Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I - 12

perciocchè splendeva la luna, givano i repubblicani all'assalto divisi
in tre parti. Condotta l'una da Dumas medesimo saliva per la strada
maestra per affrontar il ridotto della Ramassa, la seconda guidata dal
capitano Cherbin si andava volteggiando per la selva dei pini
coll'intento di riuscire addosso al ridotto dei Rivetti, e finalmente la
terza governata da Bagdelone, tanto chiaro per la fresca vittoria del
San Bernardo, passando per gli sterpi e pei virgulti, si avvicinava al
ridotto Strasoldo. Non così tosto i regj si accorsero dello
approssimarsi del nemico, che diedero mano a trarre con l'artiglierìe, e
con l'archibuserìa. Ne nacque in mezzo a quei dirupi una battaglia
orribile, resa ancor più spaventosa per l'ombre della notte che
oscuravano le forre più basse, pel lume sinistro che spandevano ad ora
ad ora le artiglierìe, e per l'eco, che in quelle cave montagne
rispondeva orribilmente da vicino e da lontano al rimbombar loro così
spesso, e così strepitoso. I quali spavento e fracasso sempre più
crescevano, quanto più si avvicinavano i Francesi ai ridotti regj;
poichè, non isbigottiti punto dalla feroce difesa, nè dal numero dei
loro morti e feriti, sempre più s'accostavano, posponendo il non vincere
al morire. Già si combatteva da vicino ai due ridotti dei Rivetti, e
della Ramassa, e pendeva dubbia la vittoria; perchè il conte di
Clermont, che vi stava alla difesa, disposti bene ed incoraggiti i suoi
soldati, rendendo furia per furia, nè poteva vincere gli assalitori, nè
esser vinto da loro. Con pari evento e valore si combatteva al ridotto
di Strasoldo, nè si sapeva ancora a chi dovesse rimanere il dominio
dell'Alpi, quando Bagdelone con la sua squadra, uscito felicemente fuori
da tutti gl'impedimenti, massime da alcuni luoghi precipitosi, che gli
si pararono davanti strada facendo, si scoperse alle spalle del ridotto
medesimo, e diè con questa ardentissima mossa principio alla vittoria
dei suoi; imperciocchè i soldati del re, veduto eseguito ciò che
credevano impossibile, ed essere venuto il pericolo donde non
l'aspettavano e dove non avevano difesa, pensarono al ritirarsi; il
quale consiglio non fu effettuato senza qualche inviluppata nelle
schiere, mescolandosi, e crescendo secondo il solito il terrore là dov'è
deliberazione necessitata dalla forza. Superato il ridotto Strasoldo,
non vi era più speranza di poter conservare i Rivetti e la Ramassa.
Furono pertanto abbandonati con molta fretta dai difensori, pressati
impetuosamente da Cherbin e da Dumas, che già prima della rotta dei regj
a stanca, erano in procinto di entrare, superato ogni ostacolo, in quei
forti. In cotal modo le difese rizzate sull'estremo confine d'Italia
vennero in poter dei Francesi, non senza però che il valore Italiano non
avesse fatto mostra di se, e dato a vedere alle menti sane, che valore
contro valore avrebbe tenuta la bilancia in fermo, ma che valor solo non
può prevalere contro valore congiunto ad entusiasmo.
Questa vittoria riuscì ai repubblicani tanto utile e preziosa, quanto
era stata difficile e pericolosa. Per la subita ritirata dei regj
acquistarono i Francesi tutte le artiglierìe dei ridotti che erano
fioritissime, con alcune altre, che vicine stanziavano per gli scambj,
molta moschetterìa, e munizioni sì da guerra che da bocca in quantità
considerabile. Morirono pochi, rispetto alla gravità del fatto, dall'una
parte e dall'altra; circa ottocento prigionieri ornarono la vittoria dei
repubblicani. Nacquero in questa subita e confusa ritirata alcuni fatti
miserabili; perchè trovandosi fra i regj alcuni fuorusciti di Savoja, e
non potendo, o non credendo poter fuggire quella furia che loro teneva
dietro, poichè velocemente i vincitori perseguitavano i vinti,
precipitarono se stessi dalle alte rupi nei più bassi fondi, anteponendo
una morte compassionevole, ma volontaria, agli strazj che nella patria
loro sapevano contro di loro essere apparecchiati. Non fecero i Francesi
fine al perseguitare, se non quando il nemico si fu ridotto a Susa. In
tal modo la Ferriera e la Novalesa, terre poste l'una sul dorso, l'altra
alle falde del Cenisio dalla parte d'Italia, vennero a divozione dei
repubblicani; vi posarono le loro prime scolte. Perduto il Cenisio,
tutta la difesa del Piemonte per quella strada era ridotta nel forte
della Brunetta, che fondato sul vivo macigno, e provveduto d'armi e di
munizioni, era impossibile ad esser superato. Nè i Francesi si
attentarono di combatterlo; poichè contenti all'essere divenuti signori
del passo alpestre del Cenisio, ed allo aver messo spavento coll'armi
loro sulle rive della Dora Riparia, nè essendo in numero sufficiente a
poter tentare cosa d'importanza più oltre la Novalesa, se ne stettero
quieti aspettando quel che la fortuna si recasse avanti nelle altre
parti, dove ardeva la guerra.
