Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I - 02

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Castiglione, ambedue parti principalissime delle maremme, eransi ridotte
a stato tollerabile. Speravasi meglio, anzi il finale intento: usavansi
le colmate per le acque dell'Ombrone, e della Bruna, introdotte ai tempi
delle torbe; usavansi canali, e cateratte in più opportuni siti
trasportate.
Oltre a ciò Leopoldo, mosso dal pensiero che le popolazioni scarse fanno
l'aria insalubre, le abbondanti sana, allettò con premii ed esenzioni
tanto i paesani, quanto i forestieri, principalmente gli abitatori
dell'agro romano, a fermar la sede loro nella maremma. Pagassesi
dall'erario il quarto del prezzo delle nuove case ai fondatori; dessersi
terre o gratuitamente, od a basso prezzo, od a carico di livelli, od in
enfiteusi; dessesi anco denaro a presto, e sicuro asilo a chi vi si
venisse a ricoverare. Per questo e crebbe la popolazione, ed i terreni
si coltivarono, e l'aria risanò. Peggiorarono poi le opere per le
difficoltà dei tempi. Pure rimangono, e forse ancora lungo tempo
rimarranno nelle maremme sanesi i vestigi della generosità di Leopoldo.
Nè minor lode meritano gli ordinamenti di questo giusto e magnanimo
principe circa il debito dello stato. Più di tre mila luoghi di monte
furono cancellati, restituiti i capitali ai creditori col ritratto dei
beni venduti spettanti a regie e pubbliche aziende, impiegando a questo
uso anche i capitali provenienti dalla dote e contraddote della regina
sua moglie, ed altri constituenti parte del patrimonio suo privato. In
tal modo si spense in gran parte il debito, che tanto gravava l'erario:
così mentre in altri luoghi d'Italia il debito dello stato montava
continuamente, non per altro fine che per crear soldatesche, in Toscana
per opera di Leopoldo il debito medesimo si estingueva per fondarvi un
governo dolce, quieto per se, sicuro pei vicini.
Nè per questo tralasciavansi provvedimenti di utilità o di ornamento;
perciocchè nel tempo medesimo sorgevano scuole per ogni ceto,
conservatorii, case di rifugio e di ricovero, ospizi ed ospedali: gli
studi di Pisa e di Siena meglio s'ordinavano: nuovi palazzi fondavansi,
gli antichi s'abbellivano, nuovi passeggi si aprivano, lo librerìe
s'arricchivano, il gabinetto di fisica s'accresceva, ed un orto botanico
si piantava.
Tra mezzo a tutto questo il principe, siccome quello che giusto era e
sincero, non volle starsene oscuro. E però fe' pubblicare la
dimostrazione per entrata e per uscita delle rendite dello stato dal
1765 fino al 1789. In questo quasi specchio dell'economia di Toscana
vedonsi ed i risparmi fatti, e le imposizioni moderate, ed il denaro
convertito in cause pietose di sollievo, o d'ornamento pubblico.
Sonmi io fermato lungo spazio nel parlare della sapienza civile di
Leopoldo, perchè a ciò fare m'invitava il grandissimo diletto ch'io ne
prendeva, e perchè pur troppo il filo della mia storia guiderammi a
favellare di casi di gran lunga da questi dissomiglianti; nè credo, che
chi mi leggerà, se fia d'animo benigno, m'accagionerà di essermene
andato per le lunghezze, o di essermi dimorato alquanto in questa
dolcezza; poichè dolcezze tali son rare per gli storici, in tanta
infelicità dell'umana condizione.
