Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I - 16

popolazioni mosse, perchè a popolo mosso bisogna parlar co' fatti, non
con le parole, ma bensì su quelle d'oltremonti, che eleggevano
volentieri di stare sotto l'imperio d'Inghilterra. Laonde, ordinate
alcune squadre di soldati subitarj, furono mandate ad ajutare nelle
pievi licenziose le esortazioni del vicerè. Oltre a tutto questo Paoli,
o cagione, o pretesto che fosse di questi romori, fu chiamato in
Inghilterra dal re, il quale, perchè la chiamata fosse più onesta, gli
aveva scritto, la presenza sua in Corsica fare i suoi amici troppo
animosi; se ne venisse pertanto a respirare aere più tranquillo in
Londra; rimunererebbe la fede sua, metterebbelo a parte della propria
famiglia. Paoli, obbediendo all'invitazione, se ne giva a Londra,
trattenutovi con due mila lire di sterlini all'anno. Visse sino
all'ultimo più accarezzato che onorato. Così finì Pasquale Paoli nome
riverito nella storia, e che sarebbe molto più, se non fosse nata la
rivoluzione di Francia. Imperciocchè a lui furono più gloriose le
disgrazie che le prosperità, e l'integrità del suo nome incominciò a
restare offesa, quando consentì ad essere ripatriato dalla Francia, e
molto più quando volle sottomettere la patria all'Inghilterra; e poichè
era fisso là donde ogni accidente umano procede che la Corsica avesse ad
essere, non di se stessa, ma o Francese o Inglese, era richiesto a
Paoli, che nè accettasse il benefizio di Francia, nè servisse ai disegni
d'Inghilterra. Tanto è vero, che ad alcuni uomini è più glorioso il
riposare, che il travagliarsi! Ma volle il destino, che questo illustre
Corso servisse di nuova ammonizione a coloro, che o per ambizione, o per
l'amore scelerato delle parti sottomettono la patria loro agli strani;
perchè il minor male che si abbiano, è il sospetto di coloro, a cui
hanno servito.
Gli avvertimenti del vicerè, le mosse dei soldati Corsi ai soldi
d'Inghilterra, la partenza di Paoli, ed insieme i benigni ordini venuti
da Londra furono di tanta efficacia, che i comuni sollevati, fra gli
altri massimamente quelli di Ajaccio e di Mezzana più ostinati, deposte
le armi, tornarono all'obbedienza. Così fu ristorata, se non la
concordia, almeno la pace in Corsica, non sì però, che per l'infezione
delle parti non vi fossero molti mali semi, che avevano a partorire fra
breve effetti notabili a pregiudizio degl'Inglesi in quell'isola.
Qualche moto anche accadde a questi tempi in Sardegna, principalmente in
Sassari, città vicina alla Corsica. Il popolo sollevato domandava gli
stamenti, che non sono altro che gli stati generali di Sardegna;
domandava i privilegj conceduti dai re d'Aragona, domandava i patti
giurati nel 1720. Capi e guidatori di questo moto erano Goveano Fadda,
Giovacchino Mundula, e principalmente il cavaliere Angioi, uomo tanto
più vicino alla virtù modesta degli antichi, quanto più lontano dalla
virtù vantatrice dei moderni. Sassari mandò i suoi deputati a Torino,
perchè, moderatamente procedendo, i diritti ed i desiderj dei Sardi al
re rappresentassero. Dieronsi ai deputati buone parole, e forse qualche
cosa più che buone parole. La missione loro non partorì frutto, e se ne
partirono disconclusi. Intanto furono i tumulti di leggieri sedati,
componendosi di nuovo il vivere nella solita quiete con grande
contentezza del re, che molto mal volentieri aveva veduto contaminarsi
la difesa di Cagliari dalle sollevazioni di Sassari. Fadda, Mundula, ed
Angioi si posero con la fuga in salvo.
In questo mezzo tempo si udirono importantissime novelle da Basilea,
essere la Spagna, partendosi dalla confederazione, condescesa il dì
ventidue luglio alla pace con la repubblica Francese; il quale accidente
tanta efficacia doveva avere in Italia, principalmente negli stati del
re di Sardegna, quanta ne aveva avuto negli affari di Germania, e
principalmente in quei dell'Austria, la pace conchiusa tra la Francia e
la Prussia; i repubblicani vincitori dei Pirenei potevano facilmente
voltarsi contro l'Italia per farvi preponderare le forze Francesi. Mossi
poi anche i Parigini reggitori da quel loro perpetuo appetito d'invadere
l'Italia, col diventar padroni del Piemonte per la pace, del Milanese
per la guerra, erano stati operatori, che s'inserisse nel trattato con
la Spagna il capitolo, che la repubblica Francese in segno d'amicizia
verso il re Cattolico, accetterebbe la sua mediazione a favore del regno
di Portogallo, del re di Napoli, del re di Sardegna, dell'infante duca
di Parma, e degli altri stati d'Italia, a fine di concordia tra la
repubblica e questi principi. Ulloa, ministro di Spagna a Torino, fece
l'ufficio, profferendosi a mediatore tra la repubblica, ed il re
Vittorio. Offeriva la conservazione, e la guarentigia dei proprj stati,
se consentisse a starsene neutrale, e a dar il passo ai Francesi verso
l'Italia. Offeriva la possessione del Milanese, se si risolvesse a
collegarsi con la repubblica. Mescolaronsi al solito speranze di
acquisti di territorj più contigui, se cedesse l'isola di Sardegna alla
Francia. Udiva il re Vittorio molto sdegnosamente le proposizioni della
Spagna, e sulle prime dichiarò, voler continuare nell'alleanza con
l'Austria. Ma poichè fu più pacatamente considerata la cosa, o che
s'inclinasse ai patti, o che solo si volesse aver sembianza
d'inclinarvi, si convocò il consiglio, al quale furono chiamati molti
uomini prudenti, ed altri assai pratichi delle militari faccende. Erano
per deliberare intorno ad un soggetto gravissimo, e da cui dipendeva
questo punto, se il Piemonte avesse a conservare la signorìa di se
medesimo, o di cadere in servitù di forestieri. Era presente a questo
consiglio il marchese Silva, figliuolo di uno Spagnuolo, console di
Spagna a Livorno. Pratico delle cose del mondo per molti viaggi in
Europa, massimamente in Russia, dove era stato veduto amorevolmente
dall'imperatrice Elisabetta, pratico delle cose militari per lungo
studio ed esperienza, avendo anche scritto trattati sull'arte della
guerra, condottosi finalmente agli stipendj della Sardegna, era il
marchese da tutti stimato e riverito. Chiesto del suo parere in sì
pericoloso caso, parlò, con singolare franchezza, in questi termini:
«Io fui più volte interrogato su quanto tocca questa infelice guerra, e
sempre quanto risposi fu da tutti contrastato, da molti in sinistra
parte voltato, da alcuni tenuto a vile, come se la malaugurosa
Cassandra, sempre veritiera e non creduta mai, io mi fossi; e certamente
qualunque sia il momento della presente occorrenza, che è grandissimo,
anzi estremo, a tutt'altra cosa io avrei pensato prima che a questa,
ch'io dovessi di nuovo del mio consiglio essere ricerco. Ma comunque ciò
sia, e quantunque io avessi ad essere o poco grato ad alcuni, o
calunniato da altri, non voglio in questo del mio debito mancare verso
chi mi chiama, verso quel signore ch'io adoro, verso quella patria, che
per mia, come se nato ed educato vi fossi, volonterosamente mi scelsi. E
prima ch'io d'altre cose mi discorra, voglio su questo primo principio
insistere, che una nazione, che libera vuol essere, libera sarà, e che
contro di lei niuno impedimento è che prevalga; che se poi questa
nazione fia grande, fia generosa, fia guerriera, acquisterà per questa
medesima libertà tale forza, tale grandezza, tale potenza, che sotto il
suo dominio, od almeno sotto le sue leggi tutti i suoi vicini ridurrà.
