Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I - 21

sorti loro avevano del tutto il tracollo, se non arrivava
frettolosamente il generale Berthier, che con la sua presenza tanto fece
che rinfrancò gli spiriti, e riordinò le schiere sbigottite e
disordinate. Spuntava intanto il giorno: i Tedeschi nell'ardir loro
moltiplicando, perchè già si credevano in possessione della vittoria, si
allargavano sulle ali per circondare il nemico. Ma già si erano riavuti
i Francesi; i Tedeschi medesimi, veduto al lume del giorno, che i nemici
superiori assai di numero, facevano le viste di assaltargli, pensarono
al ritirarsi; il che fecero prima in buon ordine e regolatamente, poscia
disordinati e rotti, instando acremente i Francesi, oramai consapevoli
dei loro vantaggi. La schiera tutta sarebbe stata condotta all'ultimo
termine, se per la seconda volta la cavallerìa Napolitana non le faceva
scudo alla ritirata. Così una conseguita vittoria divenne in un subito
una rotta evidente. Perdettero in questo fatto i Tedeschi quasi tutto il
bagaglio, non poche artiglierìe lasciate nei fossi della terra, molti
prigionieri fra i dispersi. Tenevano loro dietro a gran passo i
repubblicani, e s'impadronivano di Casale, mentre i residui
degl'imperiali si ricoveravano a Lodi, dov'era giunto con tutte le sue
forze Beaulieu, e dove voleva pruovare per l'ultima volta, se obbligando
il fortunato emulo suo a fare un moto eccentrico verso destra per
venirlo ad assaltare a Lodi, gli venisse fatto di rompere
quell'ascendente che aveva, e trasportare in se il favore della volubile
fortuna. A Lodi adunque in un ultimo cimento si doveva combattere della
salute di Milano, della conservazione della Lombardìa, del destino delle
reliquie ancora potenti delle genti imperiali.
Avvisavasi ottimamente il capitano Austriaco, che perduto il passo del
Ticino, e poichè i Francesi avevano varcato il Po, non gli restava altra
sedia di guerra opportuna a farvi testa, che il grosso e rapido fiume
dell'Adda, le parti inferiori del quale si trovavano assicurate dalla
fortezza di Pizzighettone munita di artiglierìe, e di sufficiente
presidio. Vuotata adunque Pavia, e lasciati dentro il castello di Milano
due mila soldati, la maggior parte del corpo franco di Giulay, aveva
raunato tutte le sue genti a Lodi. Siccome poi sapeva di certo che il
veloce Buonaparte, dopo le vittorie di Fombio e di Codogno, non avrebbe
indugiato a venire ad assaltarlo, perchè quello era l'ultimo cimento per
aver Milano, aveva collocato la sua retroguardia, sotto guida del
colonnello Melcalm, suo parente, in Lodi, comandandogli che resistesse
quanto potesse, ed in caso di sinistro si ritirasse sulla sinistra del
fiume. Intanto per assicurare il passo del ponte, molte bocche da fuoco
situava all'estremità di lui presso la sinistra sponda per modo che
direttamente l'imboccavano, e spazzare potevano. Nè parendogli che
questo bastasse alla sicurezza di quel varco importante, munì la riva
sinistra con venti pezzi d'artiglierìe grosse, dieci sopra, dieci sotto
al ponte, le quali coi tiri loro battendo in crociera parevano rendere
il passo piuttosto impossibile, che difficile. Gli Austriaci, cui nè
tante rotte, nè una ritirata di sì lungo spazio non avevano ancora
disanimato, se ne stavano schierati sulla sinistra riva, pronti a
risospingere l'inimico disordinato dal passo del ponte, se mai contro
ogni credere l'avesse effettuato. Danno alcuni biasimo a Beaulieu del
non aver tagliato il ponte in vece di averlo munito, presumendo che i
Francesi non avrebbero potuto varcare, se il ponte, fosse stato rotto,
perchè gl'imperiali forti di artiglierìe, ed ancora più di cavalli,
avrebbero avuto abilità o di arrestare i passanti, o di conquidere i
passati. Ma e' bisogna avvertire, che l'intento di Beaulieu era non