Ma è tempo oramai ch'io venga a discorrere delle riforme fatte in
Toscana da Leopoldo nell'ecclesiastiche discipline, materia di tanta
gravità, e che destò tanto grido e tanta aspettazione d'uomini sì in
Italia, che fuori di essa. Gli antichi Toscani più propensi a dar
ricchezze ai conventi che alle parrocchie, lasciarono quelli ricchi,
queste povere. Le massime larghe dei gesuiti, e la constituzione
UNIGENITUS erano state accettate senza opposizione alcuna in Toscana. Ma
quando fu assunto al vescovato di Pistoia l'Ippoliti, i libri degli
scrittori di Porto-Reale incominciarono ad andar per le mani degli
ecclesiastici. Arnauld, Nicole, Dughet, Gourlin, Quesnel, diventarono i
libri favoriti dei preti. Questa inclinazione verso la scuola di
Porto-Reale molto s'accrebbe, quando Scipion Ricci successe all'Ippoliti
nella sede vescovile di Pistoia. Se ne compiacque Leopoldo, e convocò
nel 1787 un'assemblea dei vescovi di Toscana, proponendo loro cinquanta
sette punti, tutti relativi alla riforma dell'ecclesiastica disciplina.
Molti s'accordarono, altri si modificarono, alcuni si serbarono a tempi
migliori.
Il principe, avuto il parere di prelati venerabili per dottrina e per
integrità di costumi, procedè più francamente alle riforme. Stabilì, le
parrocchie dessersi a concorso, s'aumentassero i redditi loro, veruna
tassa più non pagassero ai vescovi forestieri, annullassersi le pensioni
di qualunque sorte sopra i benefizi curati, permutassesi la destinazione
dei fondi vincolati ad usi religiosi, e indifferenti, o poco utili, ed
il provento di tali capitali in aumento delle scarse congrue dei parochi
più bisognosi s'impiegasse; con questo, ed in compenso di tali
concessioni, i rettori delle cure dall'esazione delle decime, e da altri
emolumenti di stola desistessero; i parochi alla residenza obbligati
fossero; niuno più di un benefizio goder potesse, ancorchè semplice,
massimamente se residenziale fosse; tutti i sacerdoti che benefizio
residenziale avessero, fossero alla chiesa, ov'era fondato, incardinati,
e tutti i sacerdoti semplici, alla chiesa parrocchiale, dove abitassero,
e ciò con dipendenza dal paroco, ed obbligo di aiutarlo nel pio suo
uffizio; i benefizi tanto di collazione ecclesiastica, quanto di nomina
regia, a chi servito avesse od attualmente servisse la chiesa, solo ed
unicamente si conferissero; i regolari ed i canonici dal paroco
dipendessero, e ad aiutarlo in tutto che abbisognasse obbligati fossero;
alla sussistenza degli ecclesiastici o poveri, od infirmi provvedessesi;
i romiti, salvo quelli che utili fossero, abolissersi; tutte le
compagnie, congregazioni, e confraternite sopprimessersi; a tutte
sostituissersi le sole compagnie di carità; le chiese, oratorii,
refettorii, e stanze delle compagnie soppresse ai parochi gratuitamente
si consegnassero; i religiosi regolari dal vescovo dipendessero; l'abito
non vestissero prima dei dieciott'anni, non professassero prima dei
ventiquattro; le religiose non prima dei venti vestissero, non prima dei
trenta professassero; il tribunal del sant'officio s'annullasse; le
censure di Roma, per quanto si risolvono in pene temporali, ed i
monitorii di scomunica, senza il regio consenso non s'eseguissero, nè
pubblicarsi, nè intimarsi, nè attendersi nel foro esterno potessero;
s'intendesse abolito il privilegio degli ecclesiastici di tirar i laici
al foro loro, e nelle cause criminali in tutto e per tutto ai laici
parificati fossero; le curie ecclesiastiche e delle cause meramente
spirituali conoscessero, e pene puramente spirituali definissero; gli
ordinarii ogni due anni il sinodo diocesano, per conservare la purità
della dottrina e la santità della disciplina, convocassero.
