scelerata rabbia. Certamente non
erano in questo i repubblicani scusabili, perciocchè niuna cosa può
scusare sì eccessive enormità. Pure eran stremi di ogni vettovaglia e
d'ogni fornimento: la fame e la nudità sono pur troppo male consigliere
ad ogni opera più brutta. Ma i Tedeschi e quando vennero sulla riviera
passando pei territorj del Piemonte loro alleato, massime in quei del
Cairo e del Dego, e quando se ne andarono dopo la rotta di Loano,
quantunque fossero forniti abbondantemente di ogni cosa necessaria al
vivere di soldato, commisero pari, e forse più nefandi eccessi. Così
l'Italia, lacerata dagli amici, lacerata dai nemici, in preda al furore
Tedesco, in preda al furore Francese, mostrava quale sia la condizione
di chi alletta con la bellezza, e non può difendersi con la forza.


LIBRO SESTO
SOMMARIO
Pratiche per la pace tenute in Basilea. Sono infruttuose, e
perchè. Si prepara da ambe le parti la guerra d'Italia.
Beaulieu surrogato a Devins nel comando dei confederati, e
perchè. Instanze del Direttorio di Francia presso ai
Veneziani, perchè facciano uscire dai loro stati il conte di
Lilla: debolezza del senato Veneziano. Nobile condotta del
conte in sì doloroso accidente. Buonaparte surrogato a Scherer
nel comando dei repubblicani, e perchè: sue qualità.
Situazioni delle sue genti. Sono giunti i tempi fatali, e
s'incominciano le ostilità. Battaglia di Montenotte seguìta
addì dieci, undici, e dodici aprile del 1796. Buonaparte
separa gli Austriaci dai Piemontesi. Fatto di Cosserìa.
Furiosissima battaglia di Magliani, che i Francesi chiamano di
Millesimo e che fu combattuta il dì tredici aprile. Bellissimo
fatto d'armi del colonnello austriaco Wukassovich al Dego.
Generosi lamenti di alcuni generali, e capi di truppa Francese
sugli eccessi commessi dai loro soldati. Buonaparte si volta
contro i Piemontesi. Varj fatti d'arme, specialmente quello di
Mondovì. Il generale repubblicano stimola i novatori del
Piemonte: sommossa d'Alba. Buonaparte arriva a Cherasco:
Colli, generale del re, si ritira a Carignano. Discussioni nel
consiglio regio. Tregua di Cherasco. Bando grandiloquo di
Buonaparte a' suoi soldati. Pace tra il re di Sardegna, e la
repubblica di Francia, conclusa a Parigi il dì quindici maggio
del 1796. Buonaparte perseguita Beaulieu, lo inganna, e passa
il Po a Piacenza. Battaglie di Fombio e di Codogno. Battaglia
sanguinosissima del ponte di Lodi, accaduta addì dieci di
maggio. Beaulieu si ritira al Mincio. L'arciduca lascia
Milano. Qualità dei Milanesi. Massena entra il primo in
Milano, poi Buonaparte. Umori diversi di detta città. Discorsi
di Buonaparte. Suo secondo bando grandiloquo ai soldati.
Terrori d'Italia.

A questo tempo avendo i collegati pruovato con molto danno loro qual
dura impresa fosse l'affrontarsi con quegli audaci repubblicani di
Francia, si consigliarono di voler dimostrare inclinazione alla
concordia, e porre avanti alcune proposizioni d'accordo, sì per avere
più giustificata cagione di continuar a combattere, se i repubblicani
ricusassero, e sì per aver comodità di respirare e di aspettare il
benefizio del tempo, se accettassero; e poichè la guerra era divenuta
tanto pericolosa, si risolvettero a sperimentare, se la pace apportasse
condizioni di maggior sicurezza. Per la qual cosa pensarono a tentare la
disposizione del Direttorio di Francia con introdurre qualche negoziato
a Basilea, città neutrale, e già famosa per le due paci di Prussia e di
Spagna. Siccome poi l'Inghilterra era l'anima di tutta la mole, così da
questa, ed a nome di tutti procedettero le profferte. Scriveva il dì 8
marzo Wickam, ministro d'Inghilterra appresso ai Cantoni Svizzeri, a
Barthelemi ministro di Francia, ch'egli aveva comandamento di fargli a
sapere, che la sua corte desiderava di restare informata, se la Francia
aveva inclinazione a negoziare con Sua Maestà e co' suoi alleati, a fine
di venirne ad una pace generale stipulata con giusti e convenienti
termini: se a ciò si risolvesse la Francia mandasse ministri ad un
congresso da convocarsi in quel luogo, che più sarebbe stimato
conveniente da ambe le parti. Desiderava altresì sapere, quali fossero i
generali fondamenti della concordia che piacesse al Direttorio di
proporre, affinchè si potesse esaminare, se fossero accettabili, o
finalmente, se i mezzi proposti non fossero accettati, quali altri
avesse a proporre per trovare qualche modo d'onesta composizione. Questa
proposta, la qual'era del tutto conforme ai modi soliti a usarsi fra i
principi, e che non avea in se cosa, che potesse offendere l'animo del
Direttorio fu molto risentitamente udita da lui, e diede principio a
quel costume dottorale e loquace di quei governi repubblicani ed
imperiali di Francia, di voler insegnare in casa altrui, come se meglio
non conoscesse i fatti proprj chi gli governa, di chi non gli governa.