solamente d'impedire il passo al nemico, ma ancora di conservarlo per
se, perchè ed aspettava ajuti, e voleva render sospetto ai Francesi
l'andare a Milano. Quale di queste sia la parte sana, perchè può essere
errore uguale il giudicar dagli eventi, come il giudicare dai disegni,
arrivava Buonaparte impaziente delle guerre tarde, e veduto i
preparamenti del nemico, e sloggiatolo da Lodi con un assalto presto, si
risolveva, correndo il decimo giorno di maggio, a far battaglia sul
ponte, quantunque tutti i suoi non fossero ancora quivi raccolti. I
generali suoi compagni, che vedevano l'impresa molto pericolosa, fecero
opera di sconfortarnelo, rappresentandogli la fortezza del luogo, la
stanchezza dei soldati, le genti menomate dalle battaglie, e minorate
dalla lontananza di molte schiere valorose. Ma egli, che ne sapeva più
di tutti, che voleva quel che voleva, e che era non che liberale,
prodigo del sangue dei soldati, purchè vincesse, persisteva a voler dar
dentro, e tosto si accingeva alla pericolosissima fazione. Fatto adunque
venire a se un nodo di quattro mila granatieri e carabine, gente
rischievole, use al sangue, pronta a mettersi ad ogni sbaraglio, diceva
loro con quel suo piglio alla soldatesca, che tanto piaceva a' suoi
soldati: «Vittoria chiamar vittoria; esser loro quei bravi uomini, che
già avevano vinto tante battaglie, fugato tanti eserciti, espugnato
tante città; già temere il nemico, poichè già dietro ai fiumi si
ritirava: credersi quel Beaulieu già tante volte vinto, che il breve
passo di un ponte arrestar potesse i repubblicani di Francia; vana
presunzione, vana credenza: aver loro passato il Po, re dei fiumi;
arresterebbegli l'umile Adda? Pensassero, esser questo l'ultimo
pericolo; superatolo, in mano avrebbero la ricca Milano; dessero adunque
dentro francamente, sostenessero il nome di soldati invitti; guardargli
la repubblica grata alle fatiche loro, guardargli il mondo maravigliato,
ed atterrito alla fama di tante vittorie: quì conquistarsi Italia, quì
rendersi il nome di Francia immortale».
Schieraronsi, serraronsi, animaronsi, contro il ponte marciarono. Non
così tosto erano giunti, che gli fulminavano un tuonare d'artiglierìe
d'Austria orrendo, una grandine spessissima di palle, un nembo
tempestoso di schegge. A sì terribile urto, a sì duro rincalzo, alle
ferite, alle morti, esitavano, titubavano, s'arrestavano. Se durava un
momento più l'incertezza, si scompigliavano. Pure il valor proprio, ed i
conforti dei capitani tanto gli animarono, che tornavano una seconda
volta all'assalto: una seconda volta sfolgorati cedevano. Vistosi dai
generali repubblicani il pericolo, ed accorgendosi che quello non era
tempo da starsene dietro le file, correvano a fronte Berthier il primo,
poi Massena, poi Cervoni, poi Dallemagne, e con loro Lannes e Dupas, e
si facevano guidatori intrepidi dei soldati loro in un mortalissimo
conflitto. Le scariche delle artiglierìe Tedesche avevano prodotto un
gran fumo, che avviluppava il ponte; del quale accidente valendosi i
repubblicani, e velocissimamente il ponte attraversando, riuscirono,
coperti di fumo, di polvere, di sudore e di sangue sulla sinistra
sponda. Spigneva oltre Buonaparte subitamente i restanti battaglioni; ma
le fatiche loro non erano ancora giunte al fine, nè la vittoria compita,
perchè gl'imperiali ordinati sulla riva, facevano tuttavia una
ostinatissima resistenza. Tuonavano le artiglierìe, calpestavano i
cavalli, la battaglia, siccome combattuta da vicino, più sanguinosa. Già
correvano pericolo i Francesi di essere rituffati nel fiume, ed
obbligati a rivarcare con infinito pericolo il ponte con sì estremo
valore acquistato, quando opportunamente giunse con la sua eletta
squadra Augereau, che udito l'avviso della battaglia orribile, a gran
passi dal Borghetto in ajuto de' suoi compagni pericolanti accorreva.
