Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I - 04

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Rivoluzioni in Francia, e loro cagioni, ed effetti. Loro
effetti negli altri paesi d'Europa, massime in Italia.
Proposizione di una lega Italica. Vera natura del trattato di
Pilnitz. Morte di Leopoldo, imperatore d'Alemagna; assunzione
di Francesco, suo figliuolo. Stimoli della Russia alla guerra
contro la Francia. L'Austria e la Prussia in guerra con questa
potenza. Risoluzione della Sardegna, di Venezia, di Napoli, di
Genova, del papa e della Toscana. Umori dei popoli in Italia:
opinioni delle due parti contrarie. Arti del governo di
Francia rispetto ai governi Italiani nel 1792. Egli dichiara
la guerra al re di Sardegna nel mese di settembre. Fatti
d'armi nella Savoia, e nella contea di Nizza tra i Francesi, e
i Piemontesi. Dispersione di questi ultimi nelle due
provincie. Esse vengono in potestà dei primi. Fuga lagrimevole
dei fuorusciti francesi dalla Savoia. Risoluzioni del re
Vittorio Amedeo in un caso tanto improvviso, e tanto
pericoloso.

Le mutazioni fatte in Italia da principi eccellenti non partorirono che
bene; quelle fatte da un principe giusto e buono in Francia non solo non
fruttificarono quel giovamento ch'ei s'era proposto, ma originarono
ancora orribili disgrazie. Della qual differenza chi volesse investigar
le cagioni, avrà a considerar in primo luogo le opinioni ed i costumi,
che prevalevano a quei tempi in quel regno, poi le leggi che il
governavano, e finalmente lo stato dell'erario.
Quello spirito di benevolenza verso l'umana generazione, il quale era
prevalso in Europa a questi tempi, aveva messo più profonde, e più
larghe radici in Francia, che in qualsivoglia altra provincia, sì perchè
dalla Francia medesima quasi da fonte principale derivava, sì perchè la
civiltà degli uomini in questo paese era molt'oltre proceduta, e sì
finalmente perchè, essendo essi d'indole volubile, fan nascere spesso le
mode ed i tempi, ed i tempi poscia gli governano. Così era allora tempo
d'umanità; e siccome questa è una nazione, che per la prontezza della
mente, e per la grandezza dei concetti, dà facilmente negli estremi così
nel bene, come nel male, e sempre si governa coi superlativi, così
questa universale benevolenza era diventata eccessiva, estendendosi
anche a certi fini, che toccano la radice del governo, e ciò non senza
pericolo dello stato; poichè se è necessario allettar gli uomini con
l'amore, è anche necessario frenargli col timore, più potendo in loro
l'ambizione e l'altre male pesti, che la gratitudine.
In tale disposizione di animi non solo erano divenuti, più che non
fossero mai stati, odiosi i residui degli ordini feudali, ma ogni
leggier freno, che dal governo venisse, era riputato duro e tirannico.
Da questo procedeva, che con riforme utili si desideravano anche riforme
disutili, o pericolose.
Queste opinioni recavano possente incentivo da quelle, che s'erano
formate e sparse ai tempi dell'ultima guerra d'America, sì
opportunamente intrapresa, e sì generosamente condotta dalla Francia:
esser doni volontarj le contribuzioni dei popoli, dover essi e della
necessità loro, e della quantità giudicare, esser la nobiltà non
necessaria, anzi pericolosa allo stato, il re capo, non sovrano, il
clero consiglio, non ordine, e richiamavanlo alla semplicità antica; la
religione dover esser libera. A questo aggiungevasi una tale tenerezza
per gli oppressi, che se mancavano i veri, si cercavano i supposti per
isfogar la piena di tanto amore; poichè ogni punito ed ogni imposto
riputavansi oppressi, ed un gran di sale, che si pagasse, faceva sì che
si gridava tirannide. Le ambizioni si mescolavano alle dolci affezioni,
ed alcuni fra i popolani, vedendosi favoriti dall'opinione, volevano
diventar potenti con salire alle dignità, ed alle cariche dello stato.