Queste deliberazioni del principe toscano, ancorchè molestissime alla
corte di Roma, non toccavano però la sostanza stessa di quell'autorità
pontificia, che già da più secoli o tacitamente consentita, o
espressamente riconosciuta dalla chiesa pretendono i papi aver piena ed
intiera. Tengono i curialisti romani quest'opinione, che il papa sia
solo vicario, e rappresentante di Cristo, e suo plenipotenziario; e che
tutti gli altri vescovi del mondo siano vicari, non di Cristo, ma del
pontefice romano, cosicchè nella chiesa non vi sia veramente che un
vescovo solo universale, che riceva da Cristo tutto il deposito
dell'autorità ecclesiastica da comunicarsi da lui con misura a' suoi
subalterni. Ma a quelle deliberazioni non si rimase Scipion Ricci,
vescovo di Pistoia, che intento sempre a voler ritirare il governo della
chiesa verso i suoi principii, aveva già opinato nell'assemblea dei
vescovi di Toscana, acciò si ampliassero le facoltà, non che dei
vescovi, dei parochi, volendo, a foggia dell'antica comunanza dei
Cristiani, che gli uni e gli altri avessero voce deliberativa nei sinodi
diocesani. Statuì poi nel suo sinodo, avere il vescovo ricevuto da
Cristo immediatamente tutte le facoltà necessarie al buon governo della
sua diocesi, nè potersi le facoltà medesime od alterare, od impedire, e
poter sempre, e dovere un vescovo nei suoi dritti originari ritornare,
quando l'esercizio loro fu per qualsivoglia cagione interrotto, se il
maggior bene della sua chiesa il richiegga. Le quali proposizioni fecero
assai mal suono alle orecchie romane, per guisa, che Pio VI come
erronee, ed anche come scismatiche, alcuni anni dopo, le condannò.
Aggiunse il Ricci alcune altre dottrine, che parvero e temerarie ed alla
santa sede ingiuriose; essere una favola pelagiana il limbo dei
fanciulli, un solo altare dover essere in chiesa secondo il costume
antico; la liturgia ed esporsi in lingua volgare, e ad alta voce
recitarsi; il tesoro dell'indulgenze esser trovato scolastico, chimerica
invenzione l'averlo voluto applicar ai defunti; la convocazione del
concilio nazionale esser una delle vie canoniche per terminar le
controversie circa la fede ed i costumi. In fine sommamente dispiacque a
Roma quella proposizione del sinodo pistoiese, per la quale i quattro
articoli statuiti dal clero gallicano nell'assemblea del 1682 si
approvarono, e questa particolarmente Pio Sesto con una sua bolla tassò,
e dannò come temeraria, scandalosa, ed alla santa sede ingiuriosa.
Le dottrine del sinodo pistoiese levarono un gran rumore in Italia,
massimamente quando furono condannate da Roma. Scritti senza numero vi
si pubblicarono da persone dottissime nella storia ecclesiastica, alcuni
in favor di Roma, molti in favor di Pistoia, e fra Pistoia e Roma
pendeva sospesa la lite. Allegavasi dai papisti, incominciare a por
piede in Italia l'eresie di Lutero; dai difensori del Ricci, un salutar
freno incominciarsi a porre alla prepotenza di Roma. Gli ultimi, tra
perchè pretendevano ai discorsi loro parole santissime di semplicità e
di parsimonia, e perchè inclinavano a favore dei più, e perchè
finalmente era divenuta intollerabile a tutti la potenza eccessiva di
Roma, molto s'avvantaggiavano sugli avversari loro, ed andavano ogni dì
maggior favore acquistando.
Queste ferite tanto più addentro andavano a penetrare nel cuore del
pontefice, quanto più nel regno stesso di Napoli le medesime, o poco
dissomiglianti dottrine si professavano. Pareva a tutti, ed ai principi
massimamente, che le dottrine, che in Toscana prevalevano, non solo la
disciplina trascorsa ristorassero, ma ancora la potenza temporale alla
libertà, ed alla debita indipendenza dai romani pontefici restituissero.