Questa giunta di forze in momento tanto dubbio fece del tutto sormontare
la fortuna Francese. Beaulieu, abbandonato il bene contrastato ponte, si
ritirava prestamente con animo di andarsi a porre sul Mincio per serbare
le strade aperte al Tirolo, e per assicurar Mantova con un grosso
presidio.
La cavallerìa Tedesca, ma principalmente la Napolitana, che anche in
questo fatto soccorse egregiamente ai Tedeschi, proteggeva il
ritirantesi esercito. Per questa cagione, e perchè la cavallerìa di
Francia, che non ancora aveva potuto varcar il ponte fracassato, penava
a passar a guado, di pochi prigionieri nella ritirata loro furono
gl'imperiali scemi. Bensì perdettero nel fatto duemila cinquecento
soldati tra morti e feriti, quattrocento cavalli, gran parte delle
artiglierìe. Sopraggiunse la notte. Tra per questo, e per la stanchezza
dei soldati repubblicani accorsi a passi frettolosi, e per l'affrontarsi
della fiorita cavallerìa dei confederati, non poterono i Francesi fare
quel frutto col perseguitare, che avrebbero desiderato.
Grave fu anche la perdita dei Francesi: se non arrivò ai quattromila o
morti, o feriti, o prigionieri, come la parte avversa pubblicò, certo
passò i duemila, ancorchè Buonaparte con la solita fronte abbia
pubblicato, essere mancati de' suoi solamente quattrocento. La ritirata
dei confederati assicurò i repubblicani delle cose di Lombardìa, e pose
in mano loro Pavia, Pizzighettone e Cremona: la imperial Milano, priva
oramai di difesa, tanto solamente indugiava a venir sotto l'imperio
repubblicano, quanto tempo abbisognava ai repubblicani per arrivarvi.
Mescolaronsi a questi gloriosi fatti i saccheggi, e le devastazioni.
Giunte in Milano le novelle del passo del Po, e dello abbandonarsi da
Beaulieu la frontiera del Ticino, vi sorse un grande sbigottimento,
poichè vi si prevedeva, che poca speranza restava di conservare la città
sotto la divozione dell'Austria. Erano gli animi di tutti, come in una
popolazione ricca, allo approssimarsi di soldatesche nuove, non
conosciute, e forse anco troppo conosciute. Era stato mansueto il
governo dell'arciduca, nè quello della nobiltà tirannico; che anzi
partecipando dell'indole benigna di chi reggeva, della natura dolcissima
del clima, e di una educazione piuttosto data alle mollezze della vita,
che al dominare, aveva la nobiltà più clientela per amore, che potenza
per feudalità. Mancavano adunque nel Milanese le cagioni di mala
soddisfazione, che in altre contrade d'Italia si derivavano dalla
durezza del governo, e dalle insolenze dei nobili. Quindi nasceva, che
sebbene i popoli siano generalmente amatori di novità, e non conoscano
il bene se non quando l'han perduto, non si manifestavano nella felice
Lombardìa segni di future e spontanee rivoluzioni. Ognuno anzi temeva
per se, per le famiglie, per le sostanze. Queste cose tenevano i
Milanesi sospesi; nè per la natura loro erano capaci di lasciarsi
muovere da certe astrazioni di governi geometrici. Temevano anzi, che
siccome la città loro era grossa e ricca, così vi facessero i
repubblicani la principale stanza loro, ond'ella diventasse e segno di
oppressione speciale per se, e fomento di rivoluzione per gli altri.
Siccome poi non erano le faccende della guerra sicure, così dubitavano
che nell'andare e venire reciproco, e nel rincacciarsi dei due potenti
nemici, la misera Milano non avesse a pagar il fio di quanto più la
faceva cara e preziosa al mondo. Sapevano che pochi erano fra loro i
zelatori di novità, e questi pochi ancora quieti, e rimessi secondo la
natura del paese; ma apprendevano che ove i repubblicani vi avessero
posto sede, da tutta Italia vi concorressero o gli scontenti dei governi
regj, o gli amatori della repubblica, e con mezzi nuovi ed insoliti vi
partorissero accidenti ignoti, e forse terribili. Per la qual cosa vi si
viveva in grande spavento.