Quest'erano le improntitudini popolari; ma la ferita era anche più
grave, e più dentro penetrava nelle viscere dello stato; conciossiachè
coloro fra i nobili, che avevano militato in America, eransi lasciati
ridurre sì per l'esempio, e sì ancora sospinti da una illusione
benevola, credendo che un'Americana pianta potesse portar buoni frutti
in un terreno europeo non adatto ad opinioni più favorevoli ai popoli,
che alla corona; ed oltre alla equalità dei dritti, desideravano
l'introduzione di qualche ordine popolare nell'antica constituzione del
regno. Piacevano loro le forme della constituzione d'Inghilterra. Ciò
mise discordia fra la nobiltà, poichè alcuni fra i nobili opinavano per
le novità, alcuni per le antiche cose, e così s'indeboliva questo
propugnacolo della corona in un tempo in cui ella ne aveva più bisogno.
Ma i più fra coloro dei nobili, che o per coscienza, o per interesse
perseveravano nelle massime antiche, e rimanevano fedeli alla corona
tale quale era durata da tanti secoli, davano novella forza, certo per
orgoglio mal misurato, alla potenza popolare che sorgeva; imperciocchè e
più insolenti si mostravano nelle ville e castelli loro, e più duramente
esigevano gli abborriti dritti feudali, credendo con maggior forza
doversi tener quello, che si temeva di perdere. Ciò tanto maggiormente
si osservava, e tanto maggior odio creava, che quella parte dei nobili
che inclinavano a novità, avevano i medesimi ordini o intieramente
dismessi, o grandemente moderati, ed i restanti con molta mansuetudine
riscuotevano. L'odio saliva alla corona, perchè questi nobili arroganti
erano appunto quelli, che facevano maggior dimostrazione in favore delle
prerogative, e della potenza regia.
Nè queste erano le sole cagioni di novità. Certo è, che i vizi
maggiormente allignano fra i grandi che fra il popolo, tale essendo la
natura umana, che tanto più si corrompe, quanto ha più modi di
corrompere e di corrompersi; nè bastano le gentili dottrine a raffrenar
quest'impeto, poichè esse meglio servono di scusa che di freno. Quindi
era sorta fra i ricchi una tale dissolutezza di costumi, che ne fu tolto
alle persone loro quel rispetto, che già aveva tolto ai loro dritti
l'opinione. L'ozio, il lusso, i piaceri lascivi, i piaceri infami erano
giunti al colmo; nè alcuno era contento alla condizione sua, che, nata
l'ambizione, niuno voleva stare, ognuno voleva salire, ed ogni modo era
riputato buono, o di pecunia accattata che si fosse, e di meretrice
compra, o di bugia, o di calunnia. Tanta era stata la mala efficacia dei
tempi della reggenza! Il vizio s'era introdotto nella corte stessa, nè
bastava, non dirò a sanar gli animi, ma a contenerli, l'esempio del re,
per verità di costumi integerrimi. Ma siccome i popoli credono che le
corti s'informino sul modello dei re, così i Francesi vedendo una corte
scostumata, rimettevano ogni giorno più di quell'amore, che in tutti i
secoli hanno portato ai re loro.
Il perverso influsso era tale, che ne furono contaminati anche coloro,
che dovrebbero avere in se più di sacro e di venerando. L'alto clero,
posto da Dio per esempio e per modello ai fedeli, era diventato
scandaloso per ogni sorte di corruttela. Non pochi fra i prelati,
abbandonate le sedi e gli ovili loro, se ne givano a Parigi per ivi far
opera a diventar ministri, o mostra di ozio, di lusso e di lussuria; nè
era raro il vedere ecclesiastici di primo grado fare o i dottori
politici, o i corteggiatori di dame nelle conversazioni sì pubbliche che
private; e tra di loro alcuni, poste le mani violentemente nel proprio
sangue terminarono una vita infame con modo ancor più infame. In mezzo a
tutto questo scemava fra i popoli il rispetto verso la religione, ed è
una fra le tante maraviglie di questi tempi strani, che i vizj dei
prelati tanto e forse più abbiano contribuito all'incredulità del
secolo, che gli accagionati filosofi con gli scritti loro; poichè, se
questi davano gli argomenti, quelli davano la materia. In tal modo la
potenza separatasi prima dalla virtù, separossi anco dal rispetto, suo
principal fondamento; la virtù medesima sbandita dalla città e dalle
curie, ricoverossi fra i modesti presbiterj dei parochi, e fra gli umili
casolari dei contadini. Dal che ne nacque più forza alla potenza
popolare; perciocchè credessi là esser la buona causa, dov'era la virtù,
e la cattiva, dov'era il vizio.