Dalla parte della Liguria non era compiuta la vittoria dei Francesi, nè
potevano impadronirsi della sommità delle Alpi, finchè restava sotto
l'imperio del re la fortezza importante di Saorgio. Ma tal era il sito
di lei, e così sicuro per arte e per natura il luogo dov'era fondata,
che non potevano avere speranza di conquistarla per oppugnazione.
Voltarono adunque il pensiero ad insignorirsene per assedio; il che
credettero di poter conseguire facilmente, traversando i monti
asprissimi, che dividono il Genovesato dalla valle della Roja, e
scendendo ad occuparla nella parte superiore a Saorgio; perchè in tale
modo essendo chiuso l'adito alla fortezza e sotto e sopra, e mancata ai
difensori ogni speranza di soccorso, avrebbero dovuto fra breve cedere
alla necessità. I capitani del re, e fra i primi Colli, conosciuto il
pericolo, si erano ingegnati di ovviarvi con aver fortificato
diligentemente le cime di quei monti, massime il passo principale del
colle Ardente. Ivi si aspettava una sanguinosa battaglia. Infatti i
Francesi, audaci secondo il solito, e baldanzosi per le vittorie, dopo
di essere stati respinti con molto valore in un primo incontro, si
appresentarono alla batterìa il dì venzette aprile, ed incominciarono un
furiosissimo combattimento. Durò molte ore il conflitto; finalmente i
Francesi, spintisi avanti grossi ed impetuosi contro il ridotto di
Felta, che era parte delle difese rizzate sulle rive del Tanarello e
della Saccarda, se ne impadronirono; la qual cosa fu occasione che tutti
quei passi, e principalmente quello del colle Ardente, fossero ridotti
in potestà loro. Morirono in questo fatto parecchj soldati di nome, e di
valore dall'una parte e dall'altra. Nè voglio che la solita continenza
degl'Italiani, che sa qualche volta di freddezza, nel far onore agli
uomini virtuosi loro, quando le testimonianze non vengono loro dai
forestieri, tanto mi trattenga, che io non soddisfaccia ad un mio giusto
desiderio raccontando come in questo fatto fu ferito mortalmente il
capitano Maulandi, capitano che era nell'esercito regio, nel quale io
non saprei dire se fosse maggiore o il valor militare, o la modestia
civile, o l'amore dell'umanità, o l'ingegno, o la letteratura. Amico de'
miei, amico di tutti i buoni, e buono egli stesso, meritò certamente che
altro più degno storico ch'io non sono, tramandasse le sue lodi ai
posteri; ma siccome pure questa soma mi è stata accollata da chi in me
stesso può più di me, godomi bene che l'occasione mi sia porta di fare
una tal quale testimonianza al nome del buon Maulandi, confortandomi in
tal modo colla immagine di un uomo giusto e dabbene, del fastidio dello
aver a raccontare tante corruttele, e tanti vizj dell'età nostra:
avvengadiochè io mi creda, che miglior fede ch'io far non posso delle
sue virtù, faranno ai posteri gli scritti suoi pieni di spirito poetico,
di dolce amenità, di grazia tutta Oraziana. Delle opinioni correnti
pensava moderatamente. Amatore di corretta libertà, desiderava
moderazione nelle potestà supreme, ma diede volentieri e sangue e vita
alla patria, ed al re, per loro fedelmente e valorosamente combattendo.