L'arciduca Ferdinando, che vedeva, che popoli disarmati e quieti non
potevano difenderlo da gente armata ed audacissima, giacchè l'esercito
imperiale stesso non era stato abile a tenerla lontana, abbandonato
d'ogni speranza, si risolveva a lasciar quella sede per andarsene nella
sicura Mantova, o quando i tempi pressassero di vantaggio, nella lontana
Germania. Desiderando però prima che partisse, provvedere alla quiete
dei popoli, ordinava con editto dei sette maggio, che i cittadini abili
all'armi si descrivessero ed in milizia urbana si ordinassero. Ai nove,
aggravandosi viemaggiormente il pericolo per l'approssimarsi dei
repubblicani, creava una giunta composta dei presidenti d'appello e di
prima instanza, e del magistrato politico camerale, con autorità di fare
quanto al governo si appartenesse, ed a questa giunta, come a capo
supremo dello stato, voleva che i magistrati minori obbedissero.
L'ordine giudiziale a far l'ufficio, come per lo innanzi, continuasse.
Avendo per tale guisa l'arciduca provveduto alle faccende, se ne partiva
il medesimo dì nove di maggio alla volta di Mantova, avviandosi dove già
era arrivata la sua famiglia. L'accompagnavano personaggi di nome, fra i
quali il principe Albani, ed il marchese Litta. Mesta era la comitiva:
l'arciduca non assuefatto a sentire i colpi dell'avversità, accusava
piangendo non la fortuna, ma, secondochè si usa nelle disgrazie, i
cattivi consigli di Beaulieu. La fuggitiva schiera passava pel
territorio Veneto, miserando spettacolo: faceva più compassionevole
quella calamità la moltitudine delle persone di ogni grado, di ogni età,
e di ogni sesso, le quali fuggendo la furia dei repubblicani,
abbandonate agli strani le case loro, correvano a ricoverarsi sulle
terre Veneziane, destinate ancor esse, e molto prossimamente, alla
medesima ruina. Così l'egregia Milano, stata da lungo tempo felicissima,
spogliata di difensori, privata del suo principe, se ne stava aspettando
non conosciute venture. Seguitava un interregno di tre giorni, in cui
non essendo più in potere dell'Austria, nè ancora in quello della
Francia, si reggeva con le proprie municipali leggi; nè in questo tempo
vi si udirono minacce, od insulti di persone, nè rubamenti, nè desiderj
di novità. Tanto era buona la natura di quel popolo!
Buonaparte intanto, espeditosi per la vittoria di Lodi di quanto più
pressava nella guerra, e già stimando Milano, com'era veramente, in sua
potestà, mandava Massena a farsene signore. In questo mentre mandavano i
magistrati municipali i loro delegati ad offerire la città a Buonaparte,
che si trovava alle stanze di Lodi, pregandolo di usare mansuetudine
verso un popolo in ogni tempo quieto, nemico a nissuno, confidente nella
generosità dei Francesi. Rispose benignamente, porterebbe rispetto alla
religione, alle proprietà, alle persone. Il giorno quattordici di maggio
entrava Massena con una schiera di diecimila soldati valorosissimi.
L'accampava, la maggior parte, fuori delle mura per modo ordinandola,
che i fanti occupassero tutti gli aditi degli spalti, i cavalli
custodissero le porte. L'incontravano al Dazio di Porta Romana i
municipali. Disse, per mescolare qualche temperamento alla fierezza
dell'armi, che sarebbero salve la religione, le persone, le proprietà.
Arrivarono il giorno dopo nuovi corpi di truppe; ogni parte piena di
soldati. Incominciossi l'opera dell'oppugnar il castello, a cui si erano
riparati gli Austriaci. I Francesi furono accolti nelle case con la
dolcezza del fare Milanese, ed eglino ancora, dico la maggior parte,
cortesemente procedendo, e con quel loro solito brio mostrandosi,
tiravano facilmente a se gli animi dei cittadini, che, veduto, che quei
repubblicani non erano tanto terribili quanto la fama aveva portato,
rimettevano del terrore concetto, e si affezionavano ai nuovi ospiti,
venuti per venture strane e spaventevoli nel paese loro. Tal era la
condizione del popolo Milanese, quando i Francesi entrarono in Milano,
dolce, ed affettuosa, nè contraria, nè propensa a quella libertà, che si
andava predicando.