Quindi nacque altresì quell'uso affatto insolito di dar consigli, o ad
un amico, o ad un nemico e di convertire in cagione di guerra il rifiuto
di seguitarli; uso veramente enorme, perchè fa giudice della causa una
sola delle parti, rende dubbiosa la giustizia, mette la parte contraria
nella necessità di vincere o di perire, ed opera che la guerra dipenda
in tutto dal capriccio, e dall'ambizione di un solo. Il Direttorio
comandava a Barthelemi, che rispondesse, desiderare lui la pace, ma
desiderarla giusta, onorevole e ferma; avrebbe udito volentieri le
proposte, se quel dire di Wickam di non aver autorità di negoziare non
desse sospetto intorno alla sincerità Inglese. Infatti, se incominciasse
l'Inghilterra, quest'erano le parole dottorali del Direttorio, a
conoscere i veri interessi suoi, se bramasse aprirsi di nuovo la strada
all'abbondanza ed alla prosperità, se con buona fede richiedesse di
pace, a che fine, con quale consiglio proporre un congresso, mezzo non
mai terminabile d'accordo? Perchè con termini tanto generali e sì poco
definiti, domandare alla Francia, proponesse ella un altro modo per
arrivare alla concordia? Non mostrar con questo, voler solo il governo
Inglese con queste prime offerte, acquistar per se quel favore, che
sempre accompagna chi primo mette fuori quelle gioconde parole di pace?
La speranza che abbiano ad essere senza frutto, non vedersi forse
mescolata con loro? Ma quale di questo fosse la verità, convenirsi alla
sincerità del Direttorio il palesare apertamente, a' quali patti ei
potrebbe consentire agli accordi; vietare la constituzione della
repubblica, che niun paese di quelli, che erano stati incorporati al suo
territorio, da lui si scorporasse; delle altre conquiste si
negozierebbe. Quì parimente ebbe principio quel metodo veramente
incomportabile, usato dai governi che per vent'anni l'uno all'altro
succedettero in Francia, di volere, che una legge politica interna
diventasse legge politica esterna, ed obbligatoria pei forestieri.
Rispose l'Inghilterra, anche a nome di tutti i confederati, non poter
consentire ad una condizione tanto insolita, nè altro mezzo restare se
non quello di continuare in una giusta e necessaria guerra. Così non si
seguitò più questo ragionamento, e svanirono le speranze di pace
concette dalle profferte di Basilea. Diedene l'Inghilterra avviso a
tutte le potenze confederate, coi soliti conforti dei sussidj pecuniarj,
e col far vedere che ove la pace era impossibile, si rendeva necessario
l'usar la guerra, con tutti gli sforzi, che maggiori si potessero fare.
Ognuno aveva gli occhi volti al re di Sardegna, il quale già perduto
mezzo lo stato, e prostrate le difese del restante, si vedeva vicino ad
esser prima condotto all'ultima rovina, che la guerra incominciasse pure
a romoreggiare su i confini dei suoi alleati. Conoscevano questi la
costanza del re, ma dubitavano che nel prossimo urto dell'armi, se le
battaglie fossero riuscite infelicemente, ed i repubblicani si facessero
strada nel cuore del Piemonte, si sarebbe forse alienato da loro,
sperando di ricompensare con gli ajuti di Francia, a danno ed a
pregiudizio di alcuno fra i confederati, quello che non ostante gli
ajuti loro aveva perduto. Tentarono adunque il re ammonendolo, che si
dichiarasse, quali sarebbero i suoi pensieri, se per un sinistro di
guerra, i Francesi irrompessero nelle pianure Piemontesi. Ridotto a
queste strette, rispose animosamente Vittorio, mandando anche in questo
proposito lettere circolari a tutti i principi che correrebbe con loro
la medesima fortuna, che persisterebbe nella fede, che non sarebbe per
abbandonare la sua congiunzione; non dubitassero, che i fatti non
fossero per corrispondere alla prontezza dell'animo.