La vittoria del colle Ardente diè campo ai Francesi di calarsi per la
via della Briga alle spalle di Saorgio sulla strada maestra che porta al
colle di Tenda, ed in tal modo quel forte, abbandonato alla larga da'
suoi difensori, e circondato da ogni parte dai nemici, fu ridotto a
difendersi con le proprie forze. Certamente, essendo munitissimo,
avrebbe potuto agevolmente difendersi insino a che la fame non
costringesse il presidio a far quello a che la forza non l'avrebbe
necessitato. Aveva Colli, ritirandosi più frettolosamente che poteva
verso il colle di Tenda, ordinato al cavaliere di Sant'Amore, comandante
della fortezza, resistesse più lungamente che potesse e non cedesse la
piazza, se non quando ne avesse avuto il comandamento da lui, perchè
l'intento suo era di ritornare con maggior nervo di forze a soccorrerla.
Ma il cavaliere, o che credesse nella occorrenza presente, e per
l'effetto dello essere i Francesi calati sulla strada maestra tra
Saorgio ed il colle di Tenda, fosse impossibile al Colli di mandargli
avviso, o per altra meno nota cagione, la dette, con patto che fossero
salve le sostanze e la vita, e sotto fede di restar prigioniero di
guerra con tutti i suoi soldati. Condotto a Torino, e quivi processato
in un con Mesmer, comandante di Mirabocco, furono entrambi condannati a
morte da un consiglio militare, e passati per le armi sulla spianata
della cittadella; col quale giudizio, se giusto, certamente anche
rigoroso, volle il governo dar terrore ai novatori, e credenza ai
popoli, che il tradimento avea procurato la vittoria al nemico.
Rimaneva ai Francesi per compir l'opera che s'impadronissero del colle
di Tenda, sommo apice dell'Alpi Marittime; nè s'indugiarono a
quest'impresa, volendo prevalersi dello scompiglio dei regj, e del
favore della vittoria. Per la qual cosa, seguitando con celerità,
assaltarono i Piemontesi, che facevano le viste di voler difendere il
colle. Prima di arrivare alle falde di questo monte, la strettura, nel
cui fondo serpeggiano la strada di Nizza e il torrente della Roja,
s'apre improvvisamente, e si allarga in una grande ampiezza.
Quest'ampiezza è chiusa dal colle di Tenda, tanto largo quanto è
l'ampiezza medesima il quale appresentandosi a guisa di tenda a chi
venendo da Nizza se ne va verso il Piemonte, ha dato il nome al monte.
Ma questo monte, quantunque assai ripido, essendo molto largo, e pieno
quà e là, massime verso i fianchi, di facili eminenze, dà comodità al
nemico che vuol salire, di pigliar posto in numerosi luoghi
successivamente; il che, dando diversi riguardi a chi sta sulla sommità
a difenderlo, rende più difficile la difesa, massime se l'assalitore,
trovandosi in numero grosso, può occupare l'uno dopo l'altro i posti
eminenti sulla faccia del colle. Ciò fecero con molta audacia e perizia
i Francesi: per questo ancora, dopo debole difesa, i Piemontesi,
abbandonata quella cresta in balìa del nemico, si ritirarono a Limone,
terra posta alle radici del colle dalla parte del Piemonte.
La conquista di Saorgio e del colle di Tenda diede in mano dei
repubblicani tutti i mezzi della guerra Alpigiana, ed altri fondamenti
non restarono alla sicurezza degli stati del re posti verso Italia, che
le fortezze situate alle sboccature delle valli. Per questo cambiossi
del tutto la condizione della guerra; perchè i repubblicani stavano
superiormente in atto d'assalitori, i regj pel contrario in atto di
difensori, ed i vantaggi che questi avevano acquistato sul principiar
della guerra di quest'anno, caddero in mano di quelli. Tanto fu
l'effetto dell'impeto dei Francesi, e dello aver preso il passo pei
territorj della repubblica Genovese.
Tutte queste fazioni molto perniziose allo stato del re, tanto maggior
terrore creavano, quanto incominciavano a pullularvi in qualche parte le
male erbe nate dai semi di Francia. Fecersi congiure contro lo stato da
uomini condotti da illusioni funeste ma che niun mezzo avevano di
arrivare ai fini loro. Presesi dei capi l'ultimo supplizio; degli altri
si giudicò più rimessamente; moderazione degna di grandissima lode in
mezzo a tanti sdegni, ed a tanti terrori. Tanto erano commendabili per
la consuetudine, sebbene imperfetti per le forme, gli ordini giudiziali
di quel regno, e tanto integri i magistrati, dappoichè Vittorio Amedeo
secondo, moderata la potenza della nobiltà, aveva ridotto le cose ad uno
stato più tollerabile di giustizia, e di equalità civile.