Arrivavano intanto i repubblicani, sì finti come sinceri, i quali o
allettati dalla fama, o costretti dalla necessità, fuggendo lo sdegno
dei signori loro, concorrevano, come in sede propria, e di salute nella
città conquistata. A costoro si univano i repubblicani Milanesi, ed
intendevano a far novità. Fra tutti questi, gli utopisti si
rallegravano, persuadendosi, che fosse venuto il tempo di veder in opera
quella specie di reggimento, che nelle buone menti loro si avevano
concetta; nè gli poteva torre alla immagine lusinghiera l'apparato
terribile delle armi forestiere, nè la natura poco costante in se
medesima dei Francesi, nè l'autorità militare fatta padrona di ogni
cosa, e certamente pessima compagna di libertà. Servi di un'opinione
anticipata e di un dolce delirio, andavano sognando una perpetua
felicità, nè s'accorgevano, che la repubblica di Francia non combatteva
nè per loro nè per la libertà, ma per la grandezza e la sicurezza del
suo imperio, per posseder le quali, se fosse stato necessario, avrebbe
dato in preda all'Austria, non che Milano, Italia, ed ancor essi con
loro. Di costoro si faceva beffe Buonaparte, stimandogli uomini dappoco,
scemi, e, come sarebbe a dire, pazzi. Fra gli altri patriotti, o che si
chiamavano tali, era una generazione d'uomini, che amavano lo stato
libero, non per desiderio di preda, ma per ambizione, avvisandosi che
fosse dolce il comandare, e venuto il tempo propizio per salire dai
bassi gradi ai sublimi. Di questi faceva maggiore stima Buonaparte,
perchè, come diceva, erano gente che aveva polso, e che per poco che si
stimolassero, avrebbero servito mirabilmente a' suoi disegni. Eravi
finalmente una terza maniera di questi patriotti, i quali amavano le
novità per le ricchezze, e sperando di pescar nel torbido, gridavano ad
alte e spesse voci, libertà. Questi non frequentavano mai le stanze di
Buonaparte, perchè sebbene qualche volta gli accarezzasse, dava ancor
loro spesso di forti rabbuffi; ma amavano molto aggirarsi fra i
commissari, e gli abbondanzieri dell'esercito, dei quali diventavano
sensali e mezzani, per forma che mentre i buoni utopisti andavano dietro
alle loro ubbìe, ed erano per semplicità repubblicana, e volevano esser
poveri, questi al contrario si arricchivano a spese di coloro, ai quali
dicevano voler dare il vivere libero. Erano molti di tutti questi generi
di patriotti.
Fecero grandi allegrezze in sull'entrar dei Francesi di luminarie, di
balli, di festini: ma per quella servile imitazione, di cui erano
invasati verso le cose Francesi, e che fu la principal cagione della
servitù d'Italia, piantarono altresì alberi di libertà, e vi facevano
intorno canti, balli, discorsi, ed altre simili tresche. Poscia,
acciocchè non mancasse quel condimento delle congreghe pubbliche per
aringarvi intorno a cose appartenenti allo stato, le fecero a modo di
Francia, ed in loro chi aringava con maggior veemenza, più era
applaudito. Tutte queste cose si facevano: il popolo, non potendo restar
capace di ciò che vedeva, faceva le maraviglie.
Entrava in Milano il vincitor Buonaparte, non già con semplicità
repubblicana, ma con fasto regale, come se re fosse: l'accolsero con
grida smoderate i patriotti, e parte del popolo, solito a fare come gli
altri fanno. Innumerabili scritti si pubblicarono, in cui sempre più si
lodava Buonaparte, che la libertà: mostrossi, per dir il vero, in questo
molto schifosa l'adulazione Italiana. Fra i patriotti, chi lo chiamava
Scipione, chi Annibale; il repubblicano Ranza il chiamava Giove. I buoni
utopisti, quando lo vedevano, piangevano di tenerezza. Queste
dimostrazioni egli si godeva tanto in pubblico, quanto in privato; ma
augurava male degl'Italiani, perchè essendo egli operatore grandissimo,
credeva, e con ragione, che coi fatti, non con le parole si compiscono
le grandi mutazioni negli stati. Quando poi uomini o donne amatori
sinceri di libertà (che anche donne, e non poche si trovavano
tenerissime di lei) a lui si rappresentavano per raccomandargliela,
rispondeva con ciglio austero, la conquistassero, uscissero dall'imbelle
vita, le armi pigliassero, le armi usassero: dura cosa essere la
libertà; duri cuori e dure mani conservarla; fuggire lei la mollezza e
il lusso: solo abitare fra le popolazioni forti, e magnanime.
Intanto vedeva il mondo una cosa maravigliosa. Un soldato di
ventott'anni, un mese innanzi conosciuto da pochi, avere con un esercito
sprovveduto e non grosso superato monti difficilissimi, varcato grossi e
profondi fiumi, vinto sei battaglie campali, disperso eserciti più
potenti del suo, soggiogato un re, cacciato un principe, acquistato il
dominio di una parte d'Italia, apertosi la strada alla conquista
dell'altra, convertito in se stesso gli occhi di tutti gli uomini di
quell'età. Sapevaselo Buonaparte; l'anima sua ambiziosa
maravigliosamente se ne compiaceva. Ma perchè l'aspettativa che aveva
desta di lui non si raffreddasse, e per farsi scala a cose maggiori,
mandava fuori il venti maggio un discorso molto infiammativo a' suoi
soldati:
«Soldati valorosi, diceva, voi piombaste, come torrente precipitoso,
dall'Alpi e dagli Apennini; voi urtaste, voi rompeste nel corso vostro
ogni ritegno. Il Piemonte, oggimai libero dall'Austriaca tirannide,
spiega i naturali suoi sentimenti di pace e d'amicizia verso la Francia.
Vostro è lo stato di Milano: sventolano all'aura su tutte le alte cime
della Lombardìa le repubblicane insegne: i duchi di Parma e di Modena
alla generosità vostra sono del dominio, che ancora lor resta,
obbligati. Dov'è l'esercito che testè con tanta superbia v'insultava? Ei
non ha più riparo contro al coraggio vostro. Nè il Po, nè il Ticino, nè
l'Adda poterono un sol giorno arrestarvi. Vani furono i vantati baluardi
d'Italia, vani i gioghi inaccessi degli Apennini. Sentì la patria
infinita allegrezza delle vostre vittorie; vuole, che ogni comune le
celebri: i padri, le madri, le spose, le sorelle, le amanti dei fausti
eventi vostri si rallegrano e si stimano dello avervi per congiunti
fortunatissimi. Sì per certo, o soldati, assai faceste; ma forse altro a
fare non vi resta? Diranno di voi i contemporanei, diranno i posteri,
che abbiam saputo vincere, non usare la vittoria? Accuseranci dello aver
trovato Capua in Lombardìa? No, per Dio, no, che già vi veggo correre
alle vincitrici armi, già veggo sdegnarvi ad un vil riposo, già sento, i
giorni passati senza gloria, esser giorni perduti per voi. Orsù,
partianne: restanci viaggi frettolosi a fare, nemici ostinati a vincere,
allori gloriosi a cingere, crudeli ingiurie a vendicare. Tremi chi
accese le faci della civil guerra, tremi chi uccise i ministri della
repubblica, tremi chi arse Tolone, tremi chi rapì le navi: già suona
contro a loro in aria una terribile vendetta. Pure stiansi senza timore
i popoli: siamo noi di tutte le nazioni amici, specialmente siamo dei
discendenti di Bruto, dei Scipioni, di tutti gli uomini grandi, che
impreso abbiamo ad imitare. Ristorare il Campidoglio, riporvi in onore
le statue degli eroi, per cui tanfo è famoso al mondo, destar dal lungo
sonno il Romano popolo, torlo alla schiavitù di tanti secoli, fia frutto
delle vittorie vostre: acquisteretevi una gloria immortale, cangiando in
meglio la più bella parte d'Europa. Il popolo Francese libero,
rispettato dai popoli, darà all'Europa una pace gloriosa, che di tanti
sofferti danni, di tante tollerate fatiche ristorerallo. Ritornerete
allora fra le paterne mura, i concittadini a dito mostrandovi, diranno:
_fu soldato costui dell'esercito Italico_».
Questo tremendo parlare empiva di spavento Italia: ognuno aspettava
accidenti terribili.

FINE DEL TOMO PRIMO.