L'Austria intanto, veduto che i tempi estremi erano giunti per lei in
Italia, mandava a governare le genti, in vece del Devins più prudente
che ardito capitano, ed anche scemato di reputazione per le recenti
sconfitte, il generale Beaulieu, il quale quantunque già molt'oltre con
gli anni, era animoso, vivace, ed abile per questo di stare a fronte a
quella furia Francese, che meglio si può vincere col prevenirla, che
coll'aspettarla. Nè mancava in lui la esperienza dei fatti di guerra,
essendosi già molto esercitato, nè senza gloria, nelle guerre di
Fiandra. Ma quantunque fossero in Beaulieu le qualità più necessarie in
un buon capitano, mancava in lui la cognizione dei luoghi, non avendo
mai guerreggiato in Italia, nè portò con se tante forze, quante gli
erano state promesse; perchè i sussidj Austriaci in Piemonte, quando
prima in quest'anno s'incominciò a menar le mani, ascendevano forse a
trenta mila, ma certamente non passavano quaranta mila soldati, numero
non sufficiente a difendere, non che ad offendere. Del qual fatto quale
ne sia stata la cagione, o lentezza o necessità, certo è bene, che
l'opera non fu eguale al pericolo. Oltre a ciò, sebbene a Beaulieu,
quando fu chiamato generalissimo dei Tedeschi in Italia, fosse stato
promesso che sarebbe rivocato Argenteau, che per difetto o d'animo o di
mente, era stato cagione d'infelici eventi nella riviera di Genova,
nondimeno l'aveva trovato ancora, non senza sdegno, non solo presente
all'esercito, ma ancora rettore di una forte divisione di soldati: il
che a lui, che era consideratore delle cose future, diede sinistro
presagio, parendogli, che a volere che i soldati vincano, importi il
prepor loro capitani vincitori. Nè Beaulieu medesimo era tale, che
potesse convenientemente governare capitani, e genti di diverse lingue e
di diverse nazioni, tenendo più del guerriero che del cortigiano, per
guisa che più temuto che amato dai suoi e dai forestieri, era piuttosto
obbedito per forza, che per volontà. Nè i nobili Piemontesi, che
sentivano molto altamente di loro medesimi, lo avevano a grado.
S'aggiunse a tutto questo, che sebbene si fosse ordinato che i
Piemontesi dovessero in tutto accordarsi, e cooperare con gli Austriaci,
e questi coi Piemontesi, tuttavia l'esercito regio non obbediva a
Beaulieu, ma era retto sovranamente da Colli, al quale non mancava nè
perizia, nè virtù militare, ma non viveva concorde col capitano
Austriaco. Questo fu cagione, che, contuttochè i due generali operassero
di concerto, nei partiti dubbj però, dove aveva gran parte la propria
opinione, l'uno non secondava l'altro, nè l'altro l'uno, quanto la
gravità del caso avrebbe richiesto. Con queste mancanze, mali umori, e
semi di debole concordia, s'incominciò, dalla parte dei confederati, una
guerra gravissima, nella quale si proponevano, deposte oramai le
speranze di fare impressione in Francia, come falsamente si erano
persuasi, di far di modo che almeno l'Italia si preservasse dalla
inondazione Francese. Erano per tale guisa ordinati i confederati, che
la loro ala sinistra, partendo dalla Scrivia nella vicinanza di
Serravalle, si distendeva sino alla destra sponda della Bormida. Quivi
incominciava ad aver le stanze il corno sinistro dei Piemontesi, che
traversando quelle montagne, si sprolungava fino alla Stura, con
assicurare Ceva e Mondovì con grossi presidj, e con appoggiarsi
coll'estremità del corno destro alla forte città di Cuneo. Le genti più
leggieri munivano i passi più alti delle montagne, ed un campo era stato
fatto con forti trincee, ed in luogo eminente verso Lesegno per la
sicurezza del forte di Ceva. Ma siccome quello di cui stavano in maggior
gelosìa gli Austriaci, erano le possessioni loro in Lombardìa, così si
erano molto ingrossati nei contorni di Alessandria e di Tortona, e verso
l'estremo corno loro, occupando per tal modo con molte forze le due