Perlochè con piacere si abbracciavano, con celerità si propagavano, con
calore si difendevano. Ma nel regno delle due Sicilie erano alcuni
particolari motivi, per cui le medesime dottrine, che suonavano parole
tanto gradite di libertà e d'indipendenza, fossero dal governo medesimo
più volonterosamente ed accettate e difese. Prima però di favellare di
queste controversie, fia d'uopo raccontare qual fosse lo stato del
regno, e quali le opinioni e le affezioni che vi predominavano,
rincrescendoci già fin d'ora, che principii che spiravano umanità e
beneficenza, siano stati poi seguitati, per la malvagità dei tempi,
dalle più orribili, e lagrimevoli tragedie, di cui ci abbiano gli
storici tramandato la memoria. Tanto, o l'ardor del cielo, o l'atrocità
delle ingiurie, o il desiderio immoderato della vendetta, o tutte queste
cagioni unite insieme fanno trascorrere sempre fino agli estremi le cose
in quella parte d'Italia.
Essendo il re Carlo di Borbone salito sul trono di Spagna nel 1750, cedè
il regno delle due Sicilie a Ferdinando Quarto, suo figliuolo
secondogenito, constituito allora nella tenera età di nove anni. Creata
prima di partire la reggenza, pose per moderatore della giovinezza del
nuovo re il principe di S. Nicandro. Questi privo di ogni sorte di
lettere, non potendo insegnare altrui quello che non sapeva egli
medesimo, insegnò al regio alunno la pesca, la caccia, ed altri cotali
esercizi di corpo. Di questi s'invaghì il giovane Ferdinando, che ne
prese poscia in tutti i tempi di sua vita grandissimo diletto. Ma crebbe
poco instrutto di ciò che importa alla vita civile, ed al governo degli
stati. Pure amava chi sapeva, e di consigliarsi con loro. Piacque alla
fortuna, qualche volta pure favorevole ai buoni, che a quei tempi avesse
grandissima introduzione e principal parte nei consigli napolitani il
marchese Tanucci, uomo dotto, di libera sentenza, mantenitor zelante
delle prerogative reali, ed avverso alle immunità ecclesiastiche,
massime in materie criminali. Dava il re facile orecchio alle parole
sue; però il governo del regno procedeva con prudenza e con dolcezza.
Speravasi qualche moderazione alla tirannide feudale, che in nissuna
parte d'Italia erasi conservata più gravosa, che in quel regno,
principalmente nelle Calabrie. I baroni, possessori dei feudi, nemici
egualmente dell'autorità regia e del popolo, quella disprezzavano,
questo tiranneggiavano. Oltre i soliti bandi della caccia, della pesca,
dei forni, dei mulini, essi nominavano i giudici delle terre, essi i
governatori delle città; per loro erano le prime messi, per loro le
prime vendemmie, per loro le prime ricolte degli oli, delle sete, e
delle lane; per loro ancora i dazi d'entrata nelle terre, i pedaggi, le
gabelle, le decime, ed i servigi feudatarii. Insomma erano i popoli
vessati, l'erario povero, l'autorità regia manca. Sì fatte enormità,
tanto discordanti dal secolo, non potevano nè sfuggire a Tanucci, nè
piacere ad un re di facile e buona natura. Però con apposite leggi
furono moderate. Inoltre Tanucci chiamò i baroni alla corte; il che fu
cagione che, raddolciti i costumi loro, diventarono più benigni verso i
popoli.
Quanto agli stati esteri, questo ministro, amico a tutti, pendeva per la
Francia: ciò spiacque a Carolina d'Austria, fresca sposa di Ferdinando,
donna d'animo imperioso ed aspro. Fu dimesso Tanucci, e surrogati in suo
luogo, prima il marchese della Sambuca, poi Acton, uomini di natura
consenziente a quella della regina; prevalsero allora le parti
d'Austria.