Vittorio, perduta la metà degli stati, e le principali difese dell'Alpi,
faceva continui provvedimenti per preservarsi dall'estrema rovina.
Avendo fede nei sudditi, ordinò che tutti, di qualunque grado o
condizione si fossero, purchè abili all'armi, avessero a procurarsi armi
e munizioni sì da guerra che da bocca per giorni quattro, e si tenessero
pronti a marciare al primo tocco di campana a martello; fossero retti, e
divisi in isquadroni da ufficiali di sperimentata capacità; se la
spedizione più di quattro giorni durasse, somministrassersi munizioni
dalle armerìe, e viveri dai magazzini del regno; i nobili ed i facoltosi
ne fornissero a chi ne mancasse; sostentasse il pubblico le famiglie
degli accorsi, ove ne abbisognassero; gli ufficiali civili stessi, se il
caso della mossa arrivasse, si unissero allo stormo; premierebbersi
coloro, che meglio avessero combattuto pel re, e per la patria.
Questo stormo, a guisa di tutte le masse di simil natura, non poteva
esser di molto momento alla vittoria; che anzi avrebbe piuttosto potuto
nuocere che giovare, se non fosse stato secondato da forti squadre di
gente stanziale usa alle guerre, ed ai pericoli. Per la qual cosa si
provvedevano di nuove reclute i reggimenti sì stabili che provinciali;
ma questi rimedj non bastavano alla salute del regno, perchè i limiti
dello stato essendo oramai molto ristretti, e le precedenti leve avendo
diradato la gioventù atta all'armi, non si sperava molto frutto. Laonde
instantemente si ricercarono i generali Austriaci, che fatti uscire
dalle stanze invernali i soldati loro, prontamente verso il Piemonte,
che pericolava, gl'indirizzassero. Il conte Oliviero Wallis, tenente
maresciallo, preposto dall'imperatore a tutte le genti che avevano le
stanze nel ducato di Milano, conformandosi alle richieste, mandò in
Piemonte sollecitamente nel mese d'aprile tutte quelle, che avevano
svernato in Pavia, Lodi, Codogno, Cremona, Bozzolo, Casalmaggiore,
Mantova, Como, e Milano, e che unite componevano un esercito di
ventimila soldati. Si sperava di poter rintuzzare con queste l'audacia
dei repubblicani, e di frenar l'impeto loro insino a tanto che un
esercito ancor più forte accorresse di Germania in Piemonte a norma del
trattato di Valenziana. Inoltre muniva il re di genti e di provvisioni
fresche la Brunetta, Fenestrelle, Demonte, Ceva, Cuneo, ed Alessandria.
Perchè poi in tanto e sì straordinario bisogno non mancassero le armi e
le munizioni, nè potendo i mezzi ordinarj supplire, ordinava, che si
raccogliesse il salnitro in tutte le case di Torino, e si portassero
alla zecca ed all'arsenale le campane non necessarie al culto. Pure il
terrore era grande. I ricchi, massime i nobili, non quelli che militando
seguitavano le insegne reali, ma gli oziosi ed i cortigiani, si
apparecchiavano, certo con poco generoso consiglio verso la patria loro,
ad andarsene in paesi stranieri, con se le cose più preziose
trasportando. Per andar all'incontro delle ignominiose fughe, mandava
fuori il re una legge, che sotto pena di confiscazione di beni le
proibiva, con questo altresì, che i beni confiscati s'incorporassero
alla corona.
Fu anche giudicato, che per prevenir le congiure, fosse necessario il
soffocarne i semi, e sbarbarne le radici. Perlochè si ordinava, che
fossero proibite tutte le adunanze segrete, anche le letterarie, ed
anche i casini; la qual ultima condizione, posta o da vero, o solo per
non dar cagione alle classi inferiori di lamentarsi, accennava ad una
congrega particolare, che faceva la nobiltà di Torino. Così in
quell'estremo frangente si preparavano le armi, si spartivano i
cittadini perchè non giurassero, si univano perchè combattessero.