A questo si aggiungeva, che a gran pezza l'entrata non pareggiava
l'uscita dello stato, deplorabil frutto dei concetti smisurati di Luigi
decimoquarto, del voluttuoso vivere di Luigi decimoquinto, e del profuso
spendere della corte di Luigi decimosesto, ancorchè questo principe se
ne vivesse per se molto parcamente. Questo difetto nell'entrata era
giunto a tale sul finire del 1786, ch'era per nascere una gran rovina,
se presto non vi si rimediava.
In cotal modo scomposte le cose, passata la forza dell'opinione dai
nobili ai popolani, dai ricchi ai poveri, dai prelati ai curati, e
mancato il denaro, principal nervo dello stato, si vedeva, che ove
nascesse un primo incitamento, un grande sovvertimento sarebbe accaduto.
Nè la natura del re dolce e buona era tale, che potesse dare speranza di
potere o allontanare o indirizzare con norma certa, ed a posta sua gli
accidenti che si temevano.
Qui nacque un caso degno veramente di eterne lagrime, e pur non raro
nelle memorie tramandate dagli storici. Tanto è la natura umana sempre
più consentanea a se stessa nel male, che nel bene, e tanto sono cupe le
ambizioni degli uomini. Volevasi da tutti, come opinione portata dai
tempi, e come cosa utile e giusta, una equalità civile, una equilità
d'imposte, una sicurezza delle persone, una riforma negli ordini
giudiziali, una maggior larghezza nello scrivere. Era il re inclinato ad
accomodar le cose ai tempi, per quanto la prudenza, e le prerogative
della corona tanto salutari in un reame vasto, ed in una nazione vivace
e mobile, il comportassero. Ma la setta aristocratica, composta
principalmente dai parlamenti, dai pari del regno, dai prelati più
ragguardevoli, dai nobili più principali, e secondata da un principe del
sangue, del quale se fu biasimevole la vita, fu ancor più lagrimevole il
fine, preoccuparono il passo, e vollero farsi capi e guidatori
dell'impresa. In questo il pensier loro era di cattivarsi con
allettative parole la benevolenza del popolo, e diminuire, con l'aumento
della propria, l'autorità della corona. Forse i primi e i principali
autori di questo disegno miravano più oltre, velando con parole
denotanti amore di popolo pensieri colpevoli di mutazioni nella famiglia
regnante.
Quale di questo sia la verità, i capi di questa setta si prevalsero
molto opportunamente per arrivar ai fini loro di un'errore commesso dal
governo, il quale diede occasione alla resistenza loro, e fu primo
principio di quel fatale incendio, che arse prima il nobile reame di
Francia, poi propagatosi per tutta Europa, vi trasse tutto a scompiglio
ed a rovina. Il re, in vece di cominciar l'opera dalle riforme tanto
desiderate dal popolo, poi ordinar le tasse, volle principiare a por le
tasse, poi far le riforme. Quindi l'amore cominciò a convertirsi in
odio; la setta nemica alla corona se ne prevalse. Adunque avendo egli
pubblicato due editti, uno perchè si ponesse una imposta sopra le terre,
l'altro perchè si ponesse una tassa sulla carta bollata, il parlamento
di Parigi, non solo fortemente protestò, ma ancora più oltre procedendo
ordinò, che chiunque recasse ad effetto i due editti, fosse riputato reo
di tradimento, e nemico della patria. Quest'era il momento d'insorgere
da parte del governo, e di dar forza alla legge, e di aggiungere al
tempo stesso qualche editto contenente riforme e giuste per se, e
desiderate dal popolo: ciò avrebbe preoccupato il passo. Ma egli,
rimettendo dall'opera sua, lasciò andar non eseguiti i suoi editti.
Quindi crebbe l'ardire del parlamento, che volendo usar la occasione di
guadagnarsi la grazia del popolo a diminuzione dell'autorità regia,
passò ben a ragione ad abbominare con pubbliche scritture, e con parole
infiammative le incarcerazioni arbitrarie; poi statuì, annuendo ad una
convocazione degli stati generali, non essere in facoltà sua, nè della
corona, nè di tutti due uniti insieme trar denaro dal popolo per via di
tasse; la sola volontà del re non bastare a far la legge, nè la semplice
espressione di questa volontà poter constituire l'atto formale della
nazione; essere necessario, a volere che la volontà del re debba trarsi
ad effetto, ch'essa sia pubblicata secondo le forme prestabilite dalla
legge; tali essere i principj, tali i fondamenti della constituzione
francese; sapere il parlamento, che si volevano sovvertire i diritti
pubblici per stabilire il dispotismo; la libertà comune essere in
pericolo; ma non volere, nè potere a tali rei disegni dar la mano, anzi
volere opporsi, nè mai permettere che gli essenziali dritti dei sudditi
fossero conculcati e messi al fondo: poi rivoltosi al re, gli intimò,
non isperasse di poter annullare la constituzione, concentrando il
parlamento nella sola sua persona.
Rispose risentitamente il re, che quello che s'era fatto, s'era fatto
secondo gli ordini fondamentali dello stato; non s'intromettessero in
affari di governo, perchè di ciò non avevano autorità di sorte alcuna;
ch'erano i parlamenti del regno di Francia corti di giustizia abili solo
a giudicare in materie civili e criminali, ma non avere autorità nè
legislativa, nè amministrativa; la volontà del re non potersi senza
pericolo, nè senza un nuovo e funesto cambiamento nella constituzione
del regno soggettare a quella dei magistrati; se ciò fosse,
cambierebbesi la monarchìa in aristocrazìa di magistrati, badassero a
far il debito loro come giudici, e lasciassero il governo delle cose
pubbliche a chi per antica consuetudine e per costituzione l'aveva in
mano; considerassero quante leggi erano state fatte in ogni tempo dai re
di Francia, non solo senza il consenso, ma ancora contro la volontà dei
parlamenti; la registrazione non essere approvazione, ma solo
autenticazione, nè altro in questo fare i parlamenti, che le veci di
notari del regno; che quest'erano le forme, questi i precetti ai quali
e' si dovevano conformare, e se nol facessero, sì gli costringerebbe.
Tal era la contesa nata in Francia fra il re ed i parlamenti circa le
prerogative e l'autorità della corona. Intanto ogni pubblico affare era
soprattenuto, perchè i parlamenti di provincia, come quello di Parigi o
avevano cessato di per se stessi l'ufficio, o erano dall'autorità regia
sospesi. Volle il re rimediare con la creazione della corte plenaria, ma
proruppe il parlamento in un'asprissima protesta: protestarono i pari
del regno, il clero stesso titubava.
Intanto uomini faziosi di ogni genere o stimolati espressamente dai capi
della parte dei parlamenti, o valendosi acconciamente della occasione
offerta dalla resistenza loro per macchinar novità, andavano spargendo
in ogni luogo semi di discordia e di anarchìa. Tumultuavasi a Grenoble,
a Rennes, a Tolosa, ed in altre sedi di parlamenti; orribili scritture
uscite in Parigi chiamavano tiranno il re, distruttore dei diritti del
popolo, oppressore crudelissimo; esortavansi le genti a levarsi, a
disvelare, e punir gli oppressori.
Avendo il re trovato in vece d'appoggio, opposizione e resistenza nei
parlamenti, nella nobiltà, ed in una parte del clero, dovette
necessariamente voltarsi verso il popolo, e fondar l'autorità sua sulla
potenza dei più, giacchè i pochi l'abbandonavano. Così era fatale, che
le prime occasioni delle enormità che seguirono, siano state date da
coloro ai quali più importava di evitarle, e che ne furono alla fine le
miserabili vittime. Adunque fu chiamato ministro il Ginevrino Necker, e
con lui altri personaggi consentanei al tempo. Si sperava bene, il
popolo esultava. Convocaronsi i notabili del regno, convocaronsi gli
stati generali. Prevalse in sul bel principio la parte popolare, siccome
quella, in favor della quale operavano i tempi. Decretossi dapprima, del
qual consiglio fu autore Necker, fosse doppio il numero dei deputati del
terzo stato; poi sedessero i tre ordini, non separatamente, ma in
comune; poi si deliberasse, non per ordini, ma per capi, il che diede
del tutto la causa vinta ai popolari. Gli ordini uniti presero il titolo
di assemblea nazionale. Erano portati al cielo: non si parlò più dei
parlamenti, quantunque eglino con opportune scritture si fossero
sforzati di riguadagnarsi quel favore, che per un nuovo empito popolare
si era voltato all'assemblea.
L'assemblea nazionale, ottenuta la superiorità del terzo stato, abolì
l'inequalità delle imposte, poi i privilegi della nobiltà, poi quelli
del clero, poi la nobiltà ed il clero; ed aboliti la nobiltà ed il
clero, s'incamminava ad indebolire talmente l'autorità regia, ch'ella
non fosse più che un'ombra vana. Il benefizio dell'equalità era
solamente apprezzato dai buoni; i tristi usavano la occasione
dell'indebolimento del governo. I faziosi dominavano: l'autorità regia
non gli poteva frenare, perchè scema di potenza e d'opinione; l'autorità
popolare non ardiva, perchè parlavano in nome, ed in favor del popolo.
In ogni luogo sedizioni, incendj, e rapine; morti funeste, e modi di
morte più funesti ancora: uomini mansueti divenuti crudeli; uomini
innocenti cacciati dai colpevoli; uomini benefici uccisi dai beneficati.
Virtù in parole, malvagità in fatti. Novelle strane si spargevano ogni
giorno; e quanto più strane, tanto più credute, e tosto si poneva mano
nel sangue, o ad ardere i palazzi; nè il sesso, nè l'età si
risparmiavano; ad ogni voce che si spargesse, il popolo traeva, massime
in Parigi. In mezzo a tutto questo atti sublimi di virtù patria, e di
virtù privata, ma insufficienti pel torrente insuperabile, e contrario.
Nè si vedeva fine agli scandali, perchè l'argine era rotto, e fin dove
avesse a trascorrere questo fiume senza freno, nissuno prevedeva.
In fine dopo molti e varj eventi, l'assemblea con una cotal constituzione,
che teneva poco del regio, meno ancora dell'aristocratico, molto del
democratico, rendè il re un nome senza forza; poi venne l'assemblea
legislativa, che il depose; poi il consesso nazionale, che l'uccise.
Intanto uccisi o intimoriti i buoni, impadronitisi della somma delle
cose i tristi, la nazione francese, non trovando più riposo in se
stessa, minacciava, qual mare ingrossato dalla tempesta, di uscir dai
propri confini, e di allagare con rovina universale l'Europa.
A tali accidenti di Francia cadevano nelle menti degli uomini negli
altri paesi di Europa varj pensieri. Da principio quando solo si
trattava dell'opposizione nata fra il re ed i parlamenti, era sorta
un'aspettazione tuttavia scevra da timore. Ma quando vi si aggiunsero le
insolenze popolari, le rapine e le uccisioni continue, quando si
distrussero, e più ancora quando si schernirono i dritti, sopra i quali
erano fondati gli ordini delle monarchìe d'Europa, quando s'insultò il
re, quando mani scellerate cercarono la regina per ucciderla, cominciò
alla meraviglia a mescolarsi il timore. Finalmente quando alle
incredibili enormità si arrosero quelle compagnie raunate in Parigi, ed
affratellate in tutta la Francia, le quali apertamente dichiaravano
volere, con portar la libertà, come dicevano, fra gli altri popoli,
distruggere i tiranni (chè con tal nome chiamavano tutti i re) il timore
diventò spavento. Veramente uomini a posta scorrevano la Germania,
massime i Paesi Bassi, e pretendendo magnifiche parole a rei disegni,
insidiavano ai governi, ed incitavano i popoli a cose nuove: si temeva
che per le sfrenate dottrine tutte le province s'empissero di
ribellione. Si aveva anche in Italia avuto odore di tali mandatarj, i
sospetti crescevano ogni giorno. Dava ancora maggior fondamento di
temere il sapersi, che si trovavano in tutti i paesi non solo uomini
perversi, i quali pei malvagi fini loro desideravano far novità nello
stato, ma ancora uomini eccellenti, che levati a grandi speranze dalle
riforme già fatte in quei tempi dai principi, e credendo potersi dare
una maggior perfezione al vivere civile, non erano alieni dal prestar
orecchie alle lusinghevoli parole. Il pericolo si mostrava maggiore in
Germania ed in Italia per la vicinanza dei territorj, per la facilità e
la frequenza del commercio con la Francia, e per la comunanza delle
opinioni.