Pure le salutari riforme si continuarono; parecchi privilegi baronali
furono aboliti, i pedaggi soppressi, migliori speranze nascevano
dell'avvenire. Gli animi si mostravano disposti. Aveva Filangeri
filosofo pubblicato i suoi scritti, nei quali non saprei dire, se sia
maggiore la forza dell'ingegno, o l'amore dell'umanità. Erano con
incredibile avidità letti, e con grandissime lodi celebrati da tutti.
Sorse allora universalmente un più acceso desiderio di veder lo stato
ridotto a miglior forma. Volevasi una libertà civile più sicura, una
libertà politica maggiore, una tolleranza religiosa più fondata. Nè a
questa inclinazione dei popoli contrastava il governo, non ancora
insospettito dalla rivoluzione di Francia.
Nel regno di Napoli specialmente più si desideravano le riforme, perchè
più erano necessarie, e maggiori radici avevano messe le generose
dottrine, massime fra i legisti. Gran confusione ancora era nelle leggi:
vivevano tuttavia quelle degli antichi Normanni, viveano quelle dei
Lombardi, nè le leggi dei due Federici, nè le aragonesi, nè le angioine,
nè le spagnuole, nè le austriache erano del tutto dismesse. Quindi niun
diritto in palese, nè niuna lite terminabile. La gravità del male faceva
più desiderare il rimedio, principalmente negli ordini giudiziali, per
le dette ragioni imperfettissimi.
Ma queste cose meglio si conoscevano per dottrina che per esperienza;
desideravasi qualche saggio pratico dell'utilità loro. Aveva il re,
mentre viaggiava in Lombardia, visitato le cascine, per cui tanto sono
celebrate le pianure del Parmigiano, e del Lodigiano. Piacquergli opere
tali, ne fondò una a San Leucio, luogo poco distante da Caserta. La
colonia cresceva. Gli amatori delle riforme tentarono Ferdinando
dicendo, che, poichè era stato il fondatore di S. Leucio, fossene anche
il legislatore; l'ottennero facilmente. Statuì il re delle leggi della
colonia, per cui venne a crearsi nel regno uno stato indipendente, di
cui solo capo era il re. Dichiarossi la colonia indipendente dalla
giurisdizione ordinaria, e solo soggetta ai capi di famiglia, ed agli
anziani di età; gli atti appartenenti alla vita civile, massime al
matrimonio, reggevansi con forme, e regole speciali, ogni cosa in
conformità delle dottrine di Filangieri. Con queste leggi particolari
prosperava dall'un canto continuamente la colonia, dall'altro il re
vieppiù se n'invaghiva, e vedutone il frutto in pratica, diventava ogni
dì meno alieno da quei pensieri, che gli si volevano insinuare. Appoco
appoco si distendevano nel popolo, ed il desiderio di nuovi ordini
andava crescendo, parendo ad ognuno, che quello che per l'angustia del
luogo era fino allora utile a pochi, sarebbe a tutti, se con la debita
moderazione a tutti si estendesse.
Questi consigli tanto più volentieri udiva Ferdinando, quanto più coloro
che gliene porgevano, erano appunto i più zelanti difensori della
autorità e dignità sua contro la corte di Roma. Già s'era Tanucci
dimostrato molto operativo in questo negozio delle controversie romane.