Le fazioni tanto favorevoli ai Francesi diedero molto a pensare ai
governi Italiani, che prevedevano, che se i repubblicani vincendo
compiutamente, occupassero l'Italia, sarebbe nato un sovvertimento
totale per tutti; e se l'Austria ed il Piemonte vincevano, sarebbero
stati, se non preda del tutto, certamente in balìa ed in soggezione
loro. Laonde il re di Napoli si risolveva a fare maggiori sforzi in
favore dei confederati, sì per por argine contro quella piena che
minacciava l'Italia, e sì ancora per aver parte, se la fortuna si
mostrasse favorevole, nei premj della vittoria. Indirizzava alla volta
della Lombardìa, parte per terra parte per mare, diciottomila soldati
tra fanti e cavalli, acciocchè fossero presti ai bisogni della lega. Per
bastar poi al dispendio che sì considerabili apparecchiamenti
richiedevano, aveva comandato, pagassero i baroni, i nobili, ed i ricchi
centoventimila ducati al mese; il restante, per non aggravar i popoli
dell'inferior condizione, fornirebbe l'erario: pagassero i beni
ecclesiastici una tassa del sette per centinajo; portassersi alla zecca
gli ori e gli argenti delle chiese, che non fossero necessarj al culto,
obbligandosi il re a corrispondere un merito del tre e mezzo per
centinajo del valore; alcuni ordini di frati si sopprimessero; il
patrimonio loro si assegnasse all'ospedale degl'incurabili.
Erano pronte le genti a marciare verso l'Italia superiore, quando si
scoperse la congiurazione di Napoli, che tendeva, siccome portò la fama,
a cambiare il governo regio, ed a fare una rivoluzione nel regno. Questo
fatto grave in se stesso, e reso ancor più grave dalle menti
accendibili, e tanto magnificatrici dei Napolitani, trattenne le truppe,
preponendo il governo la salute propria a quella d'altrui. Si aggiunse
che i corsari sì Francesi che Algerini infestavano i littorali del
regno, con rapire i bastimenti mercantili sul mare; gli ultimi a volta a
volta sbarcavano anche sulle coste delle Calabrie per rubare, e per far
peggio eziandìo che rubare.
Anche il pontefice, che fra tutti i principi era forse quello che
procedeva con più sincerità, faceva guerrieri provvedimenti. Presidiò
con navi armate i porti del Mediterraneo, armò le fortezze, pose sui
luoghi più sospetti del littorale sufficienti guardie, ordinò magazzini,
ospedali, e nuove regole per la milizia. Essendosi poscia condotto,
siccome usava ogni anno, non interrotto il consueto pensiero dalle cure
moleste della guerra, e dai terrori che correvano, a visitare le paludi
Pontine, andò rivedendo i posti militari sulle coste per inspirare con
la gravità dell'aspetto fedeltà, e con le esortazioni coraggio ai
soldati. In questi suoi pensieri dello armare tanto più volentieri
s'infiammava, quanto più sapeva essere i repubblicani molto sdegnati
contro di lui per un fatto enorme accaduto in Roma sull'entrar dell'anno
precedente; imperciocchè un Basseville, segretario della legazione di
Francia, o per imprudenza propria, come alcuni stimano, nel voler
promuovere troppo vivamente le opinioni del tempo, di cui era infatuato,
o per un sorgere spontaneo dei Romani a cagione dell'odio che portavano
ai repubblicani, come altri credono, fu crudelmente ammazzato a furia di
popolo, con alcuni altri individui della medesima nazione. Fu incesa
anche nel medesimo fatto parte dei palazzi dell'Accademia di Francia, e
del console Francese. Quantunque il governo pontificio non vi avesse
colpa, e che anzi avesse fatto in quel subito accidente quanto per lui
si era potuto per frenare la rabbia di chi voleva contaminar Roma con un
sì grave misfatto, importava ai repubblicani che glielo imputassero, e
da lui alla ferocia del Romano governo argomentando, protestavano di
volerne fare condegna vendetta.