strade che da Genova accennano al Milanese, una per Novi, l'altra per
Bobbio. Avrebbero desiderato per maggior sicurezza delle cose loro avere
in mano la fortezza di Tortona, e ne fecero anche richiesta; ma ciò fu
loro con la solita costanza dinegato dal re, il quale ancorchè posto
nell'ultima necessità, volle non ostante, quanto potè, in propria balìa
conservarsi. Tal era adunque la condizione dei tempi, che il re di
Sardegna combatteva per la salute sua, e ne andava tutto lo stato,
l'imperador d'Alemagna per le sue possessioni del Milanese e del
Mantovano, il re di Napoli per la preservazione d'Italia, il papa per
l'autorità della santa sede, e per l'incolumità della religione; Venezia
sperava nella neutralità senz'armi, Genova nella neutralità con armi,
Toscana nella consanguinità coll'Austria e nell'amicizia colla Francia,
Parma e Modena nè in pace nè in guerra, dipendevano in tutto dagli
accidenti.
Risoluzione principalissima dei reggitori Francesi era di far potente
impresa per invadere l'Italia, ed a questo fine indirizzavano tutti i
pensieri loro. A questo si muovevano non solo pel desiderio di pascere
l'esercito in un paese ricco, ed ancora intatto, ma eziandio per la
speranza, che alla fama di un tanto fatto, e per lo scompiglio che ne
sarebbe nato tanto in Italia quanto in Germania, si sarebbero
manifestati a favor loro in tutte, od in alcune corti d'Europa
cambiamenti d'importanza. Più special fine loro in tutto questo era di
costringere l'imperatore alla pace, per facilitar la quale speravano di
trovare in Italia per la forza dell'armi compensi ad offerire a quel
principe in iscambio dei Paesi Bassi, che ad ogni modo volevano
conservare incorporati alla Francia; imperciocchè si avvedevano, che,
ove fosse la casa d'Austria, tanto nobile e tanto potente, sforzata alla
pace con la repubblica, non solo i potentati minori, ma anche i più
grossi sarebbero facilmente venuti ancor essi agli accordi. A questo
primario disegno subordinavano tutti i pensieri e tutte le risoluzioni
loro: del modo o fosse di forza o fosse di fraude, non si curavano. Al
che se avessero posto mente le repubbliche di Genova e di Venezia, non
avrebbero aspettato gli estremi casi per fare risoluzioni forti in
salute loro. Venezia particolarmente pericolava, siccome contigua agli
stati dell'imperatore; perchè, se si voleva dar il Milanese al re di
Sardegna per farlo correre contro l'Austria, si volevano anche dare
tutti o parte degli stati Veneziani all'imperatore per farlo risolvere
agli accordi. Di ciò non dubbj segni ebbero, molto innanzi che la cosa
si manifestasse coll'ultimo precipizio, i ministri di Venezia in
Basilea, in Vienna ed in Parigi, e ne avvisarono il governo. Parlava per
verità il governo Francese, parlavano i suoi agenti per ambagi, e con
parole tronche, ma non sì che la volontà nemica non vi comparisse dentro
chiaramente, e molto ancora più chiaramente il medesimo disegno si
vedeva spiegato nelle gazzette Parigine, che più dipendevano dal
governo. Siccome poi, quando si vuol perdere qualcheduno, e'
s'incomincia a fargli proposte disonorevoli, per la speranza di rifiuto,
pretesto di ostilità, così uscirono con richiedere Venezia, che
scacciasse da' suoi stati il conte di Lilla, il quale sotto tutela del
diritto delle genti, e sotto quella ancor più sacra dell'infortunio, se
ne riposava solitariamente a Verona. Poco importava al governo
repubblicano di Francia, che il conte se ne stesse negli stati
Veneziani, che anzi gl'importava che vi stesse piuttosto che altrove;
perchè se era pericoloso per quel governo che dimorasse in paese non
solamente neutrale, ma ancora alieno dal tentar novità in favore di lui,
assai più pericoloso sarebbe stato, se si fosse condotto od all'esercito
del principe di Condè, o negli stati delle potenze in guerra con la
Francia. Ma la domanda di farlo uscire era appicco di querela, non