Già per consiglio suo erasi soppresso il tribunale della nunziatura in
Napoli, a cui erano chiamate in appello avanti il nunzio del papa tutte
le cause, nelle quali qualche ecclesiastico avesse interesse; fu anche
troncato ogni appello a Roma. Pareva in fatti abuso enorme, che un
principe forestiero esercitasse giurisdizione, e rendesse giustizia
negli stati di un altro principe. Era Tanucci stato anche autore, che la
corona di Napoli, e non la santa sede nelle vacanze dei benefizi
nominasse i vescovi, gli abbati, e gli altri beneficiati, che la
presentazione della chinea il giorno di S. Pietro in una offerta di
elemosina si cangiasse, che il nuovo re non s'incoronasse per evitar
certe formalità, che si usavano fin dai tempi dei re Normanni, e che la
sovranità romana sul regno indicavano. Per consiglio suo medesimamente
si era diminuito il numero dei religiosi mendicanti, e soppressa la
società di Gesù. Parlossi inoltre di rendere i frati indipendenti dai
generali loro residenti a Roma, e d'impiegar una parte dei beni della
chiesa per allestir un navilio sufficiente di vascelli da guerra.
Tutte queste novità non si potevano mandar ad esecuzione senza
grandissime querele dalla parte di Roma; infatti elle furono molte. Ma
sorsero nel regno molti scrittori a difesa della libertà, e della
indipendenza della corona. I fratelli Cestari risplendevano fra i primi;
si accostò a loro l'arcivescovo di Taranto. Ma vivi soprattutto si
dimostrarono coloro, che desideravano un governo più largo, proponendosi
in tal modo, e ad un tempo medesimo di difendere la dignità della
corona, e di combattere le prerogative feudali. Ciò andava a' versi a
Ferdinando grandemente sdegnato contro Roma; però ogni giorno più si
addomesticava con loro, e gli vedeva, e gli udiva più volentieri.
S'aggiunse, che Carlo di Marco, uno dei ministri del re, uomo di non
poca dottrina, dava lor favore, per quanto spetta alle controversie con
Roma.
Tale era lo stato del regno di Napoli, in cui si vede che i medesimi
tentativi si facevano, che nella Lombardia austriaca ed in Toscana circa
la disciplina ecclesiastica, ma con maggior ardore a cagione delle
controversie politiche con Roma. Rispetto poi alle riforme nelle leggi
civili, vi si era anche incominciato a por mano, ma con minor efficacia,
perchè Acton non se n'intendeva e ripugnava; la regina, che se
n'intendeva, ripugnava ancor essa; ed il re occupato ne' suoi geniali
diporti, amava meglio che altri facesse, che far da se. Da ciò nasceva,
che gli umori non si sfogavano, ed il negato si appetiva più avidamente.
La Sicilia, parte tanto essenziale del regno di Napoli, si reggeva con
leggi particolari. Da tempi antichissimi ebbe un parlamento di tre
camere dette Bracci, ch'erano gli ordini dello stato. Una chiamavasi
Braccio militare, o baronale; in questo sedevano i signori, che avevano
in proprietà loro popolazioni, almeno di trecento fuochi. L'altra
intitolavasi Braccio ecclesiastico; entravano in questo tre arcivescovi,
sei vescovi e tutti gli abati, ai quali il re conceduto avesse abbazie.
La terza aveva nome Camera demaniale; era composta dai rappresentanti di
quelle città che non appartenevano ai baroni, e che demaniali si
chiamavano; cioè del dominio del re. Perciocchè due sorte di città avea
la Sicilia, baronali, e libere. Le prime erano quelle che stavano
soggette ad un barone, le seconde quelle che dipendevano immediatamente
dal re, e si reggevano con le proprie leggi municipali. Accadeva spesso,
che un solo barone avesse più voti in parlamento, per essere feudatario
di più terre. Lo stesso accadeva, e per la medesima ragione, degli
ecclesiastici; lo stesso ancora dei deputati delle città, dando più
città il mandato ad una persona medesima. Capo del Braccio baronale
tenevasi il barone più antico di titolo, dell'ecclesiastico
l'arcivescovo di Palermo, del demaniale il pretore della medesima città:
adunavasi anticamente il parlamento ogni anno; poi fu fatto
quadriennale. Prima di Carlo V faceva le leggi; dopo venne ridotto a
concedere i donativi.