Non così tosto pervennero in Venezia le novelle delle prime vittorie dei
repubblicani sull'Alpi, e del loro ingresso nel territorio Genovese, i
capi del governo, veduto avvicinarsi il pericolo, tennero fra di loro
molte consulte per deliberare quello che fosse a farsi in una occorrenza
di tanta importanza, contendendo aspramente tra di loro le due parti
contrarie, e quella che insisteva perchè la repubblica si armasse, e
quella che credeva più pericoloso l'armarsi, che il fidarsi. Sorse di
nuovo in senato il procurator Pesaro, al quale s'aggiunse il suo
fratello Pietro, uomo anch'egli di molta autorità, con efficacissime
parole dimostrando, essere semplicità non comportevole il prestar fede
al soave parlare di Francia, il governo della quale, se chiamando la
repubblica di Venezia sua primogenita sorella, operava gl'incantamenti
delle sirene, coi fatti poi ne avrebbe imitato il costume; che già le
Alpi erano superate, che già Italia udiva il rimbombo delle artiglierìe
barbare, che già le armi vacillavano in mano ai Piemontesi ed ai
Tedeschi; ch'era oggimai tempo di svegliarsi dall'imbelle sonno, e di
non restar più disarmati a discrezione altrui.
Sorse in senato un'aspra contesa, discrepando con parole veementi dalla
volontà del Pesaro la parte contraria, nella quale mostravano maggior
ardore Girolamo Giuliani, Antonio Ruzzini, Antonio Zeno, Zaccarìa
Valaresso, Francesco Battaglia, Alessandro Marcello primo, sclamando
tutti, che l'armarsi non era possibile, perchè l'erario era esausto, non
a tempo, perchè prima le genti forestiere sarebbero sui territorj della
repubblica, che i soldati, e l'armi pronte; inutile, perchè la massa
sarebbe di gente fresca ed inesperta, più atta a crescere disordine, che
ad allontanarlo; non aversi per la lunga pace capi di sperimentato
valore, nè potersi sperare di ottenerne dagli esteri, perchè tutti in
guerra; aversi la repubblica a ridurre in non piccole angustie, se
consentisse a discostarsi dalle prese deliberazioni. Dopo molte contese
fu vinto il partito posto dal Pesaro con centodiecinove voti favorevoli,
e sessantasette contrarj. Decretossi, chiamassersi le truppe, sì a piede
che a cavallo, dalla Dalmazia, perchè venissero ad assicurare la
Terraferma; le reclute degli Schiavoni si ordinassero, le cerne in
Istria si levassero, le leve in Terraferma per riempire i reggimenti
Italiani si facessero, le compagnìe dalle quarantotto alle cento teste,
quelle degli Schiavoni alle ottanta si accrescessero; finalmente
l'erario con le tasse si riempisse. Volle inoltre il senato, che si
rendessero sicure con le navi della repubblica le navigazioni sul golfo
infestato da corsari Africani e Francesi. A questo modo aveva il senato
prudentemente, e fortemente deliberato. Ma i savj del consiglio, ai
quali apparteneva la esecuzione del partito vinto dal Pesaro, essendo la
maggior parte di contraria sentenza, tanto fecero, scusandosi con la
penuria delle finanze, che, eccettuata una massa di settemila soldati,
nissun effetto ebbe la deliberazione del senato, sclamando sempre in
contrario il procurator Pesaro, e continuamente accusando tanto in
pubblico quanto in privato l'improvvidenza degli uomini, ed il destino
che perseguitava, senza che vi fosse speranza di salute, la sua diletta
ed infelice patria.