Tale era la condizione dei tempi; e per dar principio a favellare
dell'Italia, il re di Sardegna, trovandosi il primo esposto, per la
prossimità dei luoghi, a tanta tempesta, aveva più che ogni altro
principe, cagione di pensare a provveder al suo stato. Del che tanto
maggior necessità il premeva, che non gli era nascosto, che nella parte
de' suoi dominj posta oltre l'Alpi, le nuove opinioni s'erano largamente
sparse, e ch'ella poco attamente si poteva difendere dagli assalti
Francesi, quando si venisse a rottura di guerra con la Francia. Sapeva
di più, che i suoi stati erano principalmente presi di mira da quella
compagnia di propagatori di scandali, che s'era unita in Parigi,
secondochè sfacciatamente uno di loro favellando in pubblico aveva
predicato.
Per la qual cosa, veduto il pericolo imminente, coloro, i quali
reggevano i consigli della corte di Torino, ristrettisi con gli
ambasciadori e ministri degli altri principi d'Italia, rappresentarono
loro, che i casi avvenuti nel desolato reame di Francia davano giusta
cagione di timore per la quiete d'Italia; che l'assemblea nazionale,
acciocchè i principi europei non potessero voltare i pensieri loro agli
affari di Francia, pensava, per mezzo di seminatori di scandali e di
ribellione, a turbar la quiete altrui; che già i mali semi
incominciavano a sorgere, stantechè sebbene fosse stato continuo il
vigilare del governo, e continue le provvidenze date, non s'erano potute
evitare le compagnie segrete, ed anche alcuni, quantunque leggieri, moti
nel popolo; che tali ingratissimi effetti si dimostravano più o meno
nelle altre parti d'Italia; che per verità attentamente s'affaticavano
in ogni luogo i principi per estirpare queste occulte radici, per
chiudere i passi ai malvagi mandatarj, per iscoprir le congreghe
segrete, per allontanar le turbazioni; ma non ravvisarsi quale dei due
alfine avesse a restar superiore o la vigilanza dei governi, o la
pertinacia dei novatori, se non si prendevano nuove e più accomodate
risoluzioni; che la necessità dei tempi richiedeva che i principi
d'Italia si stringessero in una lega comune a quiete e difesa comune;
poichè quello, che spartitamente non avrebbero potuto conseguire,
l'avrebbero ottenuto per l'efficacia e pei soccorsi comuni. Aggiunsero,
che per verità questo disegno era già loro venuto in mente da gran
tempo, di tanta opportunità egli era; ma che gli aveva ritirati dal
proporlo il sapere che Giuseppe, imperatore d'Allemagna, pareva volersi
condurre ad assaltar con l'armi nel proprio loro covile quei nemici
dell'umanità e della religione; che ora, cambiate le circostanze per la
morte di Giuseppe, e volti i pensieri di Leopoldo suo successore
piuttosto a preservare, e conservare il proprio, che ad assalir
l'alieno, avvisavano esser tempo opportuno di ordinare, e di stringere i
vincoli di una comune difesa; che già il fuoco era vicino a consumare la
Savoia; che il Piemonte era in procinto di ardere; e chi avrebbe potuto
prevedere le calamità d'Italia, se non si spegnevano queste prime
faville? che però, visti i pericoli sì gravi e sì imminenti, il re
giudicava doversi, più presto il meglio, stringersi una lega fra tutti i
potentati d'Italia, non già diretta a danno altrui, ma solo a
preservazione propria, a tenersi guardati l'un l'altro dalle insidie dei
mandatarj francesi, a mantener la quiete negli stati, a parteciparsi
vicendevolmente le notizie sulle faccende presenti, e ad ajutarsi con
l'armi e coi denari ove nascesse in questo luogo, od in quello qualche
turbazione. Nè pretermisero i ministri Sardi di spiegar meglio quali
dovessero essere i membri della lega, nominando particolarmente il re
loro signore, l'imperatore d'Allemagna, la repubblica di Venezia, il
papa, il re di Napoli ed il re di Spagna per la parte di Parma. Il re di
Sardegna s'era già chiarito per alcune pratiche segrete della mente dei
re di Napoli e di Spagna, che acconsentivano ad entrar nella lega; il
papa vi si accostava ancor esso, siccome quello che ardeva di sdegno a
cagione delle innovazioni effettuate in Francia circa gl'interessi
spirituali e temporali della religione. Solo la repubblica di Venezia se
ne stava sospesa, considerando quanto questa lega, ancorchè apparisse
pacifica e meramente difensiva, avrebbe fatto ingrossar le armi in
Italia, e chiamato forti eserciti di Allemagna, se le cose venute
all'estremo avessero necessitato l'esecuzione; cosa sempre, e non senza
cagione detestata da quella repubblica. S'aggiungeva, che non avendo
essa pur testè voluto collegarsi con Giuseppe contro il Turco, naturale
ed eterno nemico dello stato suo, del qual rifiuto ne aveva anche avuto
le male parole da quell'imperatore in Trieste, pareva enorme al senato
lo stringersi ora in alleanza con Leopoldo suo successore in una impresa
evidentemente dirizzata, quantunque sotto parole velate, contro la
Francia, amica vera e necessaria della repubblica. Nè grande era il
timore, che aveva il senato delle nuove massime francesi; poichè la
natura Italiana molto eminente negli stati Veneti efficacemente si
opponeva alla loro propagazione: poi le consuetudini da tempi
antichissimi radicate nell'animo dei popoli, e l'amore che portavano al
loro governo, non consentivano; ma erano continue, e forti le istanze
del re di Sardegna, e degli altri alleati, acciocchè il senato si
risolvesse, perchè, se non avevano molta fede nelle armi Venete, avevano
gran bisogno del nome e dei denari della repubblica.
Miravano tutte queste pratiche ad introdurre in Italia le medesime
deliberazioni, ch'erano state prese in Germania dall'Austria e dalla
Prussia dopo la morte di Giuseppe, e l'assunzione di Leopoldo. Erasi
Leopoldo collegato con Federico Guglielmo di Prussia a sicurezza comune
contro gli appetiti immoderati di Caterina di Russia, e contro le
vertigini della Francia. Ma questa congiunzione tendeva a difendersi,
non ad offendere; i trattati di Pavia e di Pilnitz, in cui si suppose
essere stata stipulata la guerra, e lo smembramento della Francia,
furono trovati e menzogne politiche per apporre a Leopoldo risoluzioni
guerriere ed ostili, che non fece, e per stimolare a maggior empito i
Francesi, che già con tanto empito correvano.
Ma morto Leopoldo, ed assunto al trono il suo figliuolo Francesco,
principe giovane, ed ancora inesperto delle faccende, i negozj pubblici
si piegarono a diverso, anzi a contrario fine. Caterina di Russia, la
quale, visto il procedere temperato di Leopoldo e di Federigo Guglielmo,
si era constituita pubblicamente, volendo pur muovere qualche cosa in
Europa, la protettrice dell'antico governo di Francia, dimostrava con
molte protestazioni volerlo rinstaurare. Non doversi, spargeva, un re
virtuoso lasciar in preda a gente barbara; diminuita la potestà regia in
Francia, diminuirsi ancora per riverbero in tutti gli altri regni; avere
gli antichi per rispetto di un solo proscritto, preso le armi contro
stati potenti: perchè si resterebbero i principi d'Europa dal correre in
ajuto di un re, e di tutta una famiglia regia prigione, di tanti
principi esuli, di tutto il fior d'un regno perseguitato e ramingo?
l'anarchìa esser il pessimo dei mali, e più quando veste le sembianze
della libertà, perpetuo inganno dei popoli; tornare l'Europa nella
barbarie, se presto non si rimediasse; quanto a lei, essere parata ad
opporsi con tutte le forze sue alla moderna barbarie, come Pietro il
Grande, glorioso suo antecessore, aveva combattuto e superato un nemico
ostinato, e sempre pronto ad infestar con l'armi i popoli vicini. Ora
esser tempo d'insorgere, ora di unirsi, ora di pigliar l'armi per frenar
quegli scapestrati di Francia: ciò richiedere la pietà, ciò domandar la
religione, ciò volere l'umanità, ed ogni più santo, ogni più utile
interesse d'Europa.
Queste, ed altre simili cose diceva continuamente Caterina, ed insinuava
destramente nell'animo dei principi, massimamente di Francesco e di
Federigo Guglielmo. Nè mancarono a se medesimi in tale auguroso
frangente i fuorusciti francesi, e più i più famosi ed i più eloquenti,
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