Da questo si vede, che il nervo principale del parlamento siciliano
consisteva nei baroni, perchè più ricchi erano, e più numerosi. Ma ben
maggior era la potenza loro nelle terre, a cagione dei privilegi
feudali. Rimediovvi in parte Caraccioli, vicerè; pure i vestigi
feudatarii vi erano ancora gravi. Del resto le opinioni del secolo poco
avevano penetrato in quell'isola; ma quello che non dava l'opinione, il
potevano dare facilmente gli ordini dello stato.
Questa che abbiamo raccontata, era la condizione del regno delle due
Sicilie verso l'ottantanove; ma poco diversa appariva quella del ducato
di Parma e Piacenza, dove come a Napoli, regnava la famiglia dei Borboni
di Spagna. Anche in questi luoghi vedevasi sorta una maggior perfezione
del vivere civile, e le contese con la sedia apostolica pel medesimo
fine delle investiture avevano aperto il campo ad investigazioni a
diminuzione dell'autorità romana. Quando l'infante D. Filippo governava
il ducato, era in lui grande l'autorità del francese Dutillot, il quale
nato di poveri parenti in Baiona, era salito per la virtù sua al grado
di primo ministro. Era stato appunto mandalo Dutillot dalla corte di
Francia al duca Filippo, acciocchè lo consigliasse intorno agli affari
che correvano con la corte di Roma, temendosi che in quella nuova
possessione del ducato, ella volesse dare qualche sturbo in virtù dei
diritti di superiorità sovrana, che pretendeva in quello stato. Per
verità se grande fu la fede che la Francia ed il duca Filippo ebbero in
Dutillot, non furono minori la sua destrezza, e la prudenza. Chiamò a se
i più famosi ingegni d'Italia, tra i quali non è da tacersi il teologo
Contini, uomo dottissimo nelle scienze canoniche, ed il Turchi,
cappuccino di molte lettere, di notabile eloquenza, ed amatore delle
libertà ecclesiastiche, benchè, fatto vescovo, abbia poi mutato, non
dirò opinione, ma discorso; ma tanto per opera di Dutillot si
dirozzarono i costumi in quella bella parte d'Italia, e tanto vi
prosperarono le buone arti, che il regno di D. Filippo ebbe fama del
secol d'oro di Parma. Certo, città nè più colta, nè più dotta di Parma
non era a quei tempi, nè in Italia, nè forse anche altrove. Crearonsi,
per consiglio del Paciaudi, a questo fine chiamato da Roma, più perfetti
ordini nell'università degli studi, un'accademia di belle arti, una
magnifica libreria; e perchè con gli ordini buoni concorressero i buoni
insegnamenti, ed i buoni esempi, vennervi, chiamati da diversi paesi,
oltre Paciaudi, e Contini, anche Venini, Derossi, Bodoni, Condillac,
Millot, Pageol. Fra i buoni esempi Dutillot medesimo non era degli
ultimi, scoprendosi in lui decoro, facondia, cortesia, e tutte quelle
parti che a perfetto gentiluomo si appartengono: arricchivasi al tempo
stesso, ed abbellivasi il ducato per manifatture o fondate o ristorate,
per edifizi, per strade, per pubblici passeggi. Così passò il regno di
D. Filippo assai felicemente sotto la moderazione di Dutillot.
Morto poi nel 1765 il duca Filippo, e devoluto il ducato nel duca
Ferdinando, ancor minore d'età, Dutillot continuò a governar lo stato
con la medesima sapienza. A questo tempo sorse una grave controversia
tra il governo del duca e la corte di Roma; imperciocchè avendo il duca
mandato fuori una sua prammatica intorno alle mani morte, ed un editto,
che le obbligava al pagamento delle gravezze pubbliche, il papa Clemente
XIII pubblicò in Roma un breve monitorio, con cui dichiarò nulle quelle
ordinazioni sovrane di Parma, come provenienti da autorità non idonea a