Intanto, come se le spie senza le armi valessero, aveva la repubblica
mandato a Basilea il conte Rocco San Fermo, acciò spiasse, e mandasse
quello che gli venisse fatto di scoprire in quella città finittima di
Francia, ed in cui concorrevano, siccome in terra neutrale, amici e
nemici di ogni sorte. San Fermo, o che fosse spaventato egli, o che
volesse spaventare gli altri, scriveva continui terrori a Venezia; che
un certo Gorani (questi è quel Gorani che scrisse i monitorj in forma di
lettere a tutti i re d'Europa) era destinato dal governo di Francia ad
essere stromento a far rivoluzione in Italia; che aveva con se sei
satelliti, pronti a fare quello, e peggio ch'ei volesse; che già questo
Gorani aveva sollevato la Polonia, e solleverebbe anche l'Italia;
ch'egli era stato cagione della congiura di Napoli; che parimente
insidiava a tutti i governi d'Italia; badassero bene a questo Gorani,
ch'era uomo da far gran cose. Aggiungeva San Fermo non so che ciance di
un Bacher, segretario della legazione Francese in Basilea; poi, che un
certo Guistendoerffer gli riferiva da Parigi, essendo stato con
Robespierre, Couthon, e quegli altri della salute pubblica, che la
Francia faceva grandissimi disegni sull'Italia; che volevano andarvi per
trovarvi grani e ricchezze; che dal Reno marcerebbero soldati all'Alpi;
che per mezzo dei loro fidati, e dell'oro sparso avevano intelligenze da
per tutto; che già aveva costato, nel novanta tre, l'Italia undici
milioni di franchi, Venezia sola trecento cinquanta mila; che costerebbe
due volte tanto nel novanta quattro, per modo che già erano a loro
obbligati personaggi di eminente condizione, e fra di loro alcuni dei
destinati dal governo a sopravvedere, ed a scoprire le trame di Francia;
che Venezia non si assalirebbe, ma s'insidierebbe, perchè stimata nemica
a cagione del non aver voluto accettare l'ambasciadore Noel, e dell'aver
accomodato i confederati di armi, munizioni, vettovaglie e passo; che di
più si accusava la repubblica di aver fatto carcerare il conte Apostoli,
partigiano dei Francesi, ed addetto alla legazione loro in Venezia; che
si accagionava oltre a tutto questo Venezia di sofferire, che i
fuorusciti di Francia facessero sul suo territorio insulti, e
superchierìe ai repubblicani. Queste novelle, che avrebbero incoraggito
per un generoso risentimento animi valorosi, intimorirono i molli, e
furono cagione che le deliberazioni della repubblica in quei tempi
difficili sentissero meglio di debolezza, che di prudenza.
Accrebbe la difficoltà una causa generosa. Erasi il conte di Provenza,
fratello di Luigi decimosesto re di Francia, fuggendo il furore dei
nemici della sua casa, condotto a Torino, dove accolto cordialmente, e
con tutti i termini dovuti al suo grado ed alla sua disgrazia dal re
Vittorio Amedeo suo suocero, se ne viveva quietamente, aspettando che la
fortuna più favorevole aprisse qualche adito alla salute della Francia,
e di tutti i suoi. Ma essendo i repubblicani tanto avidi del suo sangue,
comparsi, prima sulle cime dell'Alpi, poscia sull'aprirsi delle valli, e
già insistendo sulle pianure del Piemonte in atto minaccevole, stimò
bene di allontanarsi da quella tempesta, e di andarsene, fidandosi
nell'integrità del senato Veneziano, a cercar asilo sulle terre di una
repubblica, giacchè alcuni fra i più potenti principi d'Europa non lo
volevano raccorre nelle proprie. Seguitavano il conte di Provenza, che
sotto nome incognito si chiamava il conte di Lilla, parecchi fuorusciti
di Francia, tra i quali principalmente si notavano il duca di Avaray, ed
il conte d'Entraigues. Il senato Veneziano pietosamente risguardando ad
un tanto infortunio, sebbene presentisse le molestie che gliene
sarebbero venute da chi aveva la somma delle cose in Francia, accolse
umanamente ne' suoi stati il conte, solo desiderando ch'ei se ne vivesse
privatamente, nè desse luogo di sospettare al governo di Francia con
pratiche, ch'ei poteva tentare se fosse stato in propria balìa posto, ma
non doveva, trovandosi in grado di ospite in casa altrui. Ai desiderj
del senato Veneziano si conformarono le intenzioni del conte di
Provenza, il quale in tanta depressione di fortuna, non solo serbò la
costanza di uomo generoso, ma ancora si propose di non commettere atti,
dai quali potessero seguir danno, o pericolo agl'interessi altrui. Volle
egli far la sua dimora in Verona; dal quale desiderio essendo fatto
consapevole il senato, mandava al suo rappresentante, trattasse il conte
a quella guisa che ricercavano le sue virtù, e la sventura da cui era
combattuto; riconoscesse anche in lui nei colloqui privati l'altezza del
grado, ma pubblicamente si astenesse di usare verso di lui di quegli
atti, coi quali si sogliono riconoscere i principi. Nella quale
emergenza il rappresentante con tanta destrezza si maneggiò, che ed il
conte ne restò soddisfatto, e non diede fondati motivi al governo di
Francia di querelarsi; il che però, siccome suole avvenire, che i forti
usano la vessazione, come i deboli il sospetto, non impedì punto le
querele nè in Francia, nè in Basilea, nè in Venezia da parte del
Robespierriano governo e de' suoi agenti; che se mai i Veneziani ebbero