Ora, in nome di Dio, di che si tratta nella presente controversia, se
non se di accettar queste leggi onorevolmente, o di subirle
ignominiosamente? e quale esitazione può essere, quale dubbio può
cadere, quando si va a scerre tra un amico, forse un po' insolente, ed
un nemico certamente irritato e superbo? Come un uomo prudente potrà
stare in pendente, massimamente considerando la fede dubbia di un
alleato, piuttosto invasore delle nostre province, che difenditore,
cagione piuttosto della rovina di questo stato, che preservatore della
sua salvezza? Conciossiachè, se son rotte d'ogni intorno con
ispaventevole fracasso le difese di questo una volta felicissimo e
securissimo regno, se la tempesta è pronta a scagliarsi nelle fertili
pianure del nostro bel Piemonte, se già le fortezze vacillano, se già
gli animi stan dubbj, se già lo spavento universale un eccidio
universale prenunzia, se già l'Italia trema all'apparenza di un funesto
avvenire, a chi deonsi tante calamità riferire, a chi sentirne obbligo,
se non se a questo medesimo ambizioso, e poco fedele alleato? V'accese
con incentivi subdoli, v'ingannò con sussidj insufficienti. Sovvengavi,
signori, di quanto io già vi dissi, ed evidentemente altre volte
dimostrai, che ove i Francesi riusciti sono a far fondamento delle
operazioni loro una linea, che dal fianco orientale dell'Alpi partendo,
va a dar negli Apennini, l'importantissima barriera dei monti, e delle
fortezze è superata, ed il Piemonte privo de' suoi ripari, circondato,
investito da tutti i lati senza difesa ridotti, si trova vicino ad una
ruina inevitabile. Io dimostrai al re, quando mandommi a visitar i
luoghi, che questa linea dalle Viosene insino a Toirano è insuperabile;
poichè le creste dei monti per Termini ed il Galletto sino a Balestrino
sono del tutto inaccessibili; che se spuntar si volesse dal Carlino,
entrerebbe l'esercito in una gran fondura tra questo luogo appunto, e la
contea di Nizza, dove lo sforzo di cinquanta mila combattenti sarebbe ed
inutile contro il nemico, e fatale per loro. Nè migliore speranza si
avrebbe, se dalla destra parte verso il Ceriale entrar si volesse,
poichè i Francesi ad una seconda posizione preparata ritirandosi, e noi
sappiamo che quattro fino a Ventimiglia le une più forti delle altre ne
hanno, sempre potranno a posta loro, poichè occupano le più alte cime,
dai luoghi più alti ai più bassi calare, e conseguentemente senza
ostacolo nessuno, nel cuore stesso del Piemonte penetrare. Odo, che voi
avete speranza nell'esercito vostro: ma l'esercito, sebbene per valore a
nissuno sia secondo, già debole per se, ed indebolito per tante morti, a
mala pena potrà bastare a presidiar la città capitale, o se indugiasse a
ricoverarvisi, investito sui fianchi, circondato, e tagliato fuori dalle
colonne Francesi partite da tutti i punti della circonferenza dalla
riviera di Genova, e dalla valle del Tanaro sino alla Torinese Stura,
alcun rimedio più non avrebbe alla sua salute. Tutte queste cose non
possono parer dubbie, se non a coloro che o i luoghi non conoscono, o
quanto sia debole l'esercito, quanto penuriose le finanze, quanto
potenti i semi della ribellione non sanno. Veggono alcuni più parziali
che prudenti uomini, con gli occhi loro abbacinati, scender
continuamente dal Tirolo in ajuto del Piemonte ora quaranta, ora
sessanta mila Tedeschi. Ma volesse pur Dio, che questa gente armata
avesse più corpo in terra, che chimera od ombra nella fantasìa di certi
consiglieri ardenti: la fama è oramai troppo lunga, perchè l'ajuto sia
vero. Certamente fallace consiglio sarebbe il promettersi qualche cosa
dalle vane speranze, dalle esagerazioni lusinghiere, dalle promesse
ingannevoli della corte di Vienna. Ma che dico? Quando i fatti parlano,
qual bisogno v'è di parole? Non fu stipulato nel trattato di Valenziana,
che gli Austriaci solamente combatterebbero nella pianura? Ignorate voi
forse gli ordini dati agli imperiali capi di non mettersi senza grande
occasione in potestà della fortuna, di tenersi grossi, di usare
moderatamente i soldati, di serbargli interi per la difesa della
Lombardìa? Non disselo a chiare note, non predicollo apertamente a me e
ad altri Devins medesimo? Voi potete a grado vostro dire, che la difesa
della Lombardìa è in Piemonte, poichè ciò era vero, or son due anni, e
non è più vero oggidì, perchè le Alpi son perdute, gli Apennini invasi,
la pianura aperta, e voi state qui deliberando paventosi, e dubbj se vi
sia possibile difendere la real Torino, e l'antico trono di questi
principi giustissimi. Che se voi persistete a dire che in Piemonte è la
difesa della Lombardìa, potrebbero a giusta ragione rispondervi i
generali dell'Austria, che essendo oramai il Piemonte privo di difesa,
se l'esercito loro si ostinasse a volerlo difendere per ritardar qualche
tempo l'invasione della Lombardìa, correrebbe pericolo esso medesimo di
esser tagliato fuori dal Milanese, e che per tal modo la Lombardìa
stessa, l'esercito destinato a difenderla, ed il Piemonte con loro,
sarebbero ad uno e medesimo tempo senz'alcuna speranza di poter
risorgere perduti, e l'Italia a servil giogo posta. Non combatte l'uomo
col medesimo valore quando difende le cose altrui, come quando difende
le proprie. Di ciò debbonvi avervi fatti avvertiti gli Austriaci, quando
già sì mollemente in ajuto vostro combatterono in casi, in cui ci andava
o la speranza del conquistare, o la sicurtà loro. Eppure erano allora le
forze vostre in essere, ora son prostrate; od io a gran partito
m'inganno, od alle prime mosse dei Francesi verso Genova, voi vedrete
questi medesimi Austriaci correre precipitosamente verso la Lombardìa,
ed in preda al vincitore abbandonarvi, senza neppur lasciare un soldato
in ajuto vostro di quel già sì debole e sì estenuato esercito
ausiliario, che l'imperatore si è obbligato a mandarvi.
«Adunque, essendo tutte le difese dello stato od in mano del nemico, od
in pericolo di cadervi, le genti nostre diminuite di numero e di animo,
l'alleato poco fedele, e piuttosto della salute sua che della nostra
sollecito, nè potendo le nostre necessità aspettare la tardità dei
rimedj che si preparano, io porto opinione, che la pace sia assai più
sicura della guerra, ed alla pace vi conforto, e la chiamo, e la bramo
ora che le forze, che ancor vi restano, ve la possono dare onorevole e
sicura; che se aspettate l'ultima necessità, fia la pace infame, fia
distruttiva, fia congiunta con servitù intiera ed insopportabile. Se
altro partito miglior di questo vi sovviene, avrei caro udirlo; ma
qualunque ei sia, non istate più indugiando, che il tempo pressa,
l'occasione fugge, il pericolo sovrasta. Or vi spiri benigno il cielo, e
vi faccia deliberar sanamente a salvazione del generoso Piemonte, ed a
preservazione della nobile Italia».
Questo discorso porto da un uomo pratico di guerra, di natura molto
veridica, congiunto di amicizia col generale Austriaco Strasoldo, fece
non poco effetto negli animi dei circostanti, dei quali una parte
inclinava agli accordi quantunque tutti avessero la volontà aliena dai
Francesi. Ma sorse a contrastar questa inclinazione alla pace il
marchese d'Albarey, il quale, sebbene fosse d'indole pacifica e d'animo
temperato, essendo stato operatore del trattato di Valenziana, e
fondandosi sulle considerazioni politiche, opinava, doversi nella guerra
e nella fede data all'Austria perseverare.
«Sono, ei disse, più che qualunque altra azione umana all'arbitrio della
fortuna sottoposte le militari fazioni; le politiche cose altre
variazioni non fanno, se non quelle che suole indurre la prepotente
forza dell'armi. Della quale differenza la cagione si è, che le prime
pendono intieramente dai casi fortuiti e dal coraggio degli uomini
sempre soggetto a spaventi inopinati, mentre le seconde stanno fondate
sulle umane passioni, le quali sono sempre in tutti i luoghi ed in tutti
i tempi le medesime. Infatti si vede che la guerra mette spesso in fondo
i più potenti, i più gloriosi reami, mentre quelli che alla ragione di
stato prudentemente si conformano, vivono tutto quel corso di vita che
dalla natura alle opere umane è concesso. Ha la forza in se non so che
di cieco e di disadatto, che la fa dar negli scogli e nelle ruine; ha la
prudenza, figliuola della cognizione vera delle umane passioni, in se
non so che di disinvolto e di sguizzante, che fa che chi la segue schivi
gli ostacoli, e viva eterno. Propone il marchese Silva che si faccia la
pace, perchè, come crede, non si può più far la guerra; chiama l'Austria
infedele; è confortatore, che il re si fidi nella repubblica Francese,
la quale, sebbene ora faccia certe dimostrazioni in contrario, è pure la
nemica naturale e terribile di tutti i re. Ma sul bel principio del mio
favellare, e su di questo medesimo argomento di guerra insistendo, di
cui tanto è il mio avversario perito, io domando a lui, quale dei due
eserciti sia più grosso, o del nostro congiunto alle genti Austriache, o
di quello del nemico, solo esposto a tutto lo sforzo degli alleati?
Certamente, qual uomo sincero, qual egli è, sarà per rispondere, il
nostro. E se gli domando, s'ei crede che per la congiunzione delle genti
de' Pirenei, il Francese diventi più potente del confederato ingrossato
per la giunta di nuove genti Tedesche, certo ancora ei risponderà, non
credere; poichè e i Pirenei saran pure da guardarsi; e la pace con la
Spagna non sarà senza sospetto. Finalmente se io gli domando, s'egli
stima i Francesi più valorosi dei Piemontesi, o più degli Austriaci,
certo sono ch'ei risponderà, non istimare. Dove vanno dunque a ferire
queste instanti querele, che voglion significare questi predicati
spaventi? Sono i Francesi padroni delle cime dei monti! E siano, e
s'arrovellin pure per la fame, per la miseria, per la intemperie in que'
luoghi alpestri e selvaggi; che se hanno i gioghi, e' non hanno i passi,
e non vedo che alcuna fortezza vacilli, non che sia in mano loro, ed il
penetrar in Piemonte con le fortezze nimichevoli a ridosso, sarebbe pei
Francesi stoltizia, piuttosto che coraggio, sarebbe caso più
desiderabile per noi, che spaventoso; che anche quì il valor Piemontese
ed Austriaco affrontolli, ed anche quì biancheggiano ancora i campi
delle Francesi ossa prostrate in battaglie giuste da queste stesse mani,
da queste stesse armi, che ora contro la rabbia loro difendono
l'appetita Italia. Nè so restar capace, come si possa accagionare la
fede, od il valore delle genti Tedesche. Sanlo Savona e San Giacomo,
sanlo Vado e Melogno ancora tinti da repubblicano sangue come feriscono
le spade, come piombino le palle Tedesche. Che i generali d'Austria
abbiano cura della Lombardìa, il crederei facilmente, e debbonla avere:
ma che non curino il Piemonte, dov'è colui che lo dice? Poichè tanto
sangue sparso, tante incontrate morti, non solo sui monti della Liguria,
ma nei seni più reconditi delle Alpi, rendono testimonianza in
contrario. Ma pogniamo esser le cose della guerra tanto pericolose,
quanto il mio avversario asserisce, io non crederò punto mai, ch'elle
siano disperate. Che ancora abbiam braccia e petti, ancora abbiam
fortezze nelle bocche delle Alpi, nè credo, che siamo in grado di essere
costretti ad abbracciare consigli pericolosi, od a farci incontro ad
occasioni immature. Ma giacchè si grida pace, vediam che cosa sia,
vediam che in se porti questa consigliata pace. La pace con la Francia
importa la guerra con l'Austria; il cedere la Savoja e Nizza ai Francesi
vuol significare il ricevere dalle mani loro rapaci qualche porzioncella
del Milanese, vuol significare il dar loro il passo pel Piemonte, vuol
significare il permettere che vadano a ferire direttamente il cuore di
coloro, che fin quì difeso hanno il cuor nostro. Sicchè io vedo
l'infamia sul limitare stesso di quest'accordo; perchè quivi è un dare
al nemico, ed un arricchirsi delle spoglie dell'amico. Pure l'onore è
qualche cosa in questo mondo, e l'incertezza degli umani eventi vi dee
tener avvertiti, che tardi o tosto avrete bisogno di alleati; e quale
alleato possiate trovare, dopo tanta ignominia, per me già nol so. Ma
più addentro questa materia considerando, io trovo che l'accordo con
Francia sarebbe la servitù del Piemonte, sarebbe il suo soqquadro,
sarebbe la sua ruina. Non possono gli Austriaci, quantunque presenti,
tanto avvilupparci, che diventiam servi delle spade Alemanne, perchè le
sedi loro troppo sono dalle terre nostre lontane. Possonlo, e facilmente
i Francesi, perchè qui pur troppo siam vicini alla fonte di un tanto
diluvio, e non so se vi conforti la moderazione loro, la quale quanta e
quale sia, sallo il mondo pieno oramai tutto per opera loro di spaventi
e di ruine. Per giudicare quali i Francesi siano, e di che sappiano in
casa altrui, addomandatelo ai Fiamminghi, addomandatelo agli Olandesi, e
se son contenti essi di avergli per alleati, ed in casa loro, siatene
pur contenti ancora voi, ed abbiatene il buon pro. Semi sonvi di
rivoluzione e di sommossa in Piemonte? Certo sì che vi sono. Ma credete
voi, o mio buon marchese Silva, che i Francesi con la presenza loro gli
spegneranno? Per me nol credo; credo anzi al contrario, che le giacobine
teste pulluleranno, all'aperto si mostreranno, di ultimo sterminio
questa felicissima monarchìa minacceranno. Condanneranle forse i
Francesi in pubblico, ma fomenteranle in segreto; camminerà lo stato
sopra ceneri ingannatrici, e quando voi vi risolverete a mettere il piè
sulle prime faville, le farete prorompere in universale incendio. Un
manifesto francese poi molto bene acconcio, che di manifesti e di ciarle
non hanno inopia, accomoderà il tutto con chiamar voi traditori, voi,
che altro non avrete fatto, che sopportar pazientemente la superbia
loro. S'abbia la Prussia, s'abbia la Spagna pace con la Francia, poichè
per esse non debbono passar i Francesi per andarsene ai disegni loro; ma
poichè eglino per nissun'altra cagione vi propongono a questi giorni la
pace, se non se per passare in Piemonte ad invadere la Lombardìa, pare a
me che la guerra assai più sicura sia della pace; perciocchè la presenza
di questi smodati repubblicani non può essere senza semenze funeste, non
senza scandali, non senza sommosse, non senza inevitabile perdizione. Nè
vi esca di mente, che la Francia per non altro vi richiede ora di pace,
che per farla con l'Austria più potente di voi; nè siate per dubitare
punto, che ove si scoprirà la prima occasione di far pace con lei, la
farà, e lasceravvi nelle peste, nè ricorderassi di voi, manco ancora
dell'amicizia vostra, e dovrete tenervi molto fortunati, se non avrete
ad accorgervi dai patti che seguiranno, quanto pregiudizioso consiglio
sia l'abbandonare un amico fedele e pruovato, per darsi in braccio ad un
amico infedele e nuovo; che questi guadagni appunto si fanno i deboli,
quando vogliono farla da astuti coi potenti. Odo favellare di penuria di
finanze. Ma che penuria, quando ci va la salute dello stato? Per me, ho
vergogna di parlar di denaro, quando si tratta dell'essere, o del non
essere. Poi credete voi, signor mio, che la Francia sia meglio per
impinguar il nostro erario, che l'Inghilterra? Se vel credete voi, non
so qual semplicità sia la vostra. Quanto a me, io mi credo che meglio
proceda il denaro da chi ne ha troppo, e il getta in casa altrui, che da
chi ne ha poco, ed il rapisce in casa altrui. Ora recando alla somma
quello, che sono ito finora minutamente considerando, a me pare, che
l'amicizia con l'Austria sia più sicura e meno pericolosa, che
l'amicizia con Francia. Perciò esorto e prego, che rifiutati i partiti
temerarj, e mostrando il viso alla fortuna, ed alla costanza nostra già
tanto famosa non mancando, dimostriamo al mondo, che il Piemonte
minacciato a' tempi nostri non ha avuto minor animo, che il Piemonte
invaso ai tempi andati».
Queste parole vere in se stesse non restarono senza effetto, meno perchè
vere erano, che perchè gli animi non avevano per un'anticipata
risoluzione alcuna inclinazione alla concordia. Per la qual cosa, posta
in non cale la mediazione di Spagna, e tagliata ogni pratica,
deliberossi di continuar nella guerra contro la Francia, e non si
partire dall'alleanza con l'Austria. Certamente il partito era pieno di
molta dubbietà; perchè non vi era minor pericolo nelle suggestioni, che
nelle armi repubblicane, e si temevano con molta ragione gli effetti,
che avesse a portar con se la presenza dei Francesi in Piemonte. Laonde
la risoluzione fatta non è se non da lodarsi, non perchè più sicura
fosse, ma perchè in pari pericolo da ambe le parti, ella era più
onorevole.
Giugneva intanto il tempo, che doveva mostrare, se quelle armi, che non
senza grave fatica e stento avevano potuto contrastare ai Francesi
divisi tra Spagna ed Italia, potessero resistere all'impeto loro unito:
ed indirizzato a voler fare la conquista dell'Italiane contrade. Già fin
dal principio di quest'anno si era deliberato nei consigli di Francia di
voler passare con le armi in Italia. Uno dei principali confortatori a
quest'impresa era Scherer, riputato fra i buoni generali di Francia, per
le pruove fatte recentemente da lui nelle guerre di Germania e di
Spagna. Si rinfrescavano vieppiù questi pensieri dopo la pace di Spagna;
e parendo, che quegli che ne aveva fatto il disegno, più accomodato
capitano fosse per mandarlo ad esecuzione, fu egli preposto all'esercito
d'Italia, restando Kellerman a governare solamente le genti alloggiate
nelle Alpi superiori. Concorrevano intanto i soldati repubblicani dai
Pirenei agli Apennini, e con loro parecchi guerrieri di nome. Inclinava
omai la stagione all'inverno, e trovandosi gli alleati riparati a luoghi
forti per natura, e per arte, a tutt'altro pensavano fuori che a questo,
che i repubblicani, massime privi com'erano di cavallerìe, con poche e
piccole artiglierìe, e ridotti in una insopportabile stretta di
vettovaglie, avessero animo di assaltargli. Ma i soldati della
repubblica usi a vincere le difficoltà che più insuperabili si
riputavano, ed astretti anche dall'ultimo bisogno ad aprirsi la via per
mare e per terra verso Genova, dalla quale sola potevano sperare di
trarre di che pascersi, non si ristettero, ed opponendo un coraggio
indomabile all'asprezza del tempo, alla mancanza dell'armi, alla
carestìa del vivere, ad un nemico più numeroso di loro, abbondante
d'armi e di munizioni, fortificato in luoghi già per se stessi
malagevoli, si deliberarono di voler pruovare, se veramente il valore
vince la forza, e se l'audacia è padrona della fortuna. Così si
preparava la battaglia di Loano, assai famosa pel valore mostrato dai
soldati repubblicani, e per la perizia dei generali loro, specialmente
di Massena, che ebbe la principal gloria di questo fatto. Era la fronte
dei Francesi in tal modo ordinata, che posando con l'ala dritta sulla
rocca del Borghetto bagnata dal mare, e passando per Zuccarello e per
Castelvecchio, dov'era la battaglia, andava con la sinistra a terminarsi
sui monti, che sono in prospetto di quelli della Pianeta e del San
Bernardo per alla via verso Garessio. Reggevano la destra Scherer, che
aveva con se i soldati dei Pirenei, ed Augereau che gli aveva condotti,
la mezza Massena, la sinistra Serrurier. I confederati stavano schierati
di modo che l'ala loro da mano manca, governata da Wallis, occupava
Loano, la battaglia condotta da Argenteau Roccabarbena, e la destra
composta in gran parte di Piemontesi, e retta da Colli, si stendeva sui
monti della Pianeta e del San Bernardo. Parendo a Devins che tutti
questi siti forti non bastassero ad assicurarlo, aveva, come guardie
avanzate, fatto tre campi forti, due innanzi a Loano sulle cima di tre
monticelli muniti di trincee e d'artiglierìe, e nella terra di Toirano,
un terzo per la sicurezza della mezzana più in su a campo di Pietra. Ma
come prudente capitano, prevedendo gli accidenti sinistri, aveva munito
di genti e d'artiglierìe dietro il corpo di mezzo, non solamente
Bardinetto e Montecalvo, ma ancora più dietro, qual ultimo presidio e
schiera soccorrevole, i monti di Melogno e di Settepani. Per tal modo si
vede che Devins aveva ottimamente preveduto, donde doveva venire il
pericolo, e provvedutovi ancora efficacemente; ma quello, che poco dopo
succedette, dimostrò quanto sia vero, che non vale buon consiglio solo
contro buon consiglio ajutato da un sopraeminente valore. Resta però,
che l'infelice uscita della battaglia di Loano non dee imputarsi al
generalissimo Austriaco, ma bene si vedrà, se i posteri non potranno con
ragione accagionarne Argenteau, il quale o non istando sulla debita
guardia prima del pericolo, o perdutosi di consiglio, quando ei
sopravvenne, mancò tanto di valore, quanto aveva Devins abbondato di
prudenza. Separava i due eserciti una valle profonda, il cui fondo bagna
il piccolo fiumicello, che corre tra Loano ed Albenga. Il giorno
diciasette novembre per riconoscere i luoghi, e per assaggiar l'inimico,
Massena commise al generale Charlet, che assaltasse il posto di campo di
Pietra, il quale, sostenuto un furioso urto, si arrese. Questa fazione,