farle, e lesive dell'immunità ecclesiastica, ammonendo eziandio, che
tutti coloro, che cooperato vi avevano, erano incorsi nelle censure
ecclesiastiche, da cui non potessero essere assolti in nissun caso,
eccettuato l'articolo di morte, se non da lui stesso, o dal pontefice,
che dopo di lui sulla cattedra di San Pietro sedesse. Dutillot difese
con non ordinaria franchezza e prudenza il diritto sovrano del duca,
alla quale difesa diedero non poco favore molti scritti pubblicati da
uomini dotti in tale proposito.
Questi accidenti concitarono contro Dutillot l'odio, e l'arti dei
papisti già entrati molto addentro nella buona grazia del giovinetto
principe. Ciò non ostante in tutto il tempo, in cui questi fu minore
d'età, non perdè il ministro dell'autorità sua. Quando poi, giunto
all'età di diciott'anni, assunse il governo, s'indrizzarono i suoi
pensieri ad altro fine. Perchè congedato Dutillot, il principe si
governò intieramente a seconda dei papisti. Il tribunale
dell'inquisizione fu instituito in Parma, ma mostrò mansuetudine; nè
aspro fu il reggimento del duca; le tasse assai moderate. Era molesto a
molti il rigore eccessivo, che si usava per far osservare certe pratiche
di esterior disciplina. In questo i popoli non potevano dir del
principe, che altro suono avessero le sue parole, ed altro i fatti;
poichè ei dava le udienze in sagrestia, ei cantava coi frati in coro,
egli addobbava gli altari, ei suonava le campane, egli ordinava i santi
nel calendario dell'anno. Ma mentre il duca pregava, i popoli si
erudivano, nè Parma perdette il nome, che si era acquistato, di città
dotta e gentile.
Sedeva a questi tempi, come abbiam già detto, sulla cattedra di san
Pietro il sommo pontefice Pio VI, destinato dai cieli a sostenere il
colmo della prospera, e dell'avversa fortuna. Il suo antecessore
Clemente XIV da povero fraticello salito, per le virtù sue, alla
grandezza del papato, aveva in tanta sublimità conservato quella
semplicità di costumi, e quella modestia di vita, alle quali nella
solitudine dei chiostri s'era avvezzato. Ciò parve a molti, in una Roma,
nel primo seggio della Cristianità, ed in tanta non solo curiosità
d'indagine, ma ancora inclinazione alla miscredenza, che nei popoli di
quell'età molte evidentemente apparivano, cosa altrettanto intempestiva,
e pericolosa, quanto era in se lodevole, e virtuosa; perchè ove gli
argomenti non persuadono, le virtù non muovono, e per ultimo rimedio si
deve por mano alla pompa, imperciocchè gli uomini facilmente credono
esser la ragione dove vedono la grandezza: ed il rispettare è principio
del persuadersi.
Questi pensieri tanto operarono nella mente dei cardinali, che, morto
Clemente, chiamarono papa il cardinal Braschi, che già fin quando era
tesoriero della camera apostolica aveva mostrato in tutte le azioni non
ordinario splendore. Veramente erano in lui, forse più che in altr'uomo
de' suoi tempi, molto notabili l'eccellenza delle forme, la facondia del
discorso, la finezza del gusto, la grandezza delle maniere, procedendo
in ogni affare con tanta grazia giunta a tanta maestà, che e la
venerazione verso la persona sua, ed il rispetto verso la sede ne
venivano facilmente conciliati. Vero è, che tale generosa natura dava
spesso, come suol avvenire, nell'eccesso contrario; perchè s'era bello
d'aspetto, voleva anche comparir tale, forse più che al suo grado
s'appartenesse; l'eloquenza sua sentiva talvolta di eccessiva
squisitezza, e la grandezza peccava non di rado di vanità; del resto
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