testimonio di timore. Quantunque il conte di Lilla, dopo la morte di
Luigi decimosettimo, avesse assunto la dignità reale, e fosse in grado
di re tenuto dai fuorusciti Francesi, dal ministro di Spagna Lascasas,
dal ministro di Russia Mardinof, e dal ministro d'Inghilterra
Macarteney, che appresso a lui era stato mandato appositamente dal re
Giorgio, il senato Veneziano non l'aveva mai riconosciuto pubblicamente
nè trattato da re. Che anzi interpose ogni diligenza, perchè, mentre sul
territorio della repubblica dimorasse, non usasse apertamente atti, che
l'autorità sovrana dinotassero. Al che il conte rispose con nobile
condiscendenza, vivendosene assai ritiratamente in una villa del conte
di Gazola: nel qual contegno tanto egli abbondava, che nè pubblicò con
le stampe della Veneta repubblica, nè datò di Verona il manifesto che
fece, nella sua esaltazione, alla nazione Francese; che se poi nelle sue
azioni segrete, ed in privato teneva pratiche, che certo teneva, per
ricuperare l'antico seggio de' suoi maggiori, non si vede come ciò si
potesse imputare alla repubblica di Venezia.
Gran maraviglia farebbe in questo caso, se non si sapessero le cagioni,
lo sdegno del direttorio di Francia; perchè mentre superbamente
comandava al senato Veneziano, che allontanasse da' suoi dominj il conte
di Lilla, sopportava molto pazientemente, che l'ambasciador di Spagna
Lascasas riconoscesse il conte come re di Francia, e con lui come col re
di Francia, di affari pubblici trattasse; il che era di ben altra
importanza, che il dare ricovero ad un principe infelice e perseguitato.
Ma la Spagna era più potente di Venezia, nè si poteva dar in preda a
nissuno in compenso di stati rapiti. Scriveva il primo marzo in nome e
per ordine del direttorio il ministro degli affari esteri Carlo
Delacroix al nobile Querini in Parigi, che poichè Luigi Stanislao
Saverio non aveva dubitato di operare in qualità di re di Francia sul
territorio della repubblica di Venezia, si era reso indegno dell'asilo
concedutogli dalla umanità del senato: richiedeva pertanto, e domandava,
fossene privato, e gli si desse bando da tutti i territorj Veneziani;
non esser questo, aggiungeva, caso di neutralità: la neutralità potersi
osservare fra potenze reali ed armate, non fra un re immaginario ed una
repubblica felicemente stabilita, che può, che sa, se ho a dirla con lo
stilaccio di quei tempi, spiegare una energìa, e delle forze reali per
farsi rispettare. Nel che si può notare, che non si vede, che cosa
importasse l'avere energìa e forze grandi, al punto della quistione, di
cui quì si trattava.
Ma tornando al nostro proposito, essendo posto in senato il partito, se
dovesse la repubblica adempiere la richiesta del governo Francese,
ancorachè il procurator Pesaro generosamente contrastasse, ricordando
con parole gravissime alla repubblica la bruttezza del fatto, e l'antica
generosità di Venezia, fu vinto con centocinquanta sei voti favorevoli,
e quarantasette contrarj. Orarono in questo fatto contro la opinione del
Pesaro i savj del consiglio Alessandro Marcello, Niccolò Foscarini, e
Pietro Zeno, rappresentando, che la pietà verso un principe forestiero
non doveva più operare negli animi dei padri, che la carità verso la
patria. Brutta certamente e vituperosa deliberazione del senato fu
questa, nè ad alcun modo scusabile, e tanto meno quanto si vedeva
chiaramente, che il vituperio non avrebbe bastato a partorir salute; nè
varrebbe a diminuire la vergogna l'esempio di Luigi decimoquinto re di
Francia, il quale stretto di nissuna necessità, non abborrì dal bandire,
a petizione dell'Inghilterra, da' suoi stati il principe Edoardo
Pretendente; perchè i re possono bene dare col loro esempio maggior
forza all'onesto, ma non onestare il disonesto; imperciocchè se gli
uomini non sono fiere, ma uomini, havvi fra di loro una legge del giusto
e dell'onesto, anteriore e divina, cui nè la forza, nè i